La giornata della Liberazione in un giornale del 1945

Grazie a mio nonno e a mio padre sono in possesso di un enorme archivio di giornali d’epoca; io ho proseguito la raccolta, che parte dalla fine dell’Ottocento e arriva ai giorni nostri.

Stamattina ho qui davanti a me una copia de “Il nuovo Corriere” di giovedì 26 aprile 1945, che riferisce gli storici eventi del giorno prima.

“Il nuovo Corriere” era al suo primo numero e sostituiva da quel giorno il “Corriere della Sera”, «per metterlo a immediata disposizione della causa antifascista». Come precisava un trafiletto sul lato destro della prima pagina, la compilazione del giornale era stata affidata «a quei redattori antifascisti del c. d. S. che dall’8 settembre hanno attivamente militato nelle file del movimento clandestino durante le ore drammatiche della lotta. La maggior parte di essi uscì volontariamente dal giornale all’arrivo dei tedeschi subendone poi le persecuzioni; alcuni hanno combattuto nelle formazioni partigiane, altri sono reduci dalle galere nazifasciste». Insomma, un gruppo di giornalisti coraggiosi, coerenti, mai disponibili a compromessi e cedimenti contro la violenza e l’intimidazione.

Parallelamente, erano esclusi dal nuovo giornale libero quei redattori del “Corriere” che avevano «operato direttamente e consapevolmente contro la libertà e la democrazia, al servizio della tirannide fascista prima e del terrore nazista poi». Un reale, forte, chiaro, inconfondibile esempio di “denazificazione” (all’epoca il significato di certe parole era assolutamente chiaro e inconfondibile).

Il titolo a nove colonne del giornale è: «È giunta la grande giornata – MILANO INSORGE CONTRO I NAZIFASCISTI – L’ultimatum del Comitato di Liberazione Nazionale agli oppressori: “Arrendersi o perire!”».

La direzione del giornale era stata affidata a Mario Borsa (1870-1952), che era stato indicato dal maggiore Michael Noble, responsabile del Comando alleato per le pubblicazioni nel Nord Italia.

A Borsa va sicuramente attribuito il bellissimo editoriale, intitolato “Riscossa”, di cui trascrivo alcuni brani: «Milano vive oggi una delle ore più drammatiche della sua storia. Il popolo rialza fieramente la testa: il popolo grida: basta! Nulla potrà soffocare questo suo grido che erompe da una profonda e lunga esasperazione. Basta, dunque! […] Intendiamoci. Non vi devono essere vendette individuali, ma vi deve essere giustizia. Il popolo che tanto ha sofferto ha ragione di esigere che si chieda conto delle sue sofferenze a coloro che gliele hanno inflitte. Vi sono uomini e fortune da colpire. […] Nessuno potrà sfuggire alla sua sorte, ma devono essere appunto procedimenti legali, non rappresaglie personali. Il turbine odierno non ci deve far perdere di vista il domani costruttivo. Il domani ci serba un grave compito, ma l’opera di ricostruzione delle nostre case sarà nulla al confronto dell’opera di ricostruzione delle nostre coscienze».

Come si vede, una posizione ferma ma equilibrata, che documenta un desiderio di non diventare identici, nella reazione, agli assassini che avevano infestato l’Italia per anni.

C’era anche una ferma autocritica per quei vent’anni di follia fascista: Borsa infatti afferma che non bisognava «aver paura di confessare che siamo stati degli imbecilli e peggio» e che occorreva fare autocritica «se vogliamo trovare la forza di rialzare la testa».

Soprattutto, non bisognava avere (dopo tanti anni di “partito unico”) paura dei “partiti”: infatti, prosegue l’editoriale, «essi sono necessari al buon funzionamento della cosa pubblica: “partium contentionibus rex publica crescitur”». L’editorialista invitava poi a «ricordarsi che la libertà, anche con le sue possibili, momentanee deviazioni e deformazioni, è sempre una scuola, mentre il fascismo, con tutte le sue apparenze di ordine e di quiete, non era e non poteva essere che un carcere».

Al centro della pagina si legge il proclama del Comitato di Liberazione Nazionale, che aveva in quelle ore diramato ai nazifascisti un ben più drastico e perentorio monito: «ARRENDERSI O PERIRE! Questa è l’intimazione formale e precisa che il CLN delegato dal Governo nazionale per la condotta della lotta di liberazione nell’Italia occupata indirizza a tutte le forze d’occupazione tedesche e ai loro complici. Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato. Sia ben chiaro per i componenti delle Forze armate del cosiddetto governo fascista repubblicano che chi sarà colto con le armi in mano sarà fucilato. Solo chi abbandona oggi, subito, prima che sia troppo tardi, volontariamente, le file del tradimento, solo chi si arrende al CLN e consegna le armi – quante più armi può – ai patrioti avrà salva la vita».

La parte inferiore della pagina riferisce la cronaca delle “ore memorabili” del 25 aprile 1945 a Milano: «CRONACA DI ORE MEMORABILI – Il popolo milanese si batte per la libertà – Esemplare compattezza delle masse operaie nelle manifestazioni di sciopero – Il C.L.N. impegna la lotta a viso aperto contro gli oppressori – I capisaldi fascisti attaccati durante la notte dalle forze partigiane».

Milano 25 aprile 1945

Riporto qui alcune parti di questo articolo, che freme di un entusiasmo irrefrenabile per un momento atteso per troppo tempo e fra troppi dolori: «Senza osare ancora crederlo, Milano si è risvegliata ieri mattina all’ultima giornata della sua interminabile attesa. Da alcuni giorni la grande speranza aveva acquistato una verosimiglianza meravigliosa, via via che sulla carta della Germania appesa negli uffici, nei tinelli di mille e mille case, le bandierine fatali si spostavano da una parte e dall’altra, in minacciose protuberanze, serrando sempre più la loro stretta. Per vie misteriose, voci che dapprima parevano strane o pazzesche si spandevano per la città, accrescendo l’ansia della liberazione. […] Ma i volti degli armati fascisti – quanto più rari del solito – apparivano diversi dal solito, come svuotati. I loro mitra, pur branditi con accentuata ostentazione con la canna orizzontale per rispondere a qualsiasi sorpresa, anziché forza dicevano smarrimento e incertezza. E passavano rombando autocarri e autocarri tedeschi: cumuli di casse, di pacchi, di mobili, perfino di materassi con in cima la scorta armata. Sopra la cabina del conducente un soldato dalla faccia impenetrabile brandeggiava lentamente la mitragliatrice a destra e a sinistra, a titolo di avvertimento: ma era già lontano, scomparso in fondo alla via, una trista ombra dispersa. E di chi erano quelle belle automobili zeppe di valige e valigette, dal cui finestrino spuntava il nero becco di un’arma? A quale lungo viaggio si accingevano? I tram andavano ancora ma già si capiva che Milano aveva interrotto il lavoro; il fiato sospeso, essa sentiva il destino, accumulata in lunghi mesi una carica immensa, mettersi in moto alla fine e incalzare con ritmo sempre più precipitoso. L’organizzazione della riscossa, maturata nell’ombra, rivelava all’improvviso le sue innumerevoli ramificazioni e la solidità della sua estesissima rete. Le parole d’ordine passate segreta mente di bocca in bocca, di comitato in comitato, di azienda in azienda, trovavano immediata esecuzione».

Un trafiletto in fondo alla pagina comunica la fuga di Mussolini («Mussolini scompare da Milano dopo drammatiche tergiversazioni»).

In seconda pagina si dà notizia della “rapida ritirata” dei Tedeschi nella pianura padana (la zona di Mantova era stata conquistata dagli alleati e i partigiani avevano preso Modena), della liberazione totale di Genova (avvenuta già il 24 aprile per l’azione insurrezionale dei partigiani e di tutto il popolo genovese), dell’accerchiamento di Berlino (metà della capitale tedesca era già in mani sovietiche).

Colpisce un trafiletto con un monito dei governi di Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica, a nome di tutte le nazioni unite, per evitare maltrattamenti dei prigionieri di guerra: «Qualsiasi persona colpevole di maltrattamenti o che li permetta su prigionieri di guerra, internati civili o profughi alleati sia nella zona di battaglia, sia nelle linee di comunicazione o in campi, ospedali, prigioni o in qualunque altro posto, sarà spietatamente punita». E speriamo che sia stato davvero così, per non imitare la barbarie dei nemici appena sconfitti.

Questa è la cronaca che diventa storia, la memoria che non deve essere perduta, il messaggio che non deve essere dimenticato.

In quel momento tutto il Meridione d’Italia era libero da quasi due anni: e la spaccatura prodotta nella coscienza nazionale dalle diverse esperienze vissute è ancora sensibile in molte cicatrici mai chiuse del tutto.

Oggi, che di “denazificazioni” si farnetica per giustificare sanguinarie guerre d’invasione, oggi che le contrapposizioni ideologiche e le dietrologie si affrontano ostilmente senza trovare un punto d’incontro, oggi che si rischia sempre più la “de-ideologizzazione”, la perdita del senso della politica (si pensi all’attuale “governo-minestrone”, nato dall’inettitudine e dal fallimento della politica tradizionale), oggi che viviamo in un’epoca che ha smarrito il vero valore della libertà e della politica, mi sembra giusto sperare che la “Liberazione”, che oggi festeggiamo, sia per noi anzitutto liberazione dalla mediocrità, dal menefreghismo qualunquista, dalla confusione ideologica, dalle contrapposizioni urlate e mai meditate, dall’asservimento alla globalizzazione indiscriminata.

E forse, rileggendo quelle righe scritte il 25 aprile 1945, potremmo tornare a riflettere e a desiderare davvero un reale cammino verso tempi migliori.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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