Il piccolo Montalbano e il giorno dei Morti

Nel romanzo “Riccardino”, pubblicato postumo nel 2020 ma scritto da Andrea Camilleri nel 2005 con l’intento dichiarato di farne l’epilogo della storia di Montalbano, l’autore introduce una splendida digressione che ricorda un episodio dell’infanzia del commissario.

Nel brano viene ricordata la tipica usanza siciliana di far trovare ai bambini, la mattina del 2 novembre, dei regali che si dicono portati nottetempo dai defunti.

Il piccolo Salvo Montalbano aveva da poco perso la sua mamma, morta prematuramente, ed era stato affidato dal padre a una coppia di zii senza figli, che vivevano in un altro paese.

Il primo di novembre il padre di Salvo viene a trovarlo e lo sveglia, con grande gioia del bambino, che a distanza di tanti anni ricorda con profonda emozione quel momento.

Il padre comunica al bambino che l’indomani andranno al cimitero a far visita alla mamma e gli spiega che, nella notte fra l’uno e il due novembre, i morti scendono dal cielo e portano regali ai bambini buoni, riempiendo un canestro di giocattoli e di dolci (“cosi duci”). Chiede allora al piccolo quale regalo spera di ricevere dalla mamma (“a portare i regali non potiva essiri che lei”). E Salvo risponde senza esitazioni: “Un triciclo”.

Il bambino aspetta dunque la notte, sperando di poter rivedere la sua mamma, di cui ha solo un vago e luminoso ricordo: «‘na speci di luci biunna ‘n movimento, come le spiche di frumento quanno supra ci batte il soli».

Allora si chiede, disperato, perché sia capitato proprio a lui di perdere la madre; e non gli basta la vaga consolazione della zia, che gli dice che quella era stata la volontà di Dio (“ u Signuruzzu aviva addiciduto accussì”).

Salvuccio però decide di restare sveglio, fingendo di dormire, per poter rivedere, anche solo per un istante, la sua mamma: «Giurò che l’occasioni di quella notti non l’avrebbi perduta. Finalmente avrebbi potuto vidiri ‘a mamà, s’appromittì di ristari vigliante. Non provava scanto. Che scanto ti pò fari ‘na morta se è tò matre? Lo pigliò però un pinsero: se ‘a mamà s’addunava che lui non era ancora addrummisciuto, capace che si nni tornava novamenti ‘n celo senza farisi vidiri da lui. Abbisognava perciò fari finta di dormire, come ai gatti che pari che tenno l’occhi chiusi e invece contano le stiddre».

Ma ogni sforzo eroico del “picciriddu” per restare sveglio finisce per risultare vano: «Arrisistì tanticchia con l’occhi a pampineddra e di colpo, senza addunarisinni, calumò nel sonno».

L’indomani mattina, al risveglio, il piccolo trova un grande canestro che contiene «un triciclo russo fiammanti, tutto circunnato da cosi duci: frutti che parevano veri fatti di pasta reali, rami di meli, mustazzola di vino cotto, carcagnette, tetù , viscotti regina. E c’era macari un pupo di zuccaro che arrapprisintava un bersaglieri».

Al cimitero il bambino va con il triciclo; e pedala per i vialetti, incontrando tanti altri bambini che giocano come lui con i regali “dei Morti”: «Mentri che i granni pregavano davanti alla tomba d’a mamà, si misi a curriri col triciclo nei vialetti del camposanto chini di genti e ‘ncontrò a ‘na quantità di picciliddri come a lui che jocavano coi regali che gli avivano portato i morti: monopattini, automobili a pedali, trenini, fucili, aeroplanini, bambole. E si chiamavano, arridevano, si passavano di mano i regali, cangianno il jorno dei morti in un jorno di festa. Lui no, lui pedalava e arripitiva: “Grazie, mamà, grazie, mamà…”. E gli viniva di chiangiri e di ridiri».

Colpisce, in questo bellissimo episodio, l’estrema delicatezza nella descrizione della psicologia del bambino, che ha subìto una terribile disgrazia e si rivela sensibile e bisognoso d’affetto; al tempo stesso, emerge da qui la remota spiegazione di tante caratteristiche del futuro commissario: la solitudine connaturata nella sua esistenza, l’abitudine alla riflessione, l’estrema sensibilità, la determinazione ma anche la fragilità.

Se Riccardino voleva essere una sorta di “testamento” camilleriano, brani come questo contribuiscono indubbiamente a caricare di una sorta di aura “mitica” la storia di Montalbano, risultando al tempo stesso una commossa testimonianza su un’antica usanza tradizionale siciliana così suggestiva.

Contestualmente, direi, si fa giustizia di tanti giudizi frettolosi su Camilleri, ritenuto spesso, a torto, autore “facile”, superficiale e ripetitivo. Basterebbero quelle due righe che descrivono il bambino impazzito di gioia, che gira per il cimitero con il suo triciclo, ringraziando la sua mamma perduta, piangendo e ridendo al tempo stesso, per fare di Camilleri l’autore straordinario che è.

P.S.: Per questo episodio, rinvio al volume “Camilleriade”, da me scritto con Vito Lo Scrudato e Bernardo Puleio, ed. Diogene Multimedia, pp. 129-131.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *