I tetù dei Morti

Approssimandosi le festività dei Morti, particolarmente sentite in Sicilia, tornano nei panifici e nelle pasticcerie (che ormai tendono a trasmettere a reti unificate) i dolci tipici del periodo, come sempre innumerevoli nell’isola, che per questo aspetto non è inferiore a nessuno.

Tutti questi dolci andavano a formare il “cannistru”, ovvero il cesto pieno di leccornie che si preparava in occasione della Commemorazione dei defunti: il 2 novembre mattina i bambini siciliani, al risveglio, cercavano per tutta la casa i regali portati nottetempo dai Morti, che erano stati accuratamente celati nei posti più impensati (i Morti, a forza di essere morti, diventano giocherelloni e un po’ “camurruselli”). Dopo un’accurata perquisizione, i piccoli finalmente trovavano la loro sorpresa: giocattoli, scarpe, abiti nuovi e, letteralmente “dulcis in fundo”, un “cannistru” pieno di dolci o frutta secca: i frutti di martorana, i “pupi” di zucchero (o “pupaccena”), i mustaccioli, i buccellati, i biscotti all’anice, i “regina” col cimino, i biscotti di pasta di miele e i “tetù”.

Il “cannistru” dei Morti

Su questi ultimi spendiamo qualche ulteriore parola.

I “tetù” sono biscotti a base di pasta frolla mista a mandorle, ricoperti di glassa al cioccolato o glassa bianca; sono lievemente croccanti all’esterno e morbidi e porosi all’interno. La ricetta originale, oltre a farina, mandorle macinate e strutto, prevede – e questa è l’arma vincente – l’utilizzo degli scarti di pasticceria (tranci di torta, bignè con crema, brioche, cornetti, rimasugli di pan di Spagna, cialde, pasticcini, ecc.), che accrescono il sapore e la consistenza dei biscotti.

I “tetù” a Palermo

Il nome “tetù” deriva forse da “uno io e l’altro tu” e sottolinea bene il desiderio di “condivisione” che questi biscotti inducono, nonché la tendenza a innescare un’inarrestabile sequenza in cui “uno tira l’altro”.

Alcuni distinguono i “tetù” (“tieni tu”) propriamente detti, rivestiti con glassa di zucchero e cacao, dai “teìo” (“tengo io”) ricoperti di glassa di zucchero semplice; io però a Palermo li ho sempre sentiti chiamare tutti “tetù”, chiari o scuri che siano (a testimonianza di un’integrazione razziale emblematica dell’accoglienza di questa città).

In certe zone della Sicilia sono chiamati “catalani”; a Catania assumono il nome di “totò” e sono ricoperti di glassa al cioccolato.

Tetù in variante Technicolor

A questo proposito, la signora che ieri mi ha venduto un bel vassoio di “tetù”, in un ottimo panificio vicino casa mia, mi ha raccontato un curioso aneddoto, di cui però non trovo conferma da nessuna parte; ma anche se fosse semplice invenzione, sua o di altri, mi sembra una storiella graziosa, per cui “relata refero”, libero (finalmente!) da costrizioni filologiche.

A Catania, in occasione di una festa in onore di una principessa, furono invitati due pasticcieri: uno si chiamava di cognome Catalano, dell’altro si sa solo il nome, Totò (e qui sento puzza di bruciato, perché a Catania “Salvatore” è “Turiddu” e non “Totò”, ma transeat…). Al termine della festa, i due chef chiesero di potersi portar via i resti dei dolci, ma gli fu negato; dovettero allora accontentarsi delle briciole, con cui però riuscirono a realizzare i famigerati biscotti. Da qui sarebbero derivati i nomi di “totò” e “catalani” usati per i nostri plurinominabili dolcetti.

A questo punto la signora, con un occhio a Cristo e un altro a san Giovanni per un leggero strabismo, ha aggiunto che la principessa sarebbe stata soprannominata “Tetù”; dopo di che all’alta sua fantasia mancò ulteriore possa.

Sicuramente la storia di questi biscotti meriterebbe ulteriori ricerche; ma per ora basti aver destato un po’ di curiosità in proposito; chi poi non ne fosse curioso affatto, è autorizzato a fiondarsi sui tetù senza ulteriori disquisizioni storiche.

Dignità letteraria fu data ai “tetù” da Andrea Camilleri nel romanzo “La voce del violino”: «Prima di partire, Montalbano era passato al caffè Albanese, dove facevano i migliori dolci di tutta Vigàta e aveva accattato venti cannola appena fatti, dieci chili tra tetù, viscotti regina, mostazzoli di Palermo, dolci di Riposto, frutti di martorana e, a coronamento, una coloratissima cassata di cinque chili» (p. 101). Decisamente il commissario, “liccu cannarutu” come me, non si faceva mancare nulla…

Un ultimo ricordo personale.

Quando ero piccolo, a Genova, per i Morti ci arrivava una cassetta inviata dalla Sicilia dai parenti lontani. Ricordo che l’aspettavo con ansia e, quando mio padre metteva sul tavolo della cucina lo scatolone appena arrivato e ne tirava fuori il prezioso canestro che aveva percorso 1500 chilometri risalendo lo Stivale, io guardavo con meraviglia il ben di Dio che ne veniva fuori, estratto gradualmente da Papà come i conigli dal cilindro di un prestigiatore: i mustaccioli, i tetù, i biscotti regina, i frutti di martorana, i buccellati, i biscotti di pasta di miele e in particolare la “suss’i miele” di Bagheria (lunghi e croccanti rettangoli coloratissimi formati da farina, mandorle tostate, zucchero, miele, uova e cannella).

C’era anche, immancabile, il pupo di zucchero antropomorfo, a forma di “pupo” siciliano, di cavaliere, di damina, di contadinella, ecc.

Ma ricordo che, altrettanto immancabilmente, il “pupo”, con mia grande delusione, arrivava frantumato in mille pezzi e solo con chirurgica pazienza mio padre provava a “rimontarlo” per farmelo vedere; evidentemente gli sballottamenti ferroviari erano risultati micidiali, peggio di una battaglia di Roncisvalle, per quel “pupo” che era partito dalla Sicilia così battagliero…

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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