“Cos’è il Re” di Giovanni Verga

Il 15 gennaio 1881 Giovanni Verga pubblicò sulla “Rivista nuova di scienze, lettere ed arti” una novella intitolata “Cos’è il Re”, che confluì poi nella raccolta delle “Novelle rusticane” (1883).

Protagonista del racconto è un lettighiere (cioè il cocchiere di una carrozza tirata da mule), compare Cosimo, che da Grammichele è giunto a Caltagirone in una brutta giornata di pioggia torrenziale.

Il paese è in gran fermento per la visita imminente del Re, Ferdinando II di Borbone, e della Regina Maria Teresa d’Austria; ma Compare Cosimo, stanco e indifferente, non partecipa minimamente all’euforia collettiva: «era andato a mettersi sulla porta dello stallatico, colle mani in tasca, a sbadigliare in faccia alla gente che era venuta per vedere il Re, e c’era tal via vai quella volta per le strade di Caltagirone che pareva la festa di San Giacomo»

Inaspettatamente, però, “vennero a dirgli che il Re voleva parlargli”. Il narratore (che dobbiamo identificare con un popolano del paese) si sente in dovere di precisare che «veramente non era il Re che voleva parlargli, perché il Re non parla con nessuno, ma uno di coloro per bocca dei quali parla il Re, quando ha da dire qualche cosa»; comunque sia, l’emissario «gli disse che Sua Maestà desiderava la sua lettiga, l’indomani all’alba, per andare a Catania, e non voleva restare obbligato né al vescovo, né al sottointendente, ma preferiva pagar di sua tasca, come uno qualunque».

Trasportare il Re nella sua lettiga! Un onore davvero grandissimo. Ci si aspetterebbe che compare Cosimo faccia i salti di gioia, anche per la prospettiva di una mancia “regale”. Macchè! Avviene tutto il contrario, giacché il pover’uomo invece «avrebbe preferito tornarsene a Grammichele colla lettiga vuota, tanto gli faceva specie di dovervi portare il Re nella lettiga, che la festa gli si cambiò tutta in veleno soltanto a pensarci, e non si godette più la luminaria, né la banda che suonava in piazza, né il carro trionfale che girava per le vie, col ritratto del Re e della Regina, né la chiesa di San Giacomo tutta illuminata, che sputava fiamme, e ove c’era il Santissimo esposto, e si suonavano le campane pel Re».

Il fatto è che Cosimo è quello che oggi sarebbe definito un “soggetto ansioso”; comincia infatti ad avere mille paure: controlla e ricontrolla le sue mule, le striglia, le rimpinza di cibo «per metterle in vigore, come se il Re pesasse il doppio di tutti gli altri». Inoltre è terrorizzato dalla prospettiva di un incidente e teme che gli possa essere tagliata la testa «se per disgrazia una mula avesse a scivolare sui ciottoli umidi della viottola mentre portava il Re», tanto più con quel tempaccio.

Fosse per lui, il lettighiere «in quel momento avrebbe preferito trovarsi nella sua casuccia, dove le mule ci stavano strette nella stalla, ma si sentivano a rosicar l’orzo dal capezzale del letto, e avrebbe pagato quelle due onze che doveva buscarsi dal Re per trovarsi nel suo letto, coll’uscio chiuso, e stare a vedere col naso sotto le coperte, sua moglie affaccendarsi col lume in mano, a rassettare ogni cosa per la notte». Il rassicurante tran tran casalingo viene malinconicamente contrapposto alla “grande occasione” anomala che si prospetta.

All’alba Cosimo viene svegliato dalla “tromba dei soldati”, dall’abbaiare dei cani, dal viavai della gente per le strade, con i venditori ambulanti che si preparano a vendere il torrone. Il bello è che costoro invidiano il lettighiere, «il quale avrebbe visto il Re sul mostaccio, mentre sino allora nessuno aveva potuto avere quella sorte, da quarantott’ore che la folla stava nelle strade notte e giorno, coll’acqua che veniva giù come Dio la mandava». Il privilegio di vedere il Re “sul mostaccio”, cioè (come direbbe il camilleriano agente Catarella) “pirsonalmente di pirsona”, viene invidiato proprio a chi vede questa prospettiva con terrore.

Per di più il Re «si fece aspettare un bel pezzo; a quell’ora forse si infilava i calzoni, o beveva il suo bicchierino d’acquavite, per risciacquarsi la gola, che compare Cosimo non ci aveva pensato nemmeno quella mattina, tanto si sentiva la gola stretta». Il re vive la sua quotidianità indifferente, mentre il poveraccio è attanagliato dall’ansia.

Finalmente, con l’arrivo della cavalleria con lesciabole sfoderate e in mezzo a un frenetico scampanìo e allo scoppio assordante dei mortaretti, «si vide spuntare la carrozza del Re, la quale in mezzo la folla pareva galleggiasse sulle teste». Accanto al sovrano, si vede la regina “piccolina”; invece il Re «era un bel pezzo d’uomo, grande e grosso, coi calzoni rossi e la sciabola appesa alla pancia; e si tirava dietro il vescovo, il sindaco, il sottointendente, e un altro sciame di galantuomini coi guanti e il fazzoletto da collo bianco, e vestiti di nero».

Prima di salire sulla lettiga, il Re, dopo aver parlato «con questo e con quello come se non fosse stato fatto suo», si accosta a compare Cosimo; «gli batté anche colla mano sulla spalla, e gli disse tale e quale, col suo parlare napoletano: – Bada che porti la tua regina! – che compare Cosimo si sentì rientrare le gambe nel ventre».

Tanto più il lettighiere viene sconvolto dopo che una giovinetta pallida si butta ai piedi del Re ottenendo la grazia per suo padre (che aveva cospirato contro il sovrano); ne deduce infatti una conseguenza preoccupante: «Vuol dire che il Re con una sua parola poteva far tagliare la testa a chi gli fosse piaciuto, anche a compare Cosimo se una mula della lettiga metteva un piede in fallo, e gli buttava giù la moglie, così piccina com’era». Come scrive Giuseppe Lo Castro, “nella grazia, compare Cosimo non legge il potere di salvare graziando, legge il potere di vita o di morte del sovrano feudale. Così come ha concesso la vita al regicida, il re avrebbe potuto con lo stesso arbitrio non concederla, e quindi avrebbe potuto lasciargli tagliare la testa. È una manifestazione esplicita di quello che Michel Foucault ha chiamato il biopotere, il potere sui corpi esercitato dal sovrano. La paura del lettighiere risiede nel riconoscimento che l’atto di generosità del sovrano discende dall’arbitrio del suo potere. Il potere del re è così grande, che appunto è un potere quasi divino, di vita o di morte” (Rituali della giustizia e paradossi della verità in alcune novelle di Verga, in “Studia Romanica Posnaniensia”, Vol. XLI/4 Poznań 2014, p. 39).

Il viaggio avviene in una giornata di sole, tanto più bella dopo il precedente maltempo; ma per il lettighiere si trasforma in una lunga sofferenza: «A che gli giovava il sole e la bella giornata a compare Cosimo? se ci aveva il cuore più nero del nuvolo, e non si arrischiava di levare gli occhi dai ciottoli su cui le mule posavano le zampe come se camminassero sulle uova; né stava a guardare come venissero i seminati, né a rallegrarsi nel veder pendere i grappoli delle ulive, lungo le siepi, né pensava al gran bene che avea fatto tutta quella pioggia della settimana, ché gli batteva il cuore come un martello soltanto al pensare che il torrente poteva essere ingrossato, e dovevano passarlo a guado! Non si arrischiava a mettersi a cavalcioni sulle stanghe, come soleva fare quando non portava la sua regina, e lasciarsi cadere la testa sul petto a schiacciare un sonnellino, sotto quel bel sole e colla strada piana che le mule l’avrebbero fatta ad occhi chiusi; mentre le mule che non avevano giudizio, e non sapevano quel che portassero, si godevano la strada piana ed asciutta, il sole tiepido e la campagna verde, scondizolavano e scuotevano allegramente le sonagliere, che per poco non si mettevano a trottare, e compare Cosimo si sentiva saltare lo stomaco alla gola dalla paura soltanto al vedere mettere in brio le sue bestie, senza un pensiero al mondo né della Regina, né di nulla».

Durante il viaggio, la piccola regina chiacchiera con un’altra signora «in un linguaggio che nessuno ci capiva una maledetta» (cioè in tedesco); la sovrana «guardava la campagna cogli occhi azzurri come il fiore del lino e appoggiava allo sportello una mano così piccina che pareva fatta apposta per non aver nulla da fare; che non valeva la pena di riempire d’orzo le mule per portare quella miseria, regina tal quale era! Ma ella poteva far tagliare il collo alla gente con una sola parola, così piccola com’era, e le mule che non avevano giudizio con quel carico leggiero, e tutto quell’orzo che avevano nella pancia, provavano una gran tentazione di mettersi a saltare e ballare per la strada, e di far tagliare la testa a compare Cosimo». In definitiva, «il poveraccio per tutta la strada non fece che recitare fra i denti paternostri e avemarie, e raccomandarsi ai suoi morti, quelli che conosceva e quelli che non conosceva».

Finalmente, all’arrivo a Catania, «dopo aver consegnata la regina sana e salva», Cosimo se ne va a letto senza mangiare e senza bere; non vuole neanche vedere “i danari della regina”: «e li avrebbe lasciati nella tasca del giubbone chissà quanto tempo, se non fosse stato per sua moglie che andò a metterli in fondo alla calza sotto il pagliericcio». Quando poi amici e conoscenti gli chiedono di quel viaggio, «curiosi di sapere come erano fatti il Re e la Regina», Cosimo si rifiuta di raccontare alcunché; infatti gli torna la febbre solo a parlarne («e il medico veniva mattina e sera, e si prese circa la metà di quei danari della regina»).

Anni dopo, la situazione economica del lettighiere peggiora: è stata costruita una bella strada carrozzabile lungo la via in cui esercitava i propri trasporti, sicché la sua professione appare ormai inutile; Compare Cosimo è quasi disoccupato, finché un giorno «vennero a pignorargli le mule in nome del Re, perché non aveva potuto pagare il debito» (si noti il solito soggetto imprecisato, “vennero”: il potere è un’entità anonima che agisce con criteri incomprensibili).

Il lettighiere non si dà pace, ricordando che quelle mule avevano trasportato il Re e la Regina; e anzi, «allora non c’erano le strade carrozzabili, ché la Regina si sarebbe rotto il collo, se non fosse stato per la sua lettiga, e la gente diceva che il Re e la Regina erano venuti apposta in Sicilia per fare le strade, che non ce n’erano ancora, ed era una porcheria. Ma allora campavano i lettighieri, e compare Cosimo avrebbe potuto pagare il debito, e non gli avrebbero pignorato le mule, se non veniva il Re e la Regina a far le strade carrozzabili».

Non basta: Cosimo si vede portar via suo figlio Orazio (detto il “Turco”, «tanto era nero e forte»), arruolato nell’esercito; ma non riesce a capire «che il Re d’adesso era un altro, e quello vecchio l’avevano buttato giù di sella». Della caduta dei Borboni e dell’avvento dei Savoia il poveraccio non è informato, o comunque la cosa non lo tocca più di tanto; rimpiange solo che non sia lì, adesso, quel Re che aveva portato sulla sua lettiga: «diceva che se fosse stato lì il Re, li avrebbe mandati via contenti, lui e sua moglie, proprio sul mostaccio, coi calzoni rossi, e la sciabola appesa alla pancia, e con una parola poteva far tagliare il collo alla gente, e mandare puranco a pignorare le mule, se uno non pagava il debito, e pigliarsi i figliuoli per soldati, come gli piaceva».

La novella denuncia, soprattutto nella parte conclusiva, la condizione avvilente del popolo siciliano, vittima – con il vecchio e ancor più con il nuovo regime –  di un potere lontano e indecifrabile, ma inesorabile nell’attuazione delle sue decisioni categoriche. L’annessione al Regno d’Italia e la realizzazione di alcune strade carrozzabili non sono per Verga fattori di evoluzione sociale: la struttura profonda della società è immutata se non peggiore.

Tuttavia compare Cosimo non è solo il popolano inconsapevole (personaggio ricorrente nella narrativa di Verga); aggiunge, di suo, quella componente nevrotico-ansiosa che lo rende “diverso” dagli altri e ne determina e condiziona il comportamento.

In un’epoca come la nostra, fatta di gente ansiosa di mettersi in mostra, di ostentare un ipocrita servilismo verso i “potenti”, di “incontrare” i “VIP” per farne poi esternazione nei social (grazie anche alla disponibilità demagogica di chi si offre ai “selfie” dei cacciatori di like), il misero lettighiere verghiano appare davvero insolito, controcorrente, quasi patetico. E non si riesce a provare antipatia per questo personaggio schivo, “donabbondesco”, amante del quieto vivere, assalito da mille paturnie e incapace di godersi le soddisfazioni; forse, anzi, Cosimo riesce a riscuotere la nostra comprensione, se non altro come vittima inerme degli arbitri del potere.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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