Nel II capitolo del “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa viene descritto il pranzo offerto dal Principe di Salina ai maggiorenti del feudo di Donnafugata.
Siamo nell’agosto 1860: Garibaldi aveva appena completato la conquista della Sicilia e si apprestava a risalire la penisola: il Principe e la sua famiglia avevano lasciato Palermo dopo «lunghi e complicati» preparativi, «per la complicata questione dei lasciapassare, necessari in quei tempi agitati per chi volesse spostarsi».
Il viaggio da Palermo a Donnafugata era stato lungo e faticoso: «Le strade, le famose strade siciliane per causa delle quali il principe di Satriano aveva perduto la Luogotenenza erano delle vaghe tracce irte di buche e zeppe di polvere». I pernottamenti a Marineo (“in casa di un notaio amico”), a Marineo (“in una locandaccia”) e a Prizzi (in un sudicio albergo) inducono il Principe a una cupa riflessione esistenziale: «immerso nel sudore e nel fetore non aveva potuto fare a meno di paragonare questo viaggio schifoso alla propria vita, che si era svolta dapprima per pianure ridenti, si era inerpicata poi per scoscese montagne, aveva sgusciato attraverso gole minacciose per sfociare poi in interminabili ondulazioni di un solo colore, deserte come la disperazione». Ma infine si era giunti alla meta e la folla plaudente di Donnafugata aveva accolto entusiasticamente il feudatario e la sua famiglia, che avevano assistito al solenne “Te Deum” nel luogo.
Nel Palazzo Salina, Don Fabrizio aveva ricevuto la visita del suo confessore, Padre Pirrone, che aveva rivelato i sentimenti provati da una delle figlie del Principe, Concetta, per il cugino Tancredi: «La signorina Concetta non ha dubbi: le attenzioni, gli sguardi, le mezze parole di lui, tutte cose che divengono sempre più frequenti, hanno convinto quell’anima santa; essa è sicura di essere amata; ma, figlia rispettosa e ubbidiente, voleva chiedervi, per mio mezzo, che cosa dovrà rispondere quando queste proposte verranno. Essa sente che sono imminenti».
ll Principe non dà peso alle parole del religioso: «Da dove mai quella ragazzina avrebbe dovuto attingere una esperienza che le permettesse di veder chiaro nelle intenzioni di un giovanotto? e di un giovanotto come Tancredi, per di più! Si trattava probabilmente di semplici fantasie, di uno di quei “sogni d’oro” che sconvolgono i guanciali degli educandati. Il pericolo non era vicino».
Il fatto è che, in realtà, «Il Principe amava molto questa sua figlia; ma amava ancor più Tancredi. […] Tancredi, secondo lui, aveva dinanzi a sé un grande avvenire; egli avrebbe potuto essere l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico. Per far questo gli mancava soltanto una cosa: i soldi; di questi Tancredi non ne aveva, niente. E per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse. Treno di casa… e Concetta con tutte le sue virtù passive sarebbe stata capace di aiutare un marito ambizioso e brillante a salire le sdrucciolevoli scale della nuova società? Timida, riservata, ritrosa come era? Sarebbe rimasta sempre la bella educanda che era adesso, cioè una palla di piombo al piede del marito».
I sogni di Concetta, però, svaniscono quella sera stessa, durante il solenne pranzo nel Palazzo Salina. Fra gli invitati c’è infatti Angelica Sedàra, la bellissima figlia del rozzo sindaco Calogero Sedàra, la cui apparizione aveva suscitato stupore e ammirazione in tutti, come si legge nel ritratto un po’ barocco che l’autore ne fa: «Era alta e ben fatta, in base a generosi criteri; la carnagione sua doveva possedere il sapore della crema fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello delle fragole. Sotto la massa dei capelli color di notte avvolti di soavi ondulazioni, gli occhi verdi albeggiavano, immoti come quelli delle statue e, com’essi, un po’ crudeli. Procedeva lenta, facendo roteare intorno a sé l’ampia gonna bianca e recava nella persona la pacatezza, l’invincibilità della donna di sicura bellezza».
Particolarmente colpito dalla bellezza della fanciulla è Tancredi, che a tavola siede al suo fianco e, per fare colpo su di lei, le racconta i “gloriosi fatti d’arme” di Palermo a cui aveva partecipato schierandosi con i garibaldini. In particolare, narra un episodio avvenuto la sera del 28 maggio, allorché con i commilitoni Tassoni e Aldrighetti aveva fatto irruzione in un convento di clausura per conquistare un posto di vedetta, trovandosi di fronte un gruppo di suore terrorizzate: «Era buffo vederle, brutte e vecchie come erano, nelle loro tonache nere, con gli occhi sbarrati, pronte e disposte al… martirio. Guaivano come cagne». E qui Tancredi riferisce la battutaccia rivolta da Tassoni alle suore “disposte… al martirio”: «Niente da fare, sorelle, abbiamo da badare ad altro; ritorneremo quando ci farete trovare le novizie!».
Quando Angelica, eccitata dal racconto, si lascia scappare un commento entusiasta (“Come avrei voluto trovarmi con voi!”), Tancredi coglie la palla al balzo trasformandosi «da quel giovanotto ammodo che in realtà era, in un soldataccio brutale» e dice ad Angelica: «Se ci fosse stata lei, signorina, non avremmo avuto bisogno di aspettare le novizie».
Angelica, trovatasi ad essere «l’oggetto di un doppio senso lascivo», scoppia a ridere sguaiatamente; a questo punto Concetta, «col volto di brace, con due piccole lagrime sull’orlo delle ciglia», rivolge al cugino di cui è innamorata una battuta aspra e sferzante: «Tancredi, queste brutte cose si dicono al confessore, non si raccontano alle signorine, a tavola; per lo meno quando ci sono anch’io».
E gli volta le spalle.
Tancredi, evidentemente, resta male per l’incidente; e l’indomani mattina, durante il rituale pellegrinaggio della famiglia Salina al monastero di Santo Spirito (per pregare sulla tomba della Beata Corbèra, antenata del Principe), chiede allo zio di poter entrare con loro nel convento di clausura. Ma a questo punto Concetta (che pure appariva quel giorno “un po’ distratta ma serena”) mortifica il cugino con una battuta lancinante: «Tancredi, passando abbiamo visto una trave per terra, davanti la casa di Ginestra. Vai a prenderla, farai più presto a entrare». Dopo di che, rivolta al padre, aggiunge: «Lascia stare, papà, lui scherza; in un convento almeno c’è stato, e gli deve bastare; in questo nostro non è giusto che entri».
I visitatori (non l’escluso Tancredi) entrano a questo punto nel convento; e al termine del pellegrinaggio di Tancredi non c’è più traccia (padre Pirrone dice che se n’era andato essendosi ricordato di una lettera urgente da scrivere).
Al ritorno al palazzo, dalla finestra il Principe avvista Tancredi nella piazza di Donnafugata: «Aguzzò gli occhi: era Tancredi; lo riconobbe, benché fosse un po’ lontano, dalle spalle cascanti, dal vitino ben racchiuso nella redingote. Aveva cambiato abito: non era più in marrone come a Santo Spirito ma in blu di Prussia, il “colore della mia seduzione”, come diceva lui stesso. Teneva in mano una canna dal pomo smaltato […] e camminava leggero come un gatto, come qualcuno che tema d’impolverarsi le scarpe. A dieci passi indietro lo seguiva un domestico che reggeva una cesta infiocchettata contenente una diecina di pesche gialline con le guancette rosse. Scansò un monello, evitò con cura una pisciata di mulo. Raggiunse la porta di casa Sedàra».
La scenata di gelosia di Concetta ha avuto un effetto immediato: ogni scrupolo di Tancredi è svanito e, alla livida cugina, ha preferito il fascino sensuale di Angelica.
Se il II capitolo si chiude glissando sul primo incontro d’amore dei due giovani, nel successivo capitolo Tancredi chiederà espressamente allo zio di chiedere per lui la mano della bellissima ragazza; e dopo qualche frase degna del “pieno meriggio romantico” («Tu sai, zio, che io non posso offrire alla fanciulla amata null’altro all’infuori del mio amore, del mio nome e della mia spada») aggiungerà una motivazione “storico-economico” del progettato matrimonio, sottolineando la necessità che «unioni tra famiglie come quella dei Falconeri e quella dei Sedàra […] venissero incoraggiate per l’apporto di sangue nuovo che esse recavano ai vecchi casati, e per l’azione di livellamento dei ceti, che era uno degli scopi dell’attuale movimento politico, in Italia».
E Concetta? A recriminare per lei è la madre, Maria Stella, che la sera, parlando a letto con il Principe, inveisce contro Tancredi (definito “un traditore”) invitando il marito a non fare da mediatore per quelle nozze improponibili. Ma le isteriche istanze della moglie sono respinte violentemente dal Principe, pienamente convinto che il nipote abbia fatto la scelta giusta; don Fabrizio allora impone la sua decisione in modo vigoroso e inappellabile: «Decido io; ho già deciso da quando tu non te lo sognavi neppure. E basta!».
Di fronte alla volontà inesorabile del marito, Maria Stella tace intimorita (“guaiolava basso come un cuccioletto minacciato”); ma paradossalmente, quando si corica accanto al collerico marito, si sente «tutta consolata e orgogliosa di aver per marito un uomo tanto energico e fiero. Che importava Tancredi… ed anche Concetta…».
Che importa Concetta?
Povera Concetta… Ma come sarà da allora la sua vita?
Lo vedremo alla prossima puntata, che ci condurrà in una zona meno nota e meno esplorata del romanzo di Tomasi e, soprattutto, ci darà modo di fare delle riflessioni e delle divagazioni che mi sembrano molto interessanti e stimolanti.
A presto!