Una sola volta in tutta l’Odissea, e precisamente nell’episodio di Polifemo, per Ulisse il desiderio di conoscenza è più forte del desiderio di ritorno.
Lo riconosce lui stesso nel racconto ai Feaci: giunti nella grotta del Ciclope, i compagni avrebbero voluto solo prendere il formaggio e scappare, ma l’eroe non diede loro retta (“io non volli ascoltare – e sarebbe stato assai meglio – / per vederlo di persona, se mi facesse i doni ospitali”, vv. IX 228-229, trad. Calzecchi Onesti). Curiosità nefasta, che costò la vita ad alcuni dei suoi marinai.
Eppure, benché Omero non spingesse in questa direzione più di tanto, Ulisse è diventato il simbolo del viaggiatore avventuroso, curioso, avido di esperienze, già a partire dalla letteratura latina (Cicerone, Ovidio, Seneca) e fino ad arrivare al culmine con l’Ulisse dantesco (“Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”, Inferno XXVI 118-120).
All’interpretazione “dantesca” di Ulisse si ispira la bella canzone “Itaca” di Lucio Dalla, uscita nel 1971 nell’album “Storie di casa mia”; in effetti di Dalla era solo la musica, mentre il testo era di Gianfranco Baldazzi e Sergio Bardotti. Sebbene non vi compaia mai il nome di Ulisse, numerosi particolari, già a partire dal titolo, alludono chiaramente al personaggio omerico.
Il punto di vista è quello di un marinaio, che scorge negli occhi del suo “capitano” il “nobile destino” che a lui è proprio; gli chiede allora quale considerazione abbia del suo equipaggio: “pensi mai al marinaio / a cui manca pane e vino?”.
Lui, il capitano, ha trovato “principesse in ogni porto”; ma pensa mai al rematore, “che sua moglie crede morto”?
Due mondi distinti e separati: da una parte il mondo degli eroi, che hanno un grandioso destino e vanno incontro alle esperienze più affascinanti, conoscendo donne meravigliose (Nausicaa, Circe, Calipso) e dimenticando a lungo la famiglia lontana; dall’altra le persone “normali”, semplici, che dalla vita non chiedono altro se non di tornare a casa, di vivere con la moglie e i figli, nella loro terra.
Il ritornello consiste nella nostalgica ripetizione del nome della patria, invocato in modo struggente: “Itaca Itaca Itaca! / La mia casa ce l’ho / solo là / Itaca Itaca Itaca! / E a casa io voglio tornare / dal mare, dal mare, dal mare”.
La forbice fra i due mondi si accentua nella seconda strofe: il marinaio sconta anche le colpe del suo capitano, però rivendica la sua innocenza agli occhi degli dèi. I grandi personaggi possono commettere (e commettono) grandi colpe; i peccati degli umili, invece, hanno conseguenze limitate, circoscritte, minimizzabili (“il mio più gran peccato / fa sorridere gli dèi”).
E comunque fra i due livelli non c’è proporzione: se morisse il capitano, a morire sarà un re e la sua casa avrà comunque un erede (“e se muori è un re che muore, / la tua casa avrà un erede”); se invece dovesse morire il marinaio, per la sua famiglia sarebbe la rovina (“quando io non torno a casa / entran dentro fame e sete”).
Dopo la ripetizione del ritornello, l’ultima strofa propone un sorprendente ribaltamento della prospettiva.
Il marinaio ammira la proverbiale astuzia del suo capitano (“Capitano, che risolvi / con l’astuzia ogni avventura”) e gli chiede se si ricordi di lui, del suo “soldato” debole e fragile, “che ogni volta ha più paura”. Ma a questo punto l’uomo si contraddice, assapora e analizza la sua paura, trova in essa “un gusto strano”; e con un’improvvisa impennata emotiva proclama: “Se ci fosse ancora mondo, / sono pronto. Dove andiamo?”.
Spariti il pensiero della patria, il ricordo della famiglia, la preoccupazione per i figli; sparite le paure e le rivendicazioni precedenti. Il “marinaio / a cui manca pane e vino” appare ora “contagiato” dal suo capitano e desideroso di esplorare terre nuove, “se ci fosse ancora mondo”.
Lucio Dalla nell’album “Bologna 2 settembre 1974” (registrato dal vivo) spiegò che la canzone “Itaca” era la metafora della ribellione del proletariato (i marinai) contro gli industriali (Ulisse); non a caso il coro della canzone, indicato nella copertina del disco come “Coro popolare”, era composto dai lavoratori della casa discografica RCA.
E tuttavia, come si è visto, se di “ribellione” voleva parlare la canzone, questa ribellione si è spenta ed è stata anzi negata dall’ultima strofa: il destino del marinaio resta quello di ubbidire, di andare dove vuole il suo capitano, di continuare a seguirlo ovunque, lontano da Itaca.
Itaca non è il mondo, non è la mèta. C’è qualcosa di Kavafis in questa prospettiva: “Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti?”.
E tuttavia il problema, per Dalla, dovette restare ambiguamente irrisolto; infatti si ha notizia che, in alcune esecuzioni dal vivo, preferì sostituire “brechtianamente” il finale con una frase sferzante e realistica: “Ma se non mi porti a casa / capitano, io ti sbrano”.
[Se si vuole ascoltare il brano, è facilmente reperibile su Youtube].
Itaca
Capitano che hai negli occhi
il tuo nobile destino,
pensi mai al marinaio
a cui manca pane e vino?
Capitano che hai trovato
principesse in ogni porto,
pensi mai al rematore
che sua moglie crede morto?
Itaca Itaca Itaca!
La mia casa ce l’ho solo là
Itaca Itaca Itaca!
E a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare.
Capitano le tue colpe
pago anch’io coi giorni miei,
mentre il mio più gran peccato
fa sorridere gli dei.
E se muori è un re che muore
la tua casa avrà un erede;
quando io non torno a casa
entran dentro fame e sete
Itaca Itaca Itaca!
La mia casa ce l’ho solo là
Itaca Itaca Itaca!
E a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare.
Capitano, che risolvi
con l’astuzia ogni avventura,
ti ricordi di un soldato
che ogni volta ha più paura?
Ma anche la paura in fondo
mi dà sempre un gusto strano
Se ci fosse ancora mondo,
sono pronto; dove andiamo?
Itaca Itaca Itaca!
La mia casa ce l’ho solo là
Itaca Itaca Itaca!
E a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare.