“Signorinella pallida…”

Un tempo, alcune canzoni erano vere e proprie narrazioni, racconti articolati, con una storia ricca di dettagli e suggestioni. Ascoltarle voleva dire entrare in uno squarcio di vita vissuta o in una sorta di romanzo idealizzato, comunque in una dimensione evocativa, lirica e quasi fiabesca.

C’è una canzone del 1931, “Signorinella”, composta dal grande poeta Libero Bovio e musicata da Nicola Valente, che risponde perfettamente a questi requisiti; ne parlavo incidentalmente ieri sera con un mio caro amico: sorridevamo ricordandone i versi, sicuramente datati, testimoni di un passato svanito e obliato; sarà che siamo ormai attempati, sarà che piace ritrovare antiche memorie arroccate nel labirinto della mente: ma la rievocazione ci è piaciuta. E tanto è piaciuta in particolare a me, che oggi ho voluto rileggere il testo di quell’antico motivo, cercando di “riviverlo” mentre ne riascoltavo i versi e le note.

Immaginiamo un paese lontano da Napoli, un luogo freddo e inospitale; qui vive, da vent’anni, il notaio “don Cesare”: “Al mio paese nevica, / il campanile della chiesa è bianco. / Tutta la legna è diventata cenere; / Io ho sempre freddo e sono triste e stanco”.

Non è felice, don Cesare, notaio affermato in quel paesino; eppure ha una bella posizione, una bella famiglia e un bel bambino. Ma è proprio quel bambino a fargli, un giorno, un brutto scherzo: “Il mio piccino / in un mio vecchio libro di latino / ha trovato, indovina, una pansé”.

Maledetti libri di Latino: buoni soltanto a ricordare il sudore buttato a capire qualcosa in quel vespaio di declinazioni, ablativi assoluti, “cum” con congiuntivo e perifrastiche passive! Se per di più, al suo interno, si cela da decenni una pansé, cioè una mammola, una “viola del pensiero”, ormai avvizzita e rinsecchita, l’effetto patetico è garantito: “Perché negli occhi mi tremò una lacrima? / Chissà, chissà perché”.

E il notaio sprofonda nei ricordi, torna al tempo della sua giovinezza, al momento in cui era studente di Legge a Napoli.

Probabilmente aveva affittato una stanzetta; ci aveva ammassato i suoi libri, i vestiti alla rinfusa, le poche cose portate da casa. E un giorno, spalancando la finestra e facendo entrare in casa il sole di Napoli, aveva visto, proprio di fronte, una ragazza affacciata a guardarlo: “Signorinella pallida, / dolce dirimpettaia del quinto piano, / non v’è una notte ch’io non sogni Napoli / e son vent’anni che ne sto lontano”.

Era nata una storia d’amore, fra quello studentello e la “signorinella pallida”. Capitava: erano molti gli studenti che frequentavano la gloriosa Università partenopea; nella zona molte ragazze lavoravano in casa come stiratrici, sarte, guantaie, ecc. Per molti studenti, era normale «conoscere una ragazza dei vicoli, corteggiarla per ottenere gratis dei favori, come un pranzetto, una lavata alla biancheria ed altro che si poteva supporre. La ragazza si illudeva, perché anche lei stima “o giovene ‘e fora” più del coetaneo che conosce, perché “spera” di andar via dai vicoli, mentre difficilmente il ragazzo napoletano uscirà dallo status sociale cui appartiene. Finiti gli studi, regolarmente “o giovene ‘e fora” sparisce, insalutato ospite, e si farà una posizione con un matrimonio con benestante, mentre la ragazza, se non resta nubile “zitella”, sposerà il giovane che aveva messo da parte» (http://www.ilportaledelsud.org/signorinella.htm).

Sicuramente era andata così anche in questo caso.

C’erano stati i mesi dell’amore, ma poi lui aveva finito gli studi, doveva rientrare a casa, doveva iniziare la sua brillante carriera, doveva rispondere alle attese dei suoi genitori. Non poteva certo tornare al suo paese portandosi dietro una povera “signorinella”, per di più “pallida”.

C’era stato, allora, un ultimo incontro: «Amore mio, / non ti ricordi che nel dirmi addio / mi mettesti all’occhiello una pansé. / Poi mi dicesti con la voce tremula: / “Non ti scordar di me». La storia si ripete: come Madama Butterfly, lei è destinata ad essere abbandonata dal Pinkerton di turno, a restare sola.

E dire che i momenti vissuti insieme erano stati bellissimi: «Bei tempi di baldoria, / dolce felicità fatta di niente: / brindisi coi bicchieri colmi d’acqua / al nostro amore povero e innocente. / Negli occhi tuoi passavano / una speranza, un sogno e una carezza. / Avevi un nome che non si dimentica, / un nome lungo e breve: Giovinezza».

Ci sono ricordi che vorremmo rimuovere; ma è inutile: si acquattano nel profondo del nostro essere e sono pronti a venire fuori imperiosamente, quando una “madeleine” proustiana, un oggetto del passato, un sapore, un profumo, un flash memoriale, ce li riportano davanti, vivi e potenti come erano stati un tempo.

E quel bambino che trova la pansé nel libro di latino provoca nel rispettabile notaio una marea di considerazioni nostalgiche ed amare, gli fa rivivere il momento di quel dono così semplice e struggente: «Perché negli occhi mi tremò una lacrima? / Chissà, chissà perché. / E gli anni e i giorni passano, / uguali e grigi, con monotonia. / Le nostre foglie più non rinverdiscono. / Signorinella, che malinconia! / Tu, innamorata e pallida / più non ricami innanzi al tuo telaio. / Io qui son diventato il buon Don Cesare, / porto il mantello a ruota e fo il notaio».

Troppi anni sono passati; la “signorinella” si sarà sposata, avrà smesso di lavorare per fare la moglie e la mamma, come volevano i tempi e come imponeva il regime. E a lui, avrà pensato mai più?

Resta la realtà presente, nei suoi dettagli visivi e sonori: «Lenta e lontana / mentre ti penso, suona la campana / della piccola chiesa del Gesù. / E nevica, vedessi come nevica. / Ma tu, dove sei tu?».

Dov’è quel lontano amore non vissuto? Che cosa è rimasto di tanta passione e di tanti momenti di felicità? Solo un piccolo fiore rinsecchito e una vita apparentemente impeccabile, che nasconde dietro di sé un vuoto che non è mai stato colmato: «tutta la legna è diventata cenere, / Io ho sempre freddo e sono triste e stanco».

La canzone ebbe un grave torto agli occhi del regime; un verso in particolare risultò indigeribile alla propaganda dell’epoca: «Avevi un nome che non si dimentica, un nome lungo e breve: giovinezza». Come scrive Mario Gianfrate, «questi versi cozzavano irrimediabilmente con le virili parole di “Giovinezza”, inno fascista e in pratica inno nazionale, eseguito in tutte le circostanze insieme alla Marcia reale, che sullo stesso concetto si esprimeva in termini antitetici: “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza, / nella vita e nell’ebbrezza / il tuo canto squillerà”. Concetti diametralmente opposti, quindi, che suonavano stridente contrasto tra la brevità della giovinezza transitoria, patetica e nostalgica di “Signorinella”, e la entusiastica e durevole giovinezza consacrata nell’inno fascista. Ma, anche tra una visione della donna inconciliabile: alla “signorinella pallida” che si strugge d’amore per il giovane studente, ricambiando sguardi languidi e baci pudici, si oppone la gagliardia e la fierezza della donna fascista, non incline al sentimentalismo e alla tristezza. “Signorinella” subirà, così, un “accantonamento” dal sapore censorio e politico e, nel ventennio, non si potrà più ascoltare» (https://ilsudest.it/cultura/2020/03/27/e-signorinella-diviene-un-caso-politico-2/).

Ma dopo la guerra Achille Togliani ripropose la canzone e la riportò al successo. La canzone divenne un “classico” della musica leggera italiana: la interpretarono moltissimi artisti, fra cui Vittorio De Sica, Massimo Ranieri, Claudio Villa, Bobby Solo e Peppino Gagliardi (che nel 1972 la ripresentò a “Canzonissima”).

 Nel 1949, inoltre, la vicenda della canzone fornì lo spunto per il film Signorinella, con Gino Bechi e Antonella Lualdi, per la regia di Mario Mattioli (ma non era un gran che: per Paolo Mereghetti è una “prevedibile commedia degli equivoci a lieto fine”).

Si può risentire la canzone nell’interpretazione di Togliani su YouTube:  https://www.youtube.com/watch?v=cxkMjaGwBHY.

Libero Bovio

P.S. n. 1: Per chi non lo sapesse, Libero Bovio (1883-1942), autore dei versi di “Signorinella”, fu uno dei più grandi autori della canzone napoletana. Sono sue canzoni famosissime come “Tu ca nun chiagne” (musicata da Ernesto De Curtis), “Reginella” (musica di Gaetano Lama), “O Paese d’ ‘o sole”, “Lacreme napulitane”, ecc., tutte risalenti al primo dopoguerra. “Signorinella”, con testo in italiano, fu una sorta di eccezione.

L’attrice Maria Vera Ratti nel ruolo di Enrica Colombo, nella fiction televisiva “Il commissario Ricciardi”, tratta dai romanzi di Maurizio De Giovanni.

P.S. n. 2: Un riferimento subliminale a “Signorinella” c’è sicuramente nei romanzi di Maurizio De Giovanni che hanno per protagonista il commissario Ricciardi, con ambientazione (per l’appunto) negli anni Trenta. A parte la “tata” Rosa, un solo conforto illumina le giornate di Ricciardi: la sera, affacciandosi dalla finestra di casa, vede la sua giovane dirimpettaia, la venticinquenne Enrica Colombo, brava, onesta e seria “figlia di famiglia”: e nasce fra i due giovani un amore castissimo, fatto di sguardi e di silenzi…

SIGNORINELLA

Signorinella pallida,

dolce dirimpettaia del quinto piano,

non v’è una notte ch’io non sogni Napoli

e son vent’anni che ne sto lontano.

Al mio paese nevica,

il campanile della chiesa è bianco,

tutta la legna è diventata cenere,

Io ho sempre freddo e sono triste e stanco.

Amore mio,

non ti ricordi che nel dirmi addio

mi mettesti all’occhiello una pansé;

poi mi dicesti con la voce tremula:

“Non ti scordar di me”

Bei tempi di baldoria,

dolce felicità fatta di niente!

Brindisi coi bicchieri colmi d’acqua

al nostro amore povero e innocente.

Negli occhi tuoi passavano

una speranza, un sogno e una carezza.

Avevi un nome che non si dimentica,

un nome lungo e breve: giovinezza

Il mio piccino

in un mio vecchio libro di latino

ha trovato, indovina, una pansé.

Perché negli occhi mi tremò una lacrima?

Chissà, chissà perché.

E gli anni e i giorni passano,

uguali e grigi, con monotonia.

Le nostre foglie più non rinverdiscono.

Signorinella, che malinconia!

Tu, innamorata e pallida

più non ricami innanzi al tuo telaio.

Io qui son diventato il buon Don Cesare,

porto il mantello a ruota e fo il notaio.

Lenta e lontana,

mentre ti penso, suona la campana

della piccola chiesa del Gesù.

E nevica, vedessi come nevica!

Ma tu, dove sei tu?

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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