Calipso e il dolore degli dèi

Nell’Odissea, durante il suo interminabile viaggio di ritorno, per ben sette anni Ulisse vive nella lontana isola di Ogigia, ospite/prigioniero della ninfa Calipso, “la dea luminosa”, “dai bei riccioli”.

Costei, figlia di Atlante, ha salvato l’eroe, rimasto solo dopo aver perduto tutti i compagni: “Io lo salvai, ch’era solo, aggrappato alla chiglia, / perché l’agile nave col fulmine abbagliante / Zeus gli aveva colpita e infranta nel livido mare. / E tutti gli altri perirono, i suoi forti compagni, / lui il vento e l’onda, spingendolo, gettarono qui” (V libro, vv. 130-134). Ma Calipso non si era limitata a soccorrere Ulisse: “Io lo raccolsi, lo nutrii, e promettevo / di farlo immortale e senza vecchiezza per sempre” (vv. 135-136).

La dea si è innamorata dell’eroe; lo ha tenuto con sé incantandolo “con tenere, ammalianti parole” (I 56) e per anni ha sperato che rimanesse con lei, accettando l’offerta più grande che si possa dare a un uomo mortale: l’eternità. Tutto inutile: lui soffriva in silenzio e se ne stava sempre seduto sul promontorio, a guardare il mare, sperando di lasciare quell’angolo di paradiso: “mai gli occhi / erano asciutti di lacrime, ma consumava la vita soave / sospirando il ritorno, perché non gli piaceva la ninfa” (vv. 151-153).

Così lo ritrae un quadro del pittore svizzero Arnold Böcklin (1883).

In realtà la traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, che qui sto adoperando, perde un dettaglio importante: in greco il testo dice “oukéti héndane nymphe” (οὐκέτι ἥνδανε νύμφῃ), cioè “non più gli piaceva la ninfa”. Quel “non più” (οὐκέτι) lascia supporre che “prima” gli fosse piaciuta; e del resto Ulisse, durante i suoi viaggi, non era rimasto più di un anno tra le braccia della maga Circe nell’isola Eea? Non era rimasto soggiogato dalla voce fascinosa delle Sirene? E in seguito, giunto nell’isola dei Feaci, non farà innamorare di sé con le sue astute parole la giovanissima Nausicaa, figlia del re Alcinoo, per ottenerne l’aiuto?

Ma ora la ninfa “non gli piaceva più”. E perché? Crisi del settimo anno? La prima risposta possibile è ovvia: Ulisse rimpiangeva la sua Itaca, sua moglie, suo figlio; ma non è solo quello. Come dice giustamente Hainsworth, “tutto quello che ha significato nella vita di un eroe, l’azione, la lotta, le imprese, gli è stato tolto in cambio dell’ozio e del piacere eterni”. Un eroe non è eroe a targhe alterne, a fasce orarie, a zone rosse/arancioni/gialle: un eroe è eroe H24 (come si suol dire oggi con un’espressione che francamente detesto). “Ho appreso ad essere valoroso sempre”, diceva Ettore nell’Iliade a sua moglie Andromaca (un’altra donna che voleva tenere stretto a sé il suo uomo).

Il paradiso può risultare noioso, ripetitivo, inappagante e privo di stimoli per un eroe, specialmente per Ulisse, l’eroe della conoscenza, della curiosità, del dantesco “folle volo”. Eva Cantarella lo precisa bene: “aspirare all’eternità significa abbandonare la ricerca di sé, essenza stessa della vita umana. Ulisse ben lo sa, e rifiuta”. L’eroe, dunque, è come un Robinson Crusoe che nell’isola deserta, anziché Venerdì, ha trovato una splendida ninfa che lo adora: ma non per questo è felice.

E tuttavia, come Omero precisa subito dopo, Ulisse continuava ad andare a letto con Calipso: “Certo la notte dormiva sempre, per forza, / nella cupa spelonca, nolente, vicino a lei che voleva” (“ouk ethélon etheloùse”, οὐκ ἐθέλων ἐθελούσῃ). Lui nolente, lei vogliosa; lui “per forza” (ἀνάγκῃ, anànke), lei con tutta la passione del suo cuore innamorato. Il giorno dopo, però, si tornava da capo: “seduto sopra le rocce e la riva, / con lacrime gemiti e pene il cuore straziandosi, / al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime” (vv. 157-158). Un amore finito, forse per lui mai davvero cominciato.

Avverrà lo stesso, invertite le parti, al poeta latino Catullo, tradito e abbandonato dalla sua Lesbia: “Brillarono un tempo per te giornate radiose (Fulsere quondam candidi tibi soles) / quando venivi sempre dove ti conduceva la tua ragazza, / amata quanto nessuna sarà amata (amata nobis quantum amabitur nulla). / Là si facevano quei giochi d’amore / che tu volevi e lei non rifiutava (quae tu volebas, nec puella nolebat). / Davvero brillarono per te giornate radiose. / Ma ora lei non vuole (Nunc iam illa non vult); / e anche tu, sfrenato, non volere” (carme VIII, 3-9).

In Catullo c’era, una volta, una totale unanimità fra i due amanti, che invece in Omero viene meno (altro che il dantesco “amor che a nullo amato amar perdona”). Qui innamorata e appassionata è solo la ninfa, ostinata a “volere” ancora per sé un compagno “nolente”, sempre più freddo e insensibile.

A mettere fine a questa penosa agonia sono gli dèi: Hermes raggiunge Ogigia portando a Calipso l’ordine perentorio di Zeus: Ulisse deve tornare a casa. Infatti “non qui gli è destino morire, lontano dai suoi; / è destino per lui che riveda gli amici e che torni / all’alto palazzo e alla terra dei padri” (vv. 113-115). Inutilmente, dunque, la dea ha cercato di “nascondere” il suo amato (il nome “Calipso” è stato posto in relazione con il verbo kalypto, καλύπτω, “nascondere”), di proteggerlo dai pericoli (ad es. l’ira del dio Poseidone per l’accecamento di suo figlio Polifemo).

Hermes trova Calipso nella sua “grande spelonca”: “lei dentro, cantando con bella voce / e percorrendo il telaio con spola d’oro, tesseva” (V 61-62). Calipso, sempre sola, tesse come Penelope ma, come la maga Circe (X 254), unisce la tessitura (attività principale e ritenuta più lodevole per una donna) al canto, che è invece elemento “trasgressivo” e “seduttivo”: la ninfa, evidentemente, non smette di “tessere la sua tela” per (ri)conquistare Ulisse. Ma ora l’ordine di Zeus la sgomenta: “rabbrividì Calipso, la dea luminosa”. Il verbo “rhìghesen” (ῥίγησεν) che significa “gelò, rabbrividì” (la radice è quella del nostro aggettivo “rigido”, riferito al freddo) indica con precisione assoluta la desolazione della ninfa, il suo dolore “agghiacciante”.

E Calipso sbotta, impreca contro “l’invidia degli dei” (“Maligni siete, o dèi, e invidiosi oltre modo, / voi che invidiate alle dee di stendersi accanto ai mortali”, vv. 118-119). Si vede qui la sofferenza della dea, la sua delusione cocente: Calipso è bellissima, eterna, giovane per sempre, ma disperata. Omero umanizza le divinità in modo straordinario: e forse solo il cristianesimo riuscirà a rendere così “umana” una figura divina.

Tuttavia Calipso sa che gli ordini di Zeus non si discutono; quindi va da Ulisse, lo trova – al solito – piangente, “seduto sopra le rocce e la riva”, e gli dice le parole che lui aspetta da anni: “Infelice, non starmi più a piangere qui, non sciuparti / la vita: ormai di cuore ti lascio partire” (vv. 160-161). Lo invita poi a costruirsi una zattera e gli promette di fornirgli “pane, acqua, vino rosso” in abbondanza; inoltre gli darà delle vesti e un vento favorevole.

La reazione di Ulisse è descritta con lo stesso verbo ῥίγησεν usato prima per Calipso: “rabbrividì il costante Odisseo luminoso” (v. 171). Ma qui non si tratta di un brivido d’amore, di un sussulto di rimpianto e tanto meno di dolore: anzi, Ulisse accusa Calipso di simulazione, di volerlo fare morire in mare; e si oppone alla proposta, chiede alla dea un solenne giuramento. Calipso allora reagisce come una donna infatuata (“sorrise Calipso, la dea luminosa, / lo carezzò con la mano”) e rivendica la sua onestà: “ho mente giusta, non c’è nel mio petto / un cuore di ferro, ma compassionevole” (vv. 190-191).

La ninfa accompagna Ulisse nella sua “cupa spelonca” e gli serve il pasto; poi, “quando si furon goduti cibo e bevanda” (a stomaco pieno si ragiona diversamente), torna alla carica. Cerca di spaventarlo: se sapesse quante pene lo attendono ancora, rimarrebbe con lei, “benché tanto bramoso / di rivedere la sposa”.

Le sfugge anche uno stizzito momento di gelosia: “Eppure, certo, di lei mi vanto migliore / quanto a corpo e figura, perché non può essere / che le mortali d’aspetto e bellezza con le immortali gareggino!” (vv. 211-213). Calipso ha esternato la sua rabbia: a che cosa le serve essere dea, essere bellissima ed eternamente giovane, essere immensamente superiore a Penelope, se lui pensa soltanto alla moglie lontana e vuole tornare da lei?

Ulisse replica dicendo di capire bene il divario fra Penelope e Calipso: “a tuo confronto la saggia Penelope / per aspetto e grandezza non val niente a vederla; / è mortale, e tu sei immortale e non ti tocca vecchiezza” (vv. 216-218); tuttavia “anche così desidero e invoco ogni giorno / di tornarmene a casa, vedere il ritorno” (vv. 219-220).

E poi? E poi “il sole s’immerse e venne giù nell’ombra”; e loro “entrando allora sotto la grotta profonda / l’amore godettero, stesi vicino uno all’altra” (vv. 226-227). Come se niente fosse, come se niente si fossero detti, come se l’addio non fosse ormai imminente. Per Calipso un’altra notte di passione, per lui un cartellino da timbrare nella burocratica ripetizione di un rapporto esaurito, col pensiero già rivolto a Itaca, al ritorno, al viaggio da riprendere.

Quattro giorni impiega Ulisse a costruirsi la zattera; poi, “al quinto lo fece partire dall’isola Calipso lucente” (v. 263). Gli carica (lei!) sulla zattera un otre di vino e uno d’acqua e “molti graditi cibi”. Infine, gli manda un vento “propizio e piacevole” (v. 268). E lui se ne va: “Lieto del vento, distese le vele Odisseo luminoso” (v. 269). Neanche un “grazie” o un cenno di saluto.

Un’inquadratura dalla magistrale “Odissea” televisiva di Franco Rossi (1968), che mostra Calipso da sola nella spiaggia, vista dalla zattera che si allontana;
l’attrice era Kyra Bester.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

6 commenti

  1. Complimenti per l’analisi e la traduzione. Ma perché una zattera e non un’imbarcazione? Voleva la ninfa in cuor suo un naufragio?

    1. Evidentemente nell’isola di Ogigia non c’erano cantieri navali che consentissero di fare di meglio… Grazie della sua attenzione

  2. Gent.mo Dott. Pintacuda,

    desidero complimentarmi sinceramente con Lei non solo per il Suo bellissimo ed esaustivo articolo (entro i limiti imposti da una pagina web di divulgazione a un vasto pubblico), ma anche per la dedizione, la cura e la passione che trasudano in ogni Sua opera e che, Le assicuro, riesce a trasmettere con le Sue parole.

    Grazie ancora e buona giornata.

  3. La realtà immortale ma struggente della Dea e la vita eroica, ma effimera di Ulisse. Grazie della sua analisi approfondita. Vidi l Odissea di Franco Rossi e ne rimasi folgorato. Ricordo che pensavo che io avrei voluto stare con Calipso per sempre….Ma quanto mi sbagliavo….

  4. Ricostruzione splendida. Sto rivedendo lo sceneggiato su Raiplay, anno 1968, quello della mia nascita. Il tempo scorre, ma quei versi che lei ha magistralmente commentato sono imperituri.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *