I narcisi di Colono

Dopo che Edipo è stato accolto dal re ateniese Teseo, nel I stasimo dell’Edipo a Colono (vv. 668-719) Sofocle, attraverso la voce dei vecchi del coro, esalta la bellezza del suo luogo natale, il demo di Colono (“paese di forti cavalli”).

Il poeta ricorda il lamento triste dell’usignolo nelle verdi valli, la fosca edera, la selva impenetrabile frequentata dal dio Dioniso; ivi fioriscono il narciso e il croco, mentre le correnti del Cefiso fluiscono costantemente; Afrodite e le Muse si aggirano in questa beata regione. Qui cresce l’ulivo, protetto da Zeus ed Atena.

Il coro inneggia infine alla “forza dei cavalli, dei puledri, del mare”, invocando Poseidone; l’ultima immagine è appunto quella del mare percorso dalle navi e dalle Nereidi che solcano le onde.

La tradizionale interpretazione critica privilegiava una lettura “idilliaca” di questo stasimo; in esso si esaltava infatti il lirismo, la contemplazione della bellezza dei luoghi, il contesto “rasserenante” del demo natìo di Colono.

Ad un’analisi più attenta, però, emerge come Sofocle abbia invece inteso, con questo canto, affidare al popolo ateniese una sorta di testamento spirituale. È merito specifico di Dario Del Corno, autore del bel libro I narcisi di Colono (1998), quello di aver evidenziato i principali temi cui allude lo stasimo e cioè: 1) la morte di Edipo; 2) la morte di Sofocle; 3) la drammatica situazione storica di Atene; 4) la speranza di una via di salvezza per la città.

Il testo del canto corale presenta all’inizio un massiccio uso di vocaboli con l’ἀ- privativo:

  • il nome dell’usignolo (ἀηδών, v. 672) era spiegato paretimologicamente come “senza gioia” (da ἀ- privativo + ἥδομαι “provare gioia”); dunque, “dolce e insieme doloroso è il canto dell’usignolo – come la morte stessa” (Del Corno); l’usignolo era ricollegato al mito metamorfico di Procne, che aveva assunto questa forma dopo aver ucciso il proprio figlio Iti;
  • il fogliame è inaccessibile (ἄβατον, v. 675);
  • la selva è “intatta dal sole” (ἀνήλιον, v. 676) e “inviolata dal vento” (ἀνήνεμον, v. 677).

La “privazione” induce l’idea di morte, che viene riproposta antiteticamente con l’immagine del bosco μυριόκαρπον (v. 676), “ricco di frutti”, poiché tale idea di fertilità può alludere all’innumerevole quantità degli abitanti dell’Ade.

A Colono fioriscono il narciso e il croco, sacri a Demetra e connessi alla morte (il narciso era stato l’ultimo fiore colto da Core prima di essere rapita da Ades; il croco è una pianta a bulbo, che trascorre una parte del ciclo naturale sottoterra per poi risorgere alla luce).

Il passo dunque, come scrive Del Corno “allinea un sistema di riferimenti, che vanno interpretati su un doppio versante: uno esplicito che rimanda all’accoglienza di Edipo in Colono e ad Atene, e uno allusivo che adombra la sua venuta nel territorio della morte” (I narcisi di Colono, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 67). In questa ottica, anche la definizione iniziale di Colono come “la migliore dimora della terra” (v. 669) può alludere all’oltretomba, che accoglie in sé l’innumerevole schiera dei defunti.

Indubbiamente, poi, il pensiero della morte coinvolge lo stesso autore che, ormai molto anziano, sente vicino il trapasso ed intende chiudere “ad anello” il suo percorso esistenziale, traendo dal demo natìo sensazioni e riflessioni, in vista però di un preciso messaggio politico che si coglie nella seconda coppia strofica.

Nel difficile momento storico vissuto da Atene, ormai sul punto di cedere alla potenza spartana (l’anno di composizione della tragedia è il 406 a.C.), il coro, come reazione al pessimismo ed alla sfiducia, ricorda i principali punti di forza dell’antica polis:

  • l’olivo, “una pianta invincibile poiché rinasce da sé” (φύτευμ’ ἀχείρωτον αὐτοποιόν, v. 698), dato che sulle sue fronde vegliano “il grande sguardo di Zeus protettore” e “l’occhio glauco di Atena” (vv. 705-706);
  • il mare, su cui Atene aveva costruito la sua egemonia (vv. 716-719).

Come l’olivo era risorto dalla distruzione (era infatti ricresciuto dopo l’incendio appiccato dai Persiani nell’acropoli, cfr. Erodoto VIII 55), anche Atene potrà risorgere dalla rovina presente, anzitutto facendo appello ai propri valori culturali.

Sarà inoltre opportuno “riappropriarsi del mare”, riprendendo l’antica politica marittima di Temistocle. L’idea di un “ritorno al mare” compare anche nelle Rane di Aristofane (rappresentate l’anno dopo); qui l’ἀγών fra i poeti Eschilo ed Euripide viene vinto dal primo, che dà il miglior consiglio agli Ateniesi, cioè quello di considerare loro fonte di ricchezza le navi (“Dovranno considerare che la terra dei nemici sia loro, e che la loro sia dei nemici; e che la loro entrata siano le navi, e una perdita le entrate”, Aristofane Rane 1463-1465, trad. Del Corno).

Del resto, in linea con la mentalità religiosa dell’autore, quando sembra che gli dèi abbandonino del tutto, è possibile sperare in una ripresa prodigiosa: e addirittura Edipo appare come un eletto dagli dèi, un privilegiato, un talismano per il luogo che lo accoglie. Ancora una volta dunque, Sofocle mette in scena la contraddittorietà del destino, che la mente umana non riesce a chiarire adeguatamente con i suoi limitati mezzi.

A livello formale, va notato in tutto lo stasimo l’uso di sinestesie che uniscono sensazioni visive, acustiche e “tattili”, creando una ricca tavolozza cromatica (il bianco di Colono, il rosso dell’edera, l’oro del croco, il colore glauco delle foglie dell’olivo e degli occhi di Atena).

Ecco il brano nella traduzione di Dario Del Corno.

A questo paese di forti cavalli, ospite straniero,

sei giunto, la migliore dimora della terra,

la candida Colono, dove         670

l’usignolo canta senza fine

il suo lamento triste

in fondo al verde delle valli,

abitando l’edera fosca

e l’inaccessibile selva frondosa    675

del dio, intatta dal sole,        

inviolata dal vento di ogni

tempesta, che l’ebbro signore

Dioniso in ogni tempo percorre

insieme alle sue nutrici divine.   680

Dalla rugiada del cielo sempre fiorisce

giorno per giorno in grappoli belli

il narciso, corona antica

alle due Grandi Dee, e

il croco biondo come l’oro; né mai    685

si arrestano le fonti insonni

del Cefiso e le sue correnti errabonde,

ma sempre ogni giorno

corre per la piana con pure acque

e subito feconda i fianchi         690

possenti di questa terra; e i cori

delle Musenon la fuggono,

né Afrodite che regge redini d’oro.

E vive, quale io non conosco

che la terra d’Asia possieda     695

né che sia mai cresciuta

nella grande isola dorica di Pelope,

una pianta invincibile poiché rinasce da sé,

terrore delle armi nemiche,

che in questa terra più che altrove è fiorente:   700

l’albero dell’oliva glauca nutrimento dei figli.

Nessuno, giovane o vecchio,

lo strapperà con le sue mani distruggendolo:

poiché il grande sguardo di Zeus protettore

sempre lo osserva,           705

e l’occhio glauco di Atena.

Un elogio grandioso ho ancora

di questa città che mi è madre,

il dono di un dio grande,

l’orgoglio più alto della nostra terra:    710

la forza dei cavalli, dei puledri, del mare.

O figlio di Crono, tu l’hai sollevata

a tanta gloria, Poseidon signore,

creando il morso a frenare i cavalli

la prima volta in queste contrade.  715

E sotto i remi spinti da mani robuste

corre sull’onda la nave volando –

meraviglia! –, compagna alla danza

delle Nereidi innumerevoli.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *