“Pianefforte ‘e notte” (e altro…)

Tanti e tanti anni fa. Un vicolo stretto e oscuro di Napoli, dove sicuramente tutti si conoscono.

L’ora è tarda: è l’una di notte e molti già dormono. Ma non dorme il poeta, non riesce a prendere sonno: resta alla finestra, non vuole ancora chiudere la sua lunga giornata.

Improvvisamente, in quel vicolo antico, “luntanamente”, risuonano alcuni accordi di pianoforte, che “sospirano” nell’aria sulle note di un motivo ancora più antico. C’è sempre qualcosa di più antico dell’antico.

Il poeta ascolta, rapito: il pianoforte non si vede, è lontano, non si sa chi e perché lo stia suonando a quell’ora. Si vedono invece, nel cielo, le stelle infinite e la luna che splende luminosa. L’aria è dolce, né freddo né caldo, la temperatura ideale. Un attimo di felicità assoluta, di magia impagabile.

Che desiderio, allora, di sentire una “bella voce” che accompagni quelle note! Come sarebbe bello udire un canto, di donna o di uomo non importa, ma un canto, che accompagni quell’armonia di note musicali, che renda viva la partitura, che la interpreti con tutta la passione che si sente in quella melodia!

Ma la magia finisce. Il motivo, solitario e lento, “muore”, sfuma, svanisce, si spegne. Il vicolo sembra ora ancora più buio, il silenzio torna a dominare, assoluto.

Soltanto il poeta resta ancora alla finestra: anzi, alla finestra resta la sua “anima” e aspetta ancora. Che cosa? Inutile chiederlo.

Forse spera in un altro momento sublime come il precedente, forse stanno prevalendo in lui le riflessioni, i ricordi, le sensazioni, le malinconie, che non riescono a spegnersi a loro volta. E la sua mente rimane lì, incantata, perduta nei suoi pensieri.

Nu pianefforte ‘e notte

sona luntanamente,

e ‘a museca se sente

pe ll’aria suspirà.

È ll’una: dorme ‘o vico

ncopp’a sta nonna nonna

‘e nu mutivo antico

‘e tanto tiempo fa.

Dio, quanta stelle ‘n cielo!

Che luna! E c’aria doce!

Quanto na bella voce

vurria sentì cantà!

Ma sulitario e lento

more ‘o mutivo antico;

se fa cchiù cupo ‘o vico

dint’a ll’oscurità.

Ll’anema mia surtanto

rummane a sta fenesta.

Aspetta ancora. E resta,

ncantannese, a pensà.

Questa bellissima poesia fu scritta da Salvatore Di Giacomo (1860-1934), poeta napoletano amico di Verga e verista anche lui, noto per le sue novelle (ad es. “Assunta Spina”, che divenne poi un’opera teatrale) e per i suoi poemetti in dialetto napoletano.

Salvatore Di Giacomo

Fu un autore totalmente immerso nella sua Napoli, della quale seppe realisticamente rappresentare la gente; forse però Di Giacomo raggiunge i suoi livelli più alti nelle poesie brevi come questa, senza pretese intellettualistiche, senza sovrastrutture teoriche: lirica pura, di una schiettezza spontanea e semplice. Anche per questo, forse, “Pianefforte ‘e notte” piacque a Pier Paolo Pasolini, che volle tradurla in italiano.

Se nella bella lirica di Di Giacomo nessuna voce accompagnava il canto, due altre splendide canzoni napoletane “rivivono” e rielaborano diversamente lo stesso contesto, aggiungendo – per l’appunto – il suono di una voce; si tratta di “Voce ‘e notte” e “Pianoforte e voce”.

Il testo di “Voce ‘e notte” fu scritto nel 1903 dal giovane poeta Eduardo Nicolardi, che aveva perso la donna amata, tale Anna Rossi (sposatasi, per volere della famiglia, con un altro uomo, un anziano e ricco commerciante); tenacemente innamorato, il giovane invita la donna ad ascoltare, nella notte, mentre si stringe al suo sposo, la sua voce disperata (“nun puó sbagliá ‘sta voce è ‘a mia”), quella voce che lei ben conosce fin da quando, timidi e vergognosi (“scurnuse”), si parlavano dandosi del “voi”; lei ascolterà allora ciò che lui non riesce ad esprimere: “tutt’o turmiento ‘e nu luntano ammore, / tutto ll’ammore ‘e nu turmiento antico”.

La musica era di Ernesto De Curtis. La canzone “Voce ‘e notte” fu interpretata da Roberto Murolo, Lina Sastri e Claudio Villa, ma la versione più affermata fu quella di Peppino Di Capri nel 1959.

La seconda canzone, “Pianoforte e voce”, per me legata a dolcissimi e lontani ricordi, fu composta dalla brava cantante napoletana Teresa De Sio nel 1982. Si tratta di un’esplicita ripresa dell’antica lirica di Di Giacomo, di cui costituisce una sorta di “sequel” altrettanto lirico e struggente.

Anche qui la serata è dolcissima (“Stanotte è accussì doce l’aria”), ma qui la donna vorrebbe vestirsi e uscire, perché qui è estate piena (“cu stu calore nun se po’ durmì”) e l’ha presa una “smania di camminare” (“Che smania m’ha pigliato ‘e camminà”). Meglio così: lei esce e va a cercare qualcuno con cui parlare.

A un certo punto le pare di sentire “pianoforte e voce”: da una finestra aperta arriva questa ventata musicale e stavolta la voce c’è. Ma sono note stonate, chi canta (uomo? donna? non viene precisato) non sa cantare; e anche qui come in Di Giacomo si tratta di “nu motivo e tanto tiempo fa”.

Meglio così, dice lei allora: bisogna credere a queste “note stonate” (“Meglio accussì, / crire a sti note stunate”); tanto, come diceva Eduardo, “a nuttata adda passà”, la notte deve passare.

Anche il cuore della donna è “stonato”: ma quella musica le dà la forza di camminare ancora: va dunque a cercare qualcuno che voglia fare l’alba con lei (“Meglio accussì, / vado a cercà / qualcuno che l’alba vò fa”). Tanto, la nottata deve passare (“Tanto a nuttata adda passà”).

P.S.: per chi fosse interessato, tutte queste bellissime liriche sono facilmente reperibili su Youtube.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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