Una cruenta love-story del re Serse

Le “Storie” di Erodoto erano destinate alla lettura pubblica nelle piazze, da parte dell’autore stesso; non era dunque insolito che esse contenessero brani “avvincenti” e destinati a catturare l’attenzione degli ascoltatori. In particolare, esaminiamo oggi alcuni capitoli del IX libro, che narrano una “love-story” del re Serse, che si incapriccia prima di sua cognata e poi della nipote Artaunte; si tratta di una vicenda che ha i connotati di una vera e propria fiction, ma presenta anche (come vedremo) un carattere fortemente “pulp”.

I personaggi della storia sono cinque: 1) Serse (re di Persia dal 485 al 465 a.C.); 2) Masiste, suo fratello; 3) la moglie di Masiste (di cui viene taciuto il nome, sicché qui la chiameremo Anonima); 4) Artaunte, figlia di Masiste e di Anonima; 5) Amestri, moglie di Serse.

La vicenda è questa: Serse, nella città di Sardi, si innamora della cognata; tuttavia, «malgrado i suoi messaggi, non riusciva a sedurla» (IX 108; utilizzo qui la traduzione di A. Masaracchia). Allora, non volendo prenderla con la violenza per riguardo al fratello, organizza il matrimonio di suo figlio Dario con Artaunte, figlia di Masiste e di questa donna. Piano machiavellico: trasformando la cognata in consuocera, crede di poter ottenere più facilmente il suo scopo.

Ma a questo punto c’è una prima svolta imprevedibile: quando, tornato a Susa, Serse si trova in casa la giovane nuora, se ne invaghisce, con un cambiamento improvviso quanto irrazionale; la ragazza, ambiziosa e vanesia, ricambia le attenzioni del suocero.

Col tempo, però, la tresca del re viene scoperta: infatti la moglie di Serse, Amestri, tesse per il marito «un mantello grande, variopinto e meraviglioso» (φᾶρος μέγα τε καὶ ποικίλον καὶ θέης ἄξιον); il re, stoltamente vanitoso, indossa il mantello donatogli dalla moglie per pavoneggiarsi con la sua giovane “fiamma”. Poi, incautamente, «felice anche del piacere che lei gli dava, la invitò a chiedergli ciò che volesse in cambio dei favori che gli concedeva: avrebbe ottenuto tutto ciò che domandava» (IX 109, 2).

Pericolosa promessa: infatti la ragazza, che è in una posizione di assoluto dominio psicologico su Serse, gli chiede proprio il prezioso mantello; l’uomo, contrariato, le propone dei doni alternativi («era pronto a darle città, oro senza fine e un esercito, che nessun altro avrebbe comandato tranne lei»), ma non c’è niente da fare, deve cedere all’insistenza della partner; e alla fine Artaunte può fregiarsi orgogliosamente del mantello, evidentemente unisex: «lo indossava e se ne faceva vanto» (IX 109, 3).

Qui avviene un altro imprevisto: la moglie di Serse, la crudele Amestri, appreso che il suo mantello è finito ad Artaunte, stranamente non se la prende con lei («non sentì rancore per questa donna», IX 110, 1); viceversa, avendo subodorato la precedente passione del marito (l’intuito femminile è infallibile) suppone erroneamente che responsabile di tutto sia la moglie di Masiste, la povera e incolpevole Anonima.

Astutamente la donna attende per la sua vendetta un’occasione propizia, che giunge nel giorno del pranzo regale annuale, durante il quale era uso che il re persiano facesse dei doni ai convitati: «atteso dunque questo giorno, Amestri chiese a Serse di donarle la moglie di Masiste» (IX 110, 2).

La richiesta indigna Serse, che inorridisce alla prospettiva di consegnare la moglie del fratello, «che per giunta era innocente in questa storia» (come ribadisce ironicamente il narratore); e tuttavia, «poiché quella insisteva ed era vincolato dal costume, che rende loro impossibile scontentare chi avanza una richiesta quando è servito il pranzo regale, molto a malincuore acconsentì» (IX 111, 1).

Alle regole “ufficiali” i re non possono derogare (almeno quando tutti se ne accorgerebbero…).

Serse dunque consegna la cognata alla moglie; contestualmente tenta di “consolare” il fratello invitandolo a ripudiare la consorte e promettendogli in sposa sua figlia. Ma Masiste rifiuta categoricamente: «Tu non farmi prepotenza chiedendomi una cosa simile; per tua figlia certo si troverà un altro marito non meno degno; quanto a me, lasciami convivere con mia moglie» (IX 111, 4).

Serse, indispettito dal rifiuto, congeda in modo brutale il fratello, che si allontana lanciandogli larvate minacce («Signore, non mi hai ancora finito»,  IX 111, 5).

La spietata Amestri intanto, chiamate le guardie del corpo di Serse, fa seviziare la moglie di Masiste; il cap. 112 è orrido nella sua icastica brevità: «Nel frattempo, mentre Serse parlava con il fratello, Amestri mandò a chiamare le guardie di Serse e fece sconciare la moglie di Masiste: le fece tagliare i seni che fece gettare ai cani, quindi le fece tagliare anche il naso, le orecchie, le labbra e la lingua, rimandandola a casa sconciata».

Il finale presenta la rabbiosa reazione di Masiste, che vedendo sua moglie così orrendamente mutilata, tenta di far sollevare la provincia di Battriana contro il fratello. Tuttavia Serse, informato dalle sue spie, manda un esercito contro Masiste, massacrando lui e i suoi figli.

La conclusione, come spesso avviene in Erodoto, è lapidaria: «Questo è quanto accadde a proposito dell’amore di Serse e della morte di Masiste» (IX 113, 2).

Come si vede, un trionfo assoluto del male e dell’ingiustizia.

Questa contorta vicenda passionale, che culmina nella ribellione e nella morte di Masiste, “rappresenta l’ultimo grande impegno narrativo dell’opera, come quella di Gige e Candaule ne rappresentava il primo” (A. Masaracchia).

Serse, il potente re che aveva condotto la gigantesca spedizione contro i Greci (finendo ignominiosamente sconfitto a Salamina), è qui ridotto a un dongiovanni da strapazzo, a un mediocre sceicco preda delle più squallide e mutevoli passioni (non a caso si è parlato di una “storia da harem”, Harem-Geschichte).

Ma anche gli altri personaggi sono abilmente tratteggiati: la “dark lady” Amestri è la moglie offesa che si vendica in modo spropositato e crudele (a indicare come, secondo Erodoto, le donne possano essere violente e crudeli più degli uomini); Artaunte è la giovane sposa infedele, vanitosa e ambiziosa, che vuole esibire come un trofeo l’amore di un re; Masiste è invece il fratello “buono”, fedele alla moglie, alieno da ogni compromesso e destinato però ad una fine ingiusta e ingloriosa.

La “morale” della vicenda è tristissima: i “cattivi” (Amestri, Serse e Artaunte) la fanno franca dopo aver ottenuto quello che vogliono, mentre i “buoni” (Masiste e la moglie) pagano col sangue i crimini degli altri.

Ma su tutto dominano forze inesorabili, più potenti degli esseri umani, che li governano e li trascinano: l’inesorabile forza del destino (la tyche, τύχη), la forza della passione amorosa (eros, ἔρως), le convenzioni socio-culturali (tà nòmima, τὰ νόμιμα).

In definitiva, è condivisibile il giudizio che dell’episodio dà Ryszard Kapuściński nel suo libro “In viaggio con Erodoto”, «Tutto questo accade ai massimi vertici del potere imperiale. Ai vertici, vale a dire in un luogo estremamente pericoloso e sempre grondante di sangue. Il re va a letto con la nuora, la regina inferocita taglia a pezzi la cognata innocente in modo che la vittima, senza più lingua, non possa neanche lamentarsi. Il bene è sconfitto, il buono (Masiste) viene ucciso per ordine del fratello, i suoi figli muoiono, la moglie è orribilmente mutilata. Anni dopo, lo stesso Serse perirà pugnalato. E la regina? Finirà uccisa dalle figlie di Masiste? Perché la ruota delitto-castigo non si ferma. Chissà se Shakespeare aveva letto Erodoto: le passioni bestiali e i crimini regali delle sue tragedie, il nostro greco le aveva già descritte duemila anni prima di lui».

In effetti, è possibile vedere anche in questa storia quella che Welser definì la “didactic strategy” di Erodoto, cioè il suo fine “educativo”: Serse prima o poi pagherà per avere così sfacciatamente oltrepassato i limiti; infatti finirà assassinato nel 465 a.C., insieme con il figlio Dario, dal suo visir Artabano (che farà salire al trono l’altro figlio del re, Artaserse I).

A questo mondo – direbbe Manzoni – “c’è giustizia, finalmente”: e, come in quegli anni diceva anche il tragediografo Eschilo, la Giustizia, anche se tardi, arriva inesorabilmente; questione di avere pazienza di attendere, anche se nel frattempo davanti agli occhi degli uomini dilaga l’ingiustizia, arrogante e apparentemente invincibile.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

2 commenti

  1. Non conoscevo la storia e ne sono rimasta ammaliata …
    Adesso so cosa leggerò di giorno in giorno..il tuo blog!
    Grazie di esserci 🙂

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