Ulisse e Penelope: la ricostruzione della coppia

Odisseo, tornato a Itaca dopo vent’anni sotto mentite spoglie, ha appena sterminato i proci, pretendenti alla mano di sua moglie Penelope. L’annuncio del compimento della vendetta viene dato a Penelope da un’esultante nutrice Euriclea, che sale “al piano alto” (sede abituale del gineceo) e sveglia la sua padrona: «Sveglia, Penelope, creatura cara, vieni a vedere / con gli occhi tuoi quello che invochi ogni giorno. / È venuto Odisseo, è in palazzo, finalmente tornato. / E i pretendenti alteri ha ucciso, che la sua casa / affliggevano e i beni mangiavano e opprimevano il figlio» (XXIII 5-9; la traduzione è di Rosa Calzecchi Onesti).

Una notizia splendida, anche perché attesa da tanto tempo. Eppure Penelope non presta fede ad Euriclea: la chiama “pazza” la invita a non prendersi gioco di lei, a lasciarle godere il “sonno soave”. Ma Euriclea insiste: conferma l’arrivo di Odisseo, aggiunge che Telemaco ne era già al corrente. A questo punto Penelope prova una gioia improvvisa, “balza giù” dal letto e chiede ulteriori ragguagli; ma ben presto lo scetticismo torna a impadronirsi di lei: «Come ha potuto gettar le mani sui pretendenti sfrontati / da solo? Essi eran sempre in folla qua dentro» (vv. 37-38).

Euriclea non sa che dire: lei, come le altre donne, sedeva “in fondo alle solide stanze”, mentre “le porte massicce” della grande sala erano chiuse durante la carneficina; solo alla fine Telemaco era venuta a chiamarla; allora aveva visto coi suoi occhi “Odisseo fra i corpi dei massacrati, / ritto” (vv. 45-46). Un’immagine visivamente potente: a terra i “corpi dei massacrati” e su di essi, in piedi, vivo, glorioso, “ritto”, Odisseo; finalmente a testa alta, finalmente autorizzato a proclamare orgogliosamente la sua identità, senza nascondersi più e senza fingere.

Ma Penelope è scettica: “Non è vera la parola che dici; qualcuno / forse dei numi ha ucciso i pretendenti splendidi” (vv. 62-63); invano Euriclea le dice di aver riconosciuto la cicatrice nella gamba di Odisseo.

La regina, perplessa e diffidente, scende nella sala; però poi non sa che fare: parlare da lontano allo sposo o correre ad abbracciarlo? (Il dubbio è simile a quello che Odisseo aveva provato alla vista di Nausicaa: come comportarsi con una persona che non sappiamo chi sia veramente?) La prima soluzione prevale: Penelope siede di fronte a Odisseo e resta “muta a lungo”.

Il silenzio della madre irrita Telemaco, che la rimprovera aspramente: «Madre mia, trista madre, dal cuore insensibile, / perché resti lontana dal padre e non siedi / vicino a lui, non lo interroghi, non cerchi di udirlo? / Nessuna donna con cuore tanto ostinato / se ne starebbe lontana dall’uomo, che dopo molto soffrire, / tornasse al ventesimo anno nella terra dei padri. / Ma sempre il tuo cuore è più duro del sasso» (vv. 97-103). La solita durezza che gli uomini riservano alle donne, fossero pure le loro madri, quando “non capiscono”, quando oppongono agli uomini il muro dei loro incomprensibili pensieri. Ma “la savia Penelope”, rassicura il figlio, dicendo che lei e suo padre si potranno facilmente riconoscere: «abbiamo per noi / dei segni segreti, che noi sappiamo e non gli altri» (vv. 109-110).

Telemaco si allontana e Odisseo va a ripulirsi dalla strage; quando torna, è “simile agli immortali d’aspetto” (v. 163), grazie a un ennesimo “lifting” da parte della dea Atena. Entrato nella sala, l’eroe vede la sua donna silenziosa, fredda, immobile; allora ne rimprovera il “cuore tanto ostinato” e chiede nervosamente alla nutrice di preparargli il letto: «anche solo / potrò dormire: costei ha un cuore di ferro nel petto» (vv. 171-172).

Qui bisogna fare una precisazione: dal punto di vista del riconoscimento “fisico”, non c’è dubbio che Penelope veda davanti a sé, senza ombra di dubbio, suo marito; è lui, è identico anzi a vent’anni prima grazie al ringiovanimento operato da Atena. Il problema non è quello, non è riconoscere “il corpo” di suo marito.

Il problema è un altro. Chi è, ora, quell’uomo? Che ha fatto in questi vent’anni? Penelope sa bene cosa ha fatto lei: ha pianto sempre, ha tessuto una tela ingannevole per prendere tempo con i pretendenti, ha sperato e disperato innumerevoli volte, ha vissuto illusioni e disillusioni. Ma lui? Lui dove è stato, che esperienze ha avuto, a che cosa ha pensato? E soprattutto, domanda principale che si pone Penelope nel suo cuore: si ricorda ancora di loro due come coppia, di loro due come erano? Non a caso le prime parole che Penelope dice al marito sono: «So assai bene com’eri» (v. 175); come a dire: come “eri” lo so; come “sei” devo scoprirlo.

Penelope allora mette alla prova Odisseo e dà ad Euriclea un ordine impossibile da eseguire: “Sì, il suo morbido letto stendigli, Euriclea, / fuori dalla solida stanza, quello che fabbricò di sua mano» (vv. 177-178). Impossibile, per chi sa che quel letto è stato ricavato da un ulivo “dalle ricche fronde”, intorno al quale Odisseo ha costruito la sua stanza nuziale; quel letto non si può spostare.

L’eroe si infuria: «Chi l’ha spostato il mio letto? Sarebbe stato difficile / anche a un esperto, a meno che un dio venisse in persona» (vv. 184-185); poi rievoca, con una punta di nostalgica amarezza, il modo in cui egli stesso aveva fabbricato il talamo, descrivendo accuratamente il suo minuzioso lavoro di re-artigiano (così erano una volta i re…).

Alla fine del racconto, una cosa è chiara: Odisseo “si ricorda”; quel letto affonda ancora le sue profonde radici nel cuore della casa, un cuore basato su sentimenti comuni, su ricordi indelebili e condivisi. A questo punto, ogni resistenza di Penelope crolla: «a lei di colpo si sciolsero le ginocchia ed il cuore», v. 205); e nel pianto della donna, che corre incontro allo sposo, c’è tutto il dolore di vent’anni di solitudine e di attesa: «Non t’adirare, Odisseo, con me, tu che in tutto / sei il più saggio degli uomini; i numi ci davano il pianto, / i numi, invidiosi che uniti godessimo la giovinezza e alla soglia di vecchiezza venissimo» (vv. 209-213).

Il cuore della regina, “ch’è pur tanto ostinato”, si è persuaso; e Odisseo prorompe in un pianto sconfinato: «Così disse, e a lui venne più grande la voglia del pianto; / piangeva tenendosi stretto la sposa dolce al cuore, fedele» (vv. 231-232).

La coppia si è ritrovata e si è ricostituita, nel segno dei forti e indelebili ricordi comuni, dell’immenso dolore vissuto da entrambi, dell’amore profondo mai venuto meno; un amore così forte che Odisseo, pur di tornare dalla sua donna, aveva rifiutato l’immortalità offertagli dalla splendida dea Calipso.

Una meravigliosa similitudine chiude l’episodio: «Come bramata la terra ai naufraghi appare, / a cui Poseidone la ben fatta nave nel mare / ha spezzato, travolta dal vento e dalle grandi onde; / pochi si salvano dal bianco mare sopra la spiaggia / nuotando, grossa salsedine incrosta la pelle; / bramosi risalgono a terra, fuggendo la morte; / così bramato era per lei lo sposo a guardarlo, / dal collo non gli staccava le candide braccia» (vv. 233-240). Naufraga lei, come tante volte era stato naufrago lui; e la terra “bramata”, la felicità negata per troppi anni, finalmente appare all’orizzonte.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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