‘A pizza e niente cchiù

Ieri sera, in un’ottima pizzeria del centro storico di Palermo, ho avuto la conferma che oggi, per scegliere una pizza, occorre come minimo un corso di formazione, che comprenda nozioni gastronomiche ma anche lessicali.

Il menu proposto nel locale, molto ricco, descriveva le varie tipologie di pizza con dettagli così minuziosi da risultare ardui da comprendere e assimilare; ecco, ad esempio, come era definita la pizza “Mazara”: «vellutata di zucchine, stracciatella di bufala campana, battuto di gambero rosso di Mazara del Vallo marinato agli agrumi di Sicilia, chips di zucchine, fili di peperoncino bio, olio EVO, servita alla cloche con affumicatura al legno di cedro e confettura di stagione».

Seguiva la traduzione inglese, la cui parte finale (“smoked with cedar wood, served with cloche”) non contribuiva purtroppo a risolvermi il problema della “cloche”, che per me era fino a ieri la barra di comando degli aeroplani; solo oggi, consultando internet, ho scoperto che la cloche, nel servizio di mensa e di ristorante, è “un coperchio, copripiatti, per lo più metallico, in forma di campana tonda od ovale, a cupola o a tronco di cono, che si pone sopra il vassoio o il piatto di portata per mantenere calda la vivanda”.

Purtroppo però ieri la mia ignoranza mi ha indotto a ripiegare sulla pizza “Corrieri”, che appariva di comprensione più intuitiva: “Fiordilatte, mortadella di bufalo, burrata di bufala, colata di pistacchio di Bronte e granella di pistacchio, olio EVO”. A dire il vero, il mio animo cartesiano mi ha indotto anche qui a diversi dubbi, ad esempio sul nome “Corrieri” (cognome dell’inventore o destinatari ideali?), su come si possa ottenere la mortadella da un bufalo (cosa che apre scenari inediti sul futuro della mortadella nel XXI secolo) e sull’olio EVO (che supponevo risalisse al Medio Evo, ma che invece – come ho scoperto oggi – viene ricavato con la sola spremitura di olive “sane”, quelle cioè che non hanno mai toccato terra; la sigla significa – come non capirlo? – “extravergine di oliva”).

In definitiva, alla faccia di Cartesio e soprattutto per evitare ulteriori sofferenze nella consultazione del complessissimo menu, mi sono deciso. E “Corrieri” fu.

Mia moglie, invece, ha scelto la “Del Monte” (chiamata così forse in onore del leggendario uomo “Del Monte” di una pubblicità degli anni ‘80), composta da “vellutata di spinaci novelli, fiordilatte, capocollo di suino nero dei Nebrodi, burrata di bufala, battuto di noci, miele, olio EVO”.

Siccome noi dividiamo tutto (del resto ci avviamo a festeggiare 40 anni di matrimonio), abbiamo deciso di farci servire le due pizze divise a metà, in modo da gustarle entrambe (allego la foto dell’ibrido così ottenuto).

La mia metà era migliore (queste sì che sono soddisfazioni), ma anche l’altra non era male.

Tuttavia, mentre invano tentato di riconoscere, nelle due pizze dimezzate, la quantità esorbitante degli ingredienti citati nel menu, mi è venuta in mente una canzone napoletana del 1966, presentata al Festival della canzone Napoletana da una strana coppia che univa Milano e Napoli (Aurelio Fierro e un giovanissimo Giorgio Gaber).

La canzone, intitolata «‘A pizza» (eseguita in un napoletano chiarissimo, ben diverso dal “grammelot” incomprensibile di certi attuali “secondini” partenopei), aveva un ritornello famosissimo: «Ma tu vulive ‘a pizza, / ‘a pizza, ‘a pizza, / cu ‘a pummarola ‘ncoppa, / cu ‘a pummarola ‘ncoppa. / Ma tu vulive ‘a pizza, / ‘a pizza, ‘a pizza / cu ‘a pummarola ‘ncoppa. / ‘A pizza e niente cchiù!».

E pensavo: che epoca banale, semplicistica, riduttiva era quella della mia giovinezza! La pizza, allora, era mortificata, ridotta alla sua sola essenza e con di sopra soltanto la “pummarola”! Il massimo di varianti consentite erano la “Napoli” (con acciughe), la “parmigiana” (con melanzane mai esistite a Parma), la “4 gusti” (con i carciofini dei barattoli) e pochissime altre.

Vuoi mettere le odierne pizze più che trendy, con le loro “cloche” e gli oli EVO, con mortadelle ricavate dagli animali più impensabili e con le colate di pistacchio (ovviamente di Bronte)?

Ma oggi non più di sola pizza “Margherita” vive l’uomo. E, come abbiamo potuto constatare, dopo tanti anni l’uomo “del Monte” torna a dire sì.

A fine cena io ho gustato un cannolo “scomposto” (quello che qui a Palermo era stato ribattezzato “scafazzé”), Silvana una dimenticabile “crema catalana” (la Catalogna è troppo lontana).

Il conto, attutito dallo sconto di “The Fork”, è stato onesto; e ora pensiamo alla dieta della Quaresima.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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