L’estate di Alceo

La grande estate mediterranea, che di questi tempi ci opprime con la sua asfissiante calura, non doveva essere molto diversa ai tempi del poeta Alceo di Mitilene, vissuto nell’isola di Lesbo fra il VII e il VI secolo a.C.

Infatti in un suo frammento (347 Voigt), in un’afosa giornata estiva, Alceo invita i compagni a “bagnare” i polmoni di vino; ora il cardo fiorisce e le donne sono quanto mai lascive, mentre gli uomini sono fiacchi, dato che Sirio (la stella della costellazione del Cane) “inaridisce” a tutti il capo e le ginocchia.

Ecco il testo, seguito dalla traduzione di Antonietta Porro:

Τέγγε πλεύμονας οἴνῳ, τὸ γὰρ ἄστρον περιτέλλεται,  

ἀ δ’ὤρα χαλέπα, πάντα δὲ δίψαισ’ ὐπὰ καύματος,

ἄχει δ’ἐκ πετάλων ἄδεα τέττιξ…

ἄνθει δὲ σκόλυμος, νῦν δὲ γύναικες μιαρώταται   

λέπτοι δ’ἄνδρες, ἐπεὶ <    > κεφάλαν καὶ γόνα Σείριος        

ἄσδει…

«Bagna i polmoni di vino: l’astro il suo giro ha compiuto.

La stagione è opprimente; assetato è tutto, sotto la calura.

Dolce risuona dalle frasche la cicala…

È in fiore il cardo: ed ora le donne son più lascive,

molli son gli uomini, giacché Sirio il capo e le ginocchia                     

inaridisce».

Il componimento di Alceo riecheggia volutamente un passo, ben più lungo, delle Opere esiodee (vv. 582-596) che descriveva la calura estiva: “Nel tempo in cui fiorisce il cardo, e la cicala canora stando su un albero diffonde la sua acuta canzone, senza sosta, da sotto le ali, nella stagione dell’estate spossante, allora le capre son molto grasse, ed ottimo è il vino, e le donne son molto lascive, gli uomini assai deboli, poiché Sirio brucia la testa e le ginocchia, e la pelle è secca per il calore. Ebbene, a questo punto, possa trovar l’ombra di una roccia, ed il vino Biblino, ed una focaccia impastata col latte, e il latte di capre asciutte (che non allattano più), e la carne di una giovenca nutrita nei boschi, che non ha ancora figli, e di agnelli primogeniti; ed in più, possa bere scintillante vino, stando seduto all’ombra, con il cuore sazio di cibo, con il viso rivolto al soffio del vivace Zefiro; possa da una sorgente perenne e che scorre pura, attinger tre parti di acqua, e aggiungere la quarta di vino!” (vv. 582-596, trad. Colonna).

L’esplicita ripresa del modello esiodeo evidenzia la squisita competenza letteraria del pubblico, costituito dai “compagni di eterìa” di Alceo, a lui legati da affinità sociali (la comune origine aristocratica), politiche e culturali; un pubblico assai competente, dunque, che era in grado di cogliere le allusioni (anche lessicali) al brano del poeta di Ascra.

Qualcuno ha parlato di una vera e propria “trascrizione” da parte di Alceo, nel proprio dialetto e in un nuovo metro; ma in realtà, rispetto ad Esiodo, le differenze prevalgono sulle affinità: è infatti evidente nel Mitilenese, fin dall’espressione iniziale (“Bagna i polmoni di vino”), un ritmo incalzante e vigoroso, che si contrappone al ritmo lento del passo esiodeo. In definitiva, come scriveva il Perrotta, “più descrittivo è Esiodo; più immediato, più sensuale Alceo”.

Le differenze col modello, poi, appaiono rilevanti.

Anzitutto l’esortazione a “bagnare” (τέγγε, v. 1) i polmoni di vino, assente nel passo esiodeo, risulta icastica, indicando il bisogno di sconfiggere l’arsura. Il riferimento poetico ai “polmoni” fu scambiato per ignoranza scientifica: Aulo Gellio, nelle sue Noctes Atticae, rileva infatti: “sia Plutarco che alcuni altri dotti personaggi hanno scritto che Platone fu criticato da Erasistrato, famoso medico, per aver detto che le bevande calano nel polmone…; tale errore fa capo ad Alceo, che nei suoi poemi scrisse: τέγγε πλεύμονας…” (XVII 11, 1, trad. Rusca; cfr. Platone Timeo 70 c, 91a e Simposio VII 1, 1). Plutarco tuttavia giustificava l’affermazione di Alceo, affermando che i polmoni, vicini allo stomaco, beneficiano dei liquidi bevuti (Questioni conviviali 697f – 698a).

Alceo allude poi a Sirio, la stella più splendente della costellazione del Cane Maggiore, che sorge e tramonta con il Sole dal 24 luglio al 26 agosto (il periodo appunto della “canìcola”, da Stella Canicula). Il nome della costellazione derivava forse dagli antichi Egizi, poiché avvisava (come un attento cane da guardia) dell’arrivo delle inondazioni del Nilo.

In seguito Alceo accentua, rispetto al modello, il senso di calura opprimente (χαλέπα, v. 2): “tutte le cose” (πάντα) sono bruciate dalla sete, mentre in Esiodo ad essere riarsa dalla calura era soltanto “la pelle” (cfr. Opere 588).

Molto suggestiva è la notazione acustica “dolce risuona dalle frasche la cicala” (v. 3); i Greci ritenevano la cicala sacra alle Muse (cfr. Platone Fedro 259 b-c) e a rendere questa dimensione quasi divina contribuisce l’uso del verbo ἄχει (= ἠχεῖ) “echeggia”, dato che le cicale sono invisibili ma il loro continuo frinire risuona tutt’intorno.

Alceo accenna poi a un tipo particolare di cardo, lo Scolymus hispanicus di Linneo, dai fiori larghi, che fiorisce all’inizio dell’estate (cfr. Teofrasto, Cause dei fenomeni concernenti le piante VI 4, 7). Gli antichi credevano che il cardo stimolasse a bere vino; e Plinio il Vecchio, influenzato da Alceo, afferma che il cardo unito al vino ha un grande potere afrodisiaco (Naturalis historia XXII 86).

Conseguentemente, risulta molto sensuale in Alceo il successivo riferimento chiastico alle donne e agli uomini (γύναικες μιαρώταται/ λέπτοι δ’ ἄνδρες, vv. 4-5), che riprende il brano esiodeo (Opere 586), ove le donne erano “quanto mai libidinose e lascive” (μαχλόταται) e gli uomini “fiacchissimi, debolissimi” (ἀφαυρόταται).

Tuttavia gli studiosi non concordano nell’interpretazione dei due aggettivi usati da Alceo:

1) μιαρός, riferito alle donne, significa propr. “contaminato, impuro” (cfr. μιαίνω), per cui qualcuno rende con “maledette, pestilenziali, rovinose” (Wilamowitz, Page) o con “volgari” (Fränkel);

2) ancora più complessa appare l’interpretazione dell’aggettivo λεπτός, che in vari passi dell’Iliade assumeva diversi significati: “sbucciato” (detto del grano privo della pula), “minuto, sottile” (riferito alla polvere), “fine, lavorato con finezza” (ad es. vesti, armi, ornamenti), “debole, leggero” (ad es. il senno); in seguito, da Esiodo (Opere 497) e da Aristofane (Nuvole 1018) l’aggettivo è usato nel significato di “sottile, esile, magro”: e questo appare il valore più probabile di λεπτός nel frammento alcaico.

Resta però l’impressione che traducendo “donne rovinosissime e uomini emaciati” si perda la forza erotica dell’espressione alcaica, evidente invece nelle versioni di Quasimodo (“le femmine hanno avido il sesso, / i maschi poco vigore”) e Pontani (“allupate le donne, / uomini smunti”).

L’espressione conclusiva, ἐπεὶ… ἄσδει “giacché Sirio il capo e le ginocchia/ inaridisce” (trad. Porro), ripropone (con le sole modifiche dialettali) il v. 588 delle Opere esiodee (ἐπεὶ κεφαλὴν καὶ γούνατα Σείριος ἄζει). In questo caso Alceo, con la sua citazione letterale, ha inteso rendere omaggio al suo modello, senza competere con lui.

Lo stile del frammento è paratattico e fortemente espressivo. Si riscontrano diverse figure retoriche: l’omoteleuto e l’allitterazione fra ἄχει (v. 3), ἄνθει (v. 4) ed ἄσδει (v. 6); l’assonanza allitterante ἄχει… ἄδεα (v. 3); il chiasmo γύναικες μιαρώταται/ λέπτοι δ’ ἄνδρες; l’enjambement di ἄσδει al v. 6.

P.S.: il v. 3 è incompleto nella citazione di Proclo; probabilmente nella parte lacunosa proseguiva la descrizione naturalistica; potrebbero mancare soli due versi (come dimostrerebbe il confronto con l’imitatio oraziana in Odi I 9).

Forse per noi il fascino di questo testo è accentuato dalla sua frammentarietà; non a caso, volendo fare un paragone con le letterature moderne, mi viene in mente la breve lirica “L’estate” di Giuseppe Ungaretti (1931), ugualmente icastica nella descrizione della devastante e distruttrice potenza dell’estate, che – addirittura – “va della terra spogliando lo scheletro”:

«Quando su ci si butta lei,

si fa d’un triste colore di rosa

il bel fogliame.

Strugge forre, beve fiumi,

macina scogli, splende,

è furia che s’ostina, è l’implacabile,

Sparge spazio, acceca mete,

è l’estate e nei secoli

con i suoi occhi calcinanti

va della terra spogliando lo scheletro».

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

2 commenti

  1. Grazie per il bel commento professore. Sottoscrivo anche il suo commento sul caldo opprimente di questi giorni. Un caro saluto da un suo collega

    1. Grazie a lei per la sua attenzione. Un caro saluto, con l’augurio di non dover “bagnare i polmoni di vino” a lungo in questa estate impossibile…

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