“Canto eroico e funebre” di Odysseas Elytis

Il drammatico contesto della seconda guerra mondiale provocò in Odysseas Elytis, premio Nobel per la Letteratura nel 1979, una svolta verso un maggiore impegno civile e sociale. Egli compose infatti, in seguito alla sua esperienza sul fronte albanese nel 1941, il poemetto epico Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania (Ἆσμα ἡρωϊκὸ καὶ πένθιμο γιά τὸν χαμένο ἀνθυπολοχαγὸ τῆς Ἀλβανίας, 1945), in cui vengono riprese le movenze del mirolòi, il lamento funebre tradizionale, e della poesia popolare.

Odysseas Elytis (1911-1996)

In un brano significativo viene descritto il cadavere del giovane sottotenente che dà il titolo all’opera, caduto in Albania combattendo contro le truppe italiane che avevano tentato di invadere la Grecia.

In questa lirica, fortemente patetica, trovano posto alcuni dei caratteri più significativi del surrealismo di Elytis: il poeta fonde presente e passato, reale ed immaginario, unità e totalità; l’armonica contaminazione di realtà così disparate, poste al limite della tensione espressiva, conferisce straordinario vigore immaginifico alla lirica.

Presento anzitutto il testo (nella traduzione italiana di F. Maspero) cui farò seguire una breve analisi.

Ora giace sulla mantellina bruciacchiata

con un vento fermo fra i placidi capelli

con un ramoscello d’oblio all’orecchio sinistro

Sembra un giardino da cui siano improvvisamente fuggiti via gli uccelli

Sembra un canto strozzato nelle tenebre            

Sembra l’orologio d’un angelo che si sia fermato

Appena hanno detto salve ragazzi le ciglia

ed ecco che lo stupore si è fatto marmo…

Giace sulla mantellina bruciacchiata

Secoli neri intorno a lui           

abbaiano nello spaventoso silenzio con scheletri di cani

e le ore che sono ridiventate colombe di pietra

ascoltano con attenzione;

ma il sorriso s’è bruciato, ma la terra è diventata sorda.

Ma nessuno ha udito l’estremo grido        

Tutto il mondo s’è vuotato con l’ultimo grido.

Sotto i cinque cedri

senza altri ceri

giace sulla mantellina bruciacchiata;

Vuoto l’elmo, sporco di fango il sangue,    

accanto il braccio monco

e tra le sopracciglia

piccolo pozzo amaro, ditata del destino,

un piccolo pozzo amaro rossonero

un pozzo dove si è raggelato il ricordo!  

Oh non guardate oh non guardate da dove

da dove gli sfuggi la vita. Non dite come

non dite come è salito in alto il fumo del sogno

Così dunque un attimo così dunque uno  

così dunque un attimo ha lasciato l’altro      

E il sole eterno così all’improvviso il mondo!

In posizione incipitaria compare una notazione temporale (“Ora”, v. 1) che parrebbe concedere qualcosa alla constatazione oggettiva; ma essa viene poi seguita da pregnanti connotazioni soggettive: la terra è diventata sorda e silenziosa, ora che un soldato “giace sulla mantellina bruciacchiata”. Lo circonda un paesaggio desolato, freddo, senza vita, paralizzato (“un vento fermo fra i placidi capelli”, v. 2); il tempo non scorre più, resta solo “un ramoscello d’oblìo all’orecchio sinistro” (v. 3). Il defunto è tristemente e atrocemente solo: “nessuno ha udito l’estremo grido” (v. 15).

A livello stilistico, le figure retoriche (metafore, assonanze, anafore, omoteleuti, ecc.) evidenziano la tristezza di un paesaggio devastato dalla guerra e, dunque, privo di vita. La fine della vita viene infatti espressa dall’immagine della fuga subitanea degli uccelli dal giardino (v. 4) o dall’analogia con il “canto strozzato nelle tenebre” (v. 5); la rievocazione lirica al v. 6 (“Sembra l’orologio d’un angelo”) esprime il senso di un’altra bellezza, spaventosa e sublime.

Mancano, in tutto questo desolante quadro iniziale, le connotazioni ideologiche, storiche e politiche, che però – secondo la consuetudine di Elytis – si celano dietro le osservazioni esistenziali-sensoriali.

La seconda strofe inserisce la dimensione temporale della “storia”: attorno al corpo del soldato morto incombono “secoli neri” (v. 10, con allusione non solo al tragico momento storico in corso – la seconda guerra mondiale – ma anche a tutte le epoche passate in cui si sono ripetute tante volte scene atroci come questa) che ossimoricamente “abbaiano” (v. 11) “nello spaventoso silenzio” (v. 11). Le ore sono diventate “colombe di pietra”: la colomba, segno tradizionale di speranza, si “pietrifica” espressionisticamente.

Prevalgono il dolore lancinante e la solitudine irrimediabile: “il sorriso s’è bruciato” e “la terra è diventata sorda” (v. 14). Nessuno ha udito “l’estremo grido” del caduto (v. 15): e nella sua morte, nel suo urlo finale “tutto il mondo s’è vuotato” (v. 16), perché a causa della morte di una persona si impoverisce e viene meno il mondo intero.

Nella terza strofe è rilevante anzitutto la presenza dei cinque cedri (κέδρα in greco, v. 17) “senza altri ceri” (κεριά, v. 18); è questo il catafalco “naturale” del defunto. Il simbolo, arricchito dalle assonanze fra κέδρα e κεριά, riconduce all’immagine iniziale del cadavere che, come al v. 1, “giace sulla mantellina bruciacchiata” (v. 19), confermando la disperata sensazione di un tempo fermo, di una condizione ormai irrimediabile.

Il poeta indugia nella minuziosa e desolata osservazione del corpo privo di vita: guarda l’elmo vuoto, il sangue “sporco di fango” (v. 20), il “braccio monco” (v. 21) e la ferita mortale alla fronte, “tra le sopracciglia” (v. 22), definita “piccolo pozzo amaro, ditata del destino” (v. 23). In quel “pozzo” è finita l’esistenza di quella mente, di quell’essere pensante: “si è raggelato il ricordo” (v. 25).

Nell’ultima strofa, come reazione alla precedente analisi dolorosa, subentra un’angosciosa implorazione (“oh non guardate oh non guardate”, v. 26; “Non dite come / non dite come”, vv. 27-28), seguita dalla constatazione della morte avvenuta in “un attimo” (in greco μιά στιγμή, v. 29).

Notevole è l’effetto martellante, icastico, derivante dall’uso dell’anafora (“Così… Così… Così…, vv. 29-30), che conferisce ai versi il tono del mirolòi.

Significativa è la scelta di lasciare la chiusa appena abbozzata, in una scarna frase  nominale: “E il sole eterno così all’improvviso il mondo!” (v. 31). Si ha qui un balzo improvviso verso l’universalità: il sole, evocato in tutta la sua pregnanza simbolica, rischiara per l’ultima volta, in quell’attimo, il mondo, nell’atto di “lasciarlo”.

Il componimento si concluderà infatti con l’apoteosi dell’eroe e con una speranza di resurrezione:

Ora batte più svelto il sogno nel sangue, / sta suonando l’ora più giusta del mondo / Libertà / Greci nelle tenebre mostrano la via / Libertà / per te piangerà di gioia il sole… /… / Uccelletti lo salutano, gli si mostrano fratelli, / Uomini lo chiamano, gli si mostrano compagni / «Uccelli, uccellini miei, qui la morte è finita!» / «Compagni, compagni miei buoni, qui comincia la vita!» / Rugiada di celeste bellezza brilla sui suoi capelli / Di lontano risuonano campane di cristallo, / domani, domani, domani: è Pasqua del Signore! (αύριο, αύριο, αύριο: το Πάσχα του Θεού)” (trad. Lavagnini).

Effettivamente, come scrive F. Maspero, “in questa composizione Elytis manifesta ancora una volta la sua fede nella vita e nella forza perenne della libertà e della Grecia, che simbolicamente s’identificano” (Da Palamàs a Vretàcos – La moderna poesia greca, ed. Accademia, Milano 1970, p. 182).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

  1. Grande forza espressiva e comunicativa di un sentimento di orrore prima ancora che di pena.
    Solitudine e silenzio della non vita malgrado tutto osannata, celebrata
    Commento superlativo.

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