La voce dell’Adda

12 novembre 1628: nell’osteria di Gorgonzola un giovane cliente chiama l’oste con un cenno e chiede il conto; ha consumato solo “un boccone e una mezzetta di vino” ma l’oste (un tizio intrigante, uno che ficcava in viso “due occhi pieni d’una curiosità maliziosa”) presenta un prezzo piuttosto salato. Il ragazzo paga senza fiatare, senza tirare sul prezzo anche se gli resta poco denaro (“quantunque l’acque fossero molto basse”).

La sua priorità è filarsela il più lontano possibile; infatti in quella osteria era da poco giunto un mercante da Milano e aveva riferito le attesissime notizie sui tumulti del giorno prima: in particolare aveva riferito di un delinquente sobillatore che era stato arrestato, colto in flagrante con “un fascio di lettere” e trascinato in galera; ma questo “manigoldo” (che “certo era uno de’ capi”) l’aveva fatta franca, perché “i suoi compagni, che facevan la ronda intorno all’osteria, vennero in gran numero, e lo liberarono”.

A sentire questo racconto, al giovane “quel poco mangiare era andato in tanto veleno” ed era scappato via. Si trattava infatti, per chi non lo avesse ancora capito, di quel delinquente scappato alla giustizia, di quel sobillatore, di quel rivoluzionario: il famigerato Lorenzo Tramaglino, “o, come dicevan tutti, Renzo”. Solo che il racconto del mercante era pieno di imprecisioni e falsità: Renzo non era certo un incallito criminale: e in quel guaio si era cacciato solo per la sua ingenuità, per “aiutare Ferrer”, per salvare il vicario di provvisione che la folla voleva linciare, per far del bene insomma, come era nella sua natura.

Un bravo, educato, modesto e onesto giovane, timorato di Dio. Eppure da qualche giorno sembrava che il destino ce l’avesse con lui: il suo matrimonio con Lucia rinviato dal curato don Abbondio con vaghe e incomprensibili motivazioni, l’inutile consultazione dell’avvocato Azzeccagarbugli a Lecco, il tentativo fallito di sposarsi ugualmente sorprendendo il curato, la fuga dal paese (“Addio, monti sorgenti dall’acque”), la separazione da Lucia e dalla madre di lei Agnese, l’arrivo a Milano per trovare aiuto presso padre Bonaventura, l’imprevista rivolta in città, l’ubriacatura all’osteria in compagnia di un tal Ambrogio Fusella (in realtà uno sbirro), l’arresto, la fuga.

Troppo, per quel povero giovane montanaro, che ora scappava verso l’Adda, distante solo sei miglia (come aveva detto l’oste). L’Adda era (dai tempi della Pace di Lodi del 1454) il confine naturale tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia: passandolo, sarebbe stato al sicuro, sfuggendo al bando di cattura che incombeva su di lui.

La campana del vicino paese suona le ventiquattro (le ore si contavano dal tramonto e stanno calando le tenebre; per noi sarebbero quasi le 17,30).  Il giovane evita la strada maestra e si inoltra per “una straducola a mancina”; non c’è più anima viva. Unica compagnia di Renzo sono i suoi pensieri: in un lungo soliloquio contesta il racconto che ha sentito dal mercante e si indigna delle calunnie sul suo conto.

Ma a poco a poco la situazione presente lo distrae da queste vane recriminazioni: ed è una situazione di assoluto disagio: “Le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e ormai dolorosa; tirava una brezzolina sorda, uguale, sottile, che doveva far poco servizio a chi si trovava ancora indosso quegli stessi vestiti che s’era messi per andare a nozze in quattro salti, e tornare subito trionfante a casa sua; e, ciò che rendeva ogni cosa più grave, quell’andare alla ventura, e, per dir così, al tasto, cercando un luogo di riposo e di sicurezza”.

Renzo tende le orecchie, “per veder se sentiva quella benedetta voce dell’Adda”; ma inutilmente. Ode invece i cani che dalle cascine ringhiano al suo passaggio e teme di essere scambiato per un ladro. Il faticoso cammino prosegue: “Cammina, cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e di scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento di fiume vicino, e s’inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l’attraversava”.

Ma nulla, non si sente niente, tutto tace. L’ambiente circostante si fa sempre più cupo e solitario, non si vedono più quei “segni di coltura umana, che prima pareva quasi che gli facessero una mezza compagnia”.

A questo punto, nella mente di Renzo riemergono i timori ancestrali, quelli che seppelliamo nella nostra mente dai più profondi recessi della nostra infanzia, quelli che ci accompagnano di nascosto nella nostra esistenza, pronti a balzare fuori all’improvviso e a spaventarci di nuovo.

Renzo scambia gli alberi per “figure strane, deformi, mostruose”; schiaccia le foglie secche al suo passaggio e questo suono ha “per il suo orecchio un non so che d’odioso”; vorrebbe correre ma la stanchezza non glielo permette; e scende su di lui una “brezza notturna… rigida e maligna”, che spegne in lui “quell’ultimo rimasuglio di vigore”.

È il punto di non ritorno, quello in cui o si affonda o ci si salva. È il momento della disperazione assoluta, che può sfociare nella morte o nella redenzione. Renzo allora “comanda” al suo cuore di resistere: “richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse”.

Freddamente, il giovane esamina le possibilità a sua disposizione e si ripropone “d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria”. Rischiando di essere riconosciuto, identificato, arrestato: ma tutto gli pare meglio di quella solitudine, di quel silenzio spettrale, di quei terrori irrazionali.

A questo punto, “stando così fermo, sospeso il fruscìo de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: – è l’Adda! – Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore”.

È un periodo sintatticamente costruito sul ritmo ternario: tre proposizioni secondarie, tre sostantivi che indicano sempre più chiaramente il riconoscimento (“rumore/mormorio/mormorio d’acqua corrente”), tre verbi al presente (“sta/è/esclama”), altri tre sostantivi che – con triplice climax ascendente – definiscono l’Adda (“amico/fratello/salvatore”). E la voce dell’Adda è anche, per il cattolico Manzoni e per la semplice fede di Renzo, l’incarnazione della Provvidenza che accompagna ed aiuta.

Renzo si rianima: “La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de’ pensieri”. Arriva sull’orlo di una riva e  “guardando in giù tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l’acqua luccicare e correre”. Di fronte, sulla riva opposta, vede i paesi, i colli, e “una gran macchia biancastra, che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente”.

Il giovane ha ripreso perfettamente il suo autocontrollo; non vede nessuna barca, non sente battere remi; ma non pensa certo di attraversare il fiume a nuoto: “Se fosse stato qualcosa di meno dell’Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva bene che l’Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza”. Ricorda di aver visto poco prima un capanno di paglia e fango, dove i contadini custodivano il raccolto d’estate e che era abbandonato d’autunno, per cui decide di passare lì la notte. Qui si stende sulla paglia e, dopo avere ringraziato la provvidenza con una fervida preghiera, cerca di dormire.

Ma non è facile: nella sua mente inizia “un andare e venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l’oste, Ferrer, il vicario, la brigata dell’osteria, tutta quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi don Rodrigo”.

In quel momento d’agitazione “tre sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara, nette d’ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti al certo, ma strettamente legate nel cuore del giovine: una treccia nera e una barba bianca”. Così il ricordo di Agnese, la treccia nera di Lucia e la barba bianca di padre Cristoforo illuminano la notte di Renzo.

L’indomani mattina, “il cielo prometteva una bella giornata” e si vede “quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace”. Poco dopo, un pescatore traghetta il giovane sulla sponda opposta dell’Adda: e qui Renzo troverà rifugio presso il cugino Bortolo.

In questo capitolo XVII dei “Promessi Sposi” il “romanzo di formazione” (“Bildungsroman”) di Renzo vive uno dei suoi momenti principali: il protagonista diventa un “eroe cercatore”, un personaggio itinerante che nella dimensione del viaggio scopre anzitutto se stesso, in una “prova di iniziazione” che consiste anche nell’eliminare gli ultimi residui della lontana infanzia e le ultime paure dell’inconscio.

Quanto all’Adda, è il luogo di confine fra dannazione e salvezza, la meta da raggiungere e superare, l’obiettivo desiderato e faticosamente raggiunto: “Cammina, cammina, o presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce”. E infatti il fiume viene riconosciuto da Renzo anzitutto a livello sonoro, prima ancora di essere visto. L’Adda, poi, proviene dal suo lago, dai suoi monti: il “salvatore” è anche il compaesano, il “fratello”, che – in quel “locus horridus” che è la cupa foresta – purifica il viandante, gli restituisce le sue memorie, la “positività” del suo eden perduto, il ricordo del suo villaggio.

A questo punto, rigenerato da questo contatto quasi “genetico”, Renzo ritrova se stesso e può tornare a programmare il suo futuro.

P.S.:

L’Adda fu sempre caro a Manzoni. Nel 1803, quando aveva solo 18 anni, aveva inviato a Vincenzo Monti un idillio allegorico in 83 endecasillabi sciolti, intitolato appunto “Adda”, invitandolo a soggiornare nella villa del Caleotto, presso Lecco; era un’opera composta di getto, in un sol giorno. In una cornice bucolica ricca di riferimenti mitologici e poetici.

Monti rifiutò l’invito, adducendo motivi di salute e di lavoro; ma non mancò di lodare i versi del «bravo amico e poeta», che però a noi appaiono piuttosto freddi e aulici: e forse la voce dell’Adda non parlava ancora al cuore di Manzoni.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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