La cancellazione dei treni a lunga percorrenza veniva così annunciata l’11 dicembre 2011 dal quotidiano “La Stampa”: “Ultimo viaggio: da oggi niente più collegamenti diretti tra Sud e Nord; per risalire lo Stivale bisognerà fare almeno una tappa a Roma o, in direzione contraria, a Bologna. Addio, proprio nell’anno centocinquantesimo dell’Italia unita, al Treno del Sole, ma anche al Conca d’Oro (Palermo-Milano), al Freccia del Sud (Catania-Milano), al Treno dell’Etna (Siracusa-Torino), alla Freccia della Laguna, il Palermo-Venezia. Tutti vagoni protagonisti di una seconda unificazione del Paese, con l’incontro-scontro tra dialetti e culture, l’emigrazione di massa, la partecipazione degli operai meridionali al boom economico nazionale”.
Del resto, ormai è l’epoca dei voli low-cost, delle navi veloci, delle potenti auto noleggiate ovunque. Chi resisterebbe oggi (oggi che c’è l’aria condizionata nelle carrozze, peraltro) alle 25 ore di viaggio dell’antico direttissimo “Treno del Sole”, Torino Porta Nuova – Palermo?
Ma io non posso dimenticarlo, questo treno.

Ho trovato un antico orario ferroviario del 1955. Per dare un’idea dei tempi di percorrenza, leggete qui: Torino P.N. 20,05, Genova Principe 22,39/22,43, Genova Brignole 22,48/23,01, La Spezia 0,17, Pisa Centrale 1,15, Livorno 1,37, Roma Ostiense 5,10/5,25, Napoli Centrale 7,55/8,10, Salerno 9,08, Paola 12,38, Sant’Eufemia Lamezia 13,35, Villa San Giovanni 15,43/16, Messina 17/17,30, S. Agata Militello 19,17, Cefalù 20,30, Termini Imerese 21,07, Palermo Centrale 21,45. 25 ore di viaggio! Con gli anni il tempo si ridusse a circa 22 ore, ma siamo lì…
Io ho viaggiato, si può dire dalla mia nascita, sul Treno del Sole da Genova Brignole a Palermo, ogni anno in estate e spesso anche a Natale. Mia madre raccontava che al mio primo viaggio avevo soltanto tre mesi e mezzo; gli altri passeggeri, entrando nello scompartimento di seconda classe, vedendo un bambino così piccolo si preoccupavano (“ma sta buono?” chiedevano sempre). Ma io ero un angelo (allora) e il viaggio scorreva sereno e tranquillo.
Ricordo che in Sicilia, quando ero bambino, la linea ferroviaria non era ancora elettrificata; quando si arrivava a Messina veniva agganciata una locomotiva a vapore (io dicevo “il treno col fumo”) e con questa si proseguiva (anzi, credo che nel primo tratto peloritano fosse messa anche una seconda locomotiva in coda a spingere il convoglio). In galleria bisognava chiudere i finestrini, se no la fuliggine entrava negli scompartimenti.
Ricordo gli arrivi a Palermo: c’era prima, immancabile, dopo le ventiquattr’ore di viaggio, la sosta di almeno cinque minuti al semaforo sempre rosso di Brancaccio (e che si poteva arrivare subito, “in Paliemmu”?). Infine il treno entrava sferragliando alla Stazione Centrale.
Ma per noi il viaggio non era ancora finito; infatti, ammesso che il treno arrivasse in orario (cosa rarissima), c’era ancora da raggiungere Bagheria.
Al “transfer” (oggi si direbbe così) pensavano gli eroici parenti che ci venivano a prendere, in un’epoca in cui, per i parenti “prelevanti”, non esisteva nessuna notizia attendibile su dove fosse arrivato il treno; a volte quindi – mischini – aspettavano per ore, approfittandone per una passeggiata in via Roma. Ricordo gli abbracci, i baci alla stazione, i “come è fatto grande”; ricordo il sonno tenace che mi chiudeva gli occhi quando salivo sulla macchina che ci portava in paese, le chiacchiere dei parenti in dialetto con i miei genitori.
E ricordo l’arrivo in casa della nonna, dove ogni anno, immancabilmente, all’arrivo (dopo le 23 in genere) mancava la luce. “A luce livaru” è stata la frase più ricorrente a Bagheria fino agli anni Sessanta: la luce andava via per il passaggio di un moscerino, per un refolo di vento, per un piccolo guasto improvviso; e tornava dopo ore. Ricordo dunque le ombre dei parenti che ondeggiavano alla luce tremula delle candele. Dopo la cena (fossero state pure le due di notte si cenava), si andava a letto nella stanza in soffitta (le case di paese si sviluppavano in verticale), nel silenzio rotto soltanto dall’abbaiare dei cani nelle strade e con un caldo impietoso che faceva subito capire il salto di latitudine.
Negli anni Sessanta nel Treno del Sole cominciarono a esserci le carrozze a cuccette (ne montavano sei in II classe e quattro in I): mio padre due mesi prima della partenza andava a prenotare le cuccette. Ricordo le corse affannose che ci toccava fare alla stazione Brignole, ove la sosta del Treno del Sole era stata con gli anni ridotta a soli 3’, per trovare la carrozza a cuccette. Non c’era nessuna indicazione preventiva: dovevamo dunque cercare il vagone giusto, correndo letteralmente lungo il convoglio, con le pesanti valigie a mano dell’epoca (ma ci voleva tanto a inventare i trolley?), finché si arrivava finalmente alla meta e si saliva.
Ricordo distintamente le notti semi-insonni in questi loculi insopportabili, il dormiveglia con lo stantuffare del treno (tatan tatan / tatan tatan), i fischi della locomotiva, le fermate in aperta campagna e soprattutto le poche soste notturne alle stazioni, rese riconoscibili sia dal gracchiare degli altoparlanti (voci umane, allora: “Stazione di Pisa Centrale. Treno direttissimo Palermo-Torino Treno del Sole è in partenza al binario 1”) sia dalle ben differenziate inflessioni dialettali dei venditori di caffè (a Roma Ostiense “càffe cardo, càffe cardo”, a Napoli “caffè caffè”).
A Napoli “si cambiava direzione”; infatti si entrava alla Centrale viaggiando apparentemente in un senso e se ne usciva all’indietro andando in un altro. Il risveglio mattutino era rallegrato dalla vista meravigliosa della Costiera Amalfitana. Tatan tatan, tatan, tatan.
Non c’era, allora, l’invasione di venditori ambulanti, di facce patibolari, di questuanti di ogni tipo. Passavano tutt’al più il servizio ristoro (migliore di quello che toccò poi a Fantozzi), il bigliettaio, il cuccettista. Noi eravamo tre e c’erano almeno altri tre viaggiatori; se andava bene, si chiacchierava con loro. Il viaggio, lunghissimo, passava giocando a carte, leggendo (quanti Topolino, quanti Blek Macigno, quanti Classici dell’Audacia mi sono letto in treno!), affacciandosi nel corridoio. Tatan tatan, tatan tatan.
A proposito, ricordo la scritta in 4 lingue: “Non gettare alcun oggetto dal finestrino – Keine gegenstände aus dem Fenster werfen – Ne pas jeter aucun objet par la fenêtre – – Do not throw anything out of the window“: fu forse il primo input alla mia futura carriera di presunto poliglotta.
Nel lungo viaggio si mangiavano le provviste portate da casa (pane con la frittatina o con la cotoletta e frutta); l’acqua stava in borracce da Grande Guerra, calda sempre più di ora in ora. Tatan tatan.
La Calabria era infinita, lunghissima (non a caso in Sicilia dicono “le Calabrie”, come se fossero decine). Tatan tatan. Infine si vedeva lo Stretto; da fuori veniva allora un profumo inebriante, l’aria era tersa, cristallina. Iniziavano poi le snervanti manovre per imbarcarsi nel “ferribotte”. Avanti, indietro, staccare tre vetture; avanti, indietro, staccarne altre tre; avanti, indietro, ancora altre tre. E una voce in diretta che, con forte abile accento calabro, tuonava: “Durante l’imbacco del cèno è severamente vietato spoggersi”. Ma c’era sempre qualche incosciente che si sporgeva e rischiava di spappolarsi il cranio sui lisci muri del traghetto, che scorrevano a pochi centimetri dalla vettura. Quando finalmente eravamo a bordo, mio padre e io salivamo su (mia madre restava di guardia alle valigie); ci godevamo così la breve traversata. Il vento e l’aria erano una sferzata salutare dopo tante ore di lockdown (“invecchio imparando sempre qualcosa”, diceva Solone). Infine si vedeva la Madonnina: “Vos et ipsam civitatem benedicimus”. Eravamo in Sicilia, dovevamo ridiscendere nel treno. E si usciva, allo stesso estenuante ritmo pendolare. Avanti, indietro, attaccare tre vetture; avanti, indietro, attaccarne altre tre; avanti, indietro, ancora altre tre. E anche qui la voce in diretta, stavolta sicula, che tuonava: “Durante lo sbacco del cèno è severamente vietato spoggersi”.
Questo era il Treno del Sole. Epico, inimitabile, indimenticabile. Il mio bravo concittadino Bruno Lauzi lo mitizzò in una sua famosa canzone, “La donna del Sud” (peraltro troppo grondante di stereotipi): “Una donna di nome Maria / è arrivata stanotte dal Sud / è arrivata col treno del sole / ma ha portato qualcosa di più. / Ha portato due labbra di corallo / e i suoi occhi son grandi così, / mai nessuno che l’abbia baciata, / a nessuno ha mai detto di sì. / Ahi Maria, ahi Maria, ahi Maria! / Ha posato le ceste d’arance / e mi ha dato la mano perché / la portassi lontano per sempre, / la tenessi per sempre con me. / Io le ho dato la mano ridendo / e non gliel’ho lasciata mai più, / poi siam corsi veloci nel vento / per non farci trovare quaggiù”.

Un ultimo appunto sul viaggio di ritorno. Si partiva da Palermo la mattina. Un’intera giornata di viaggio (più malinconica dell’andata) per arrivare sul far della sera a Salerno, ove montavano le cuccette. Poi si sprofondava nel similsonno notturno. Tatan tatan, tatan tatan.
La mattina era qualcosa di straordinario, che non ho dimenticato mai in tutta la mia vita. Mi svegliavo e vedevo dal finestrino lampi di paesaggio ligure fra una galleria e l’altra, squarci sublimi di rocce e mare, fulmini di pini marittimi, nanosecondi di spiagge incantevoli, epifanie effimere di borghi colorati e pulitissimi. Tatan tatan, a velocità folle per quella regione aspra e stupenda, stretta e lunga, una folle corsa che terminava infine (supertatan supertatan) con lo sferragliare del moltiplicarsi dei binari, da uno a due a dieci a venti, con l’arrivo a Genova Brignole.
Si scendeva nell’aria pungente del primo mattino (allora il 30 agosto a Genova si metteva già la copertina di lana). Il lungo viaggio, anche per quella volta, era finito.
Poetico ed evocativo. Mi sono sentita sul treno