Un epigramma di Edgar Lee Masters: “Dippold l’ottico”

La “Antologia di Spoon River” (“Spoon River Anthology”) del poeta statunitense Edgar Lee Masters (1868-1950), pubblicata sulla rivista “Reedy’s Mirror” tra il 1914 e il 1915, è ispirata al VII libro dell’Antologia Palatina, la più ricca raccolta di epigrammi dell’antica Grecia.

L’opera è una silloge di epitaffi che (da un’ottica “post mortem”) presenta le vicende dei cittadini di due piccoli villaggi, Petersburg e Lewistown, nei pressi di Springfield (Illinois). Spoon è il fiume che fa da testimone alle vicende narrate in questi versi.

Edgar Lee Masters (1868-1950)

I 244 epigrammi dell’Antologia prendono ispirazione da situazioni e personaggi noti al poeta e realmente esistiti, tanto che la pubblicazione dell’opera in America suscitò l’indignazione di molti protagonisti degli epitafi ancora vivi.

Pur nella loro individualità, i vari componimenti di Spoon River – tramite una fitta rete di rimandi interni – si intrecciano tra loro formando un romanzo corale fatto di storie piccole, ma irripetibili. Le poesie non tracciano biografie dettagliate, ma illuminano un particolare della vita dei singoli defunti, un segreto inconfessato e ignoto alla comunità, un momento fugace di felicità vissuto nel segreto ma capace di dare senso ad un’intera esistenza, un rimorso o pentimento mai esternato e ora eternamente presente.

I contenuti e il tono dei versi di Lee Masters rappresentarono da subito una novità nel panorama letterario dell’epoca: le composizioni dell’Antologia non hanno alcun intento celebrativo o encomiastico, non raccontano soltanto storie edificanti o esemplari, ma portano alla luce con estrema sincerità e franchezza situazioni intime e personali, senza l’ipocrisia o il puritanesimo che caratterizzava allora i rapporti sociali delle due piccole comunità.

L’accoglienza della critica fu varia: W. D. Howells nel settembre 1915 scrisse sull’Harper’s Magazine che quella di Masters non era poesia ma “shredded prose” (“prosa fatta a brandelli”); Ezra Pound invece inneggiò al capolavoro.

Anche in Italia l’Antologia di Spoon River si impose subito all’attenzione dei lettori, pur dovendo attraversare non poche difficoltà legate alla censura fascista. Cesare Pavese già nel 1931 commentò nella rivista “La cultura”, in termini entusiastici, la poesia di Lee Masters, esaltandola per il suo realismo privo di retorica. Lo scrittore piemontese fece poi conoscere e tradurre l’Antologia a Fernanda Pivano, giovane studiosa di letteratura americana, e nel ‘43 propose la pubblicazione della traduzione da lei realizzata all’editore Einaudi.

Da allora Spoon River, con il suo ritorno alla poesia dell’individuo, divenne un libro “cult”, una sorta di simbolo di resistenza antiretorica alla celebrazione della “grandeur” propugnata dal regime fascista. Dalla sua prima comparsa ad oggi si contano più di 60 edizioni, risultato straordinario per un’opera di poesia.

In Italia nel 1971 Fabrizio De Andrè si è ispirato a “Spoon River” nel “concept album” “Non al denaro, né all’amore, né al cielo”, il cui titolo riprende un verso tratto dalla composizione proemiale dell’Antologia. L’album è composto da nove brani (composti in collaborazione con Giuseppe Bentivoglio, per i testi, e Nicola Piovani, per le musiche) scritti a partire da altrettanti testi della “Antologia di Spoon River”.

Propongo qui un epigramma che a me è sempre piaciuto molto (ma ce ne sarebbero tanti altri altrettanto belli); si intitola “Dippold l’ottico” (“Dippold the optician”) e presenta inizialmente una scena cui sono abituati tutti coloro che, come me, portano gli occhiali.

L’oculista (ma qui, nel piccolo paesino americano, questa funzione è svolta da un ottico) controlla la vista del paziente, facendogli provare varie lenti.

A ogni tentativo, l’ottico chiede all’altro che cosa riesca a vedere; ma ben presto si comprende come quelle lenti in realtà aprano scenari del tutto fantastici, spalancando gli occhi della mente del paziente. Egli dunque, alle domande ricorrenti dell’ottico (“Che cosa vedete adesso? … E adesso? …. E adesso?”), risponde elencando le straordinarie immagini che gli si presentano: prima soltanto colori (“globi di rosso, giallo, porpora”), poi ricordi d’infanzia (“mio padre e mia madre e le mie sorelle”), quindi sogni letterari o memorie di antichi studi (“Cavalieri in armi, belle donne, visi gentili”), luoghi della memoria (“un campo di grano – una città”), ricordi (forse) di antichi amori (“molte donne dagli occhi vivi e labbra schiuse”).

A un certo punto però la visione si impoverisce, si annebbia; con la nuova lente, l’uomo vede “soltanto un bicchiere su un tavolo” (memoria, forse, di un momento di difficoltà, della ricerca dell’oblio nell’alcool) e poi “solo uno spazio vuoto” (l’apice di una crisi), per cui confessa (forse con disappunto): “Non vedo nulla in particolare”.

Ma l’ottico insiste, cambia ancora le lenti, chiede che cosa appaia alla vista del cliente; e in effetti tornano immagini più nitide e rasserenanti (“Pini, un lago, un cielo d’estate”).

Il negoziante è soddisfatto (“Questa va meglio”), ma insiste, vuole provare altre lenti.

Ne fornisce, dunque, una più potente e chiede ancora una volta: “E adesso?”. L’altro risponde di vedere “un libro”, ma quando l’ottico gli domanda di leggerne una pagina non riesce a farlo (“Non posso. Gli occhi mi sfuggono di là dalla pagina”). Non è facile trovare le risposte, la realtà è un libro aperto ma spesso non riusciamo a leggerci dentro.

L’ottico però insiste: “Provate questa lente”. La nuova visione così ottenuta è eterea, evanescente; il potenziale acquirente vede “abissi d’aria”.

Ci siamo quasi; il venditore dice soddisfatto che il risultato è “ottimo”, ma non gli basta ancora. Applica agli occhi dell’altro l’ultima lente, la più potente e straordinaria; e chiede, ancora una volta: “E adesso?”.

La risposta, finalmente, è quella sperata; la visione ottenuta è “luce, soltanto luce che trasforma tutto il mondo in giocattolo” (“Light, just light, making everything below it a toy world”).

A questo punto l’ottico, trionfante, proclama: “Benissimo, faremo gli occhiali così” (“Very well, we’ll make the glasses accordingly”).

Davvero meravigliosi sarebbero quegli occhiali che riuscissero a trasformare questo mondo buio, perfido, violento, insensibile, in un oceano infinito di luce, in una luce che riuscisse a mutare la triste realtà in un gioco, a trasformare – davvero – “tutto il mondo in un giocattolo”.

Il gioco liberatorio, terapeutico, miracoloso è quello di riuscire a vedere la luce in mezzo al buio dell’esistenza; ma occorre una lente speciale per farlo e non è facile trovarla. Si deve procedere per tentativi, concentrando la nostra mente, facendo le scelte giuste, insistendo nelle prove senza scoraggiarsi per i fallimenti lungo il cammino.

Il premio finale sarà la luce, la serenità, una sorta di nirvana conquistato sul campo dopo una lunga lotta.

Nella sua reinterpretazione, Fabrizio de Andrè leggeva questa poesia come un subliminale accenno alle sostanze allucinogene e psicotrope, in grado di “aumentare” la percezione e di “riproporre” in chiave diversa la realtà: “Non più ottico ma spacciatore di lenti / per improvvisare occhi contenti, / perché le pupille abituate a copiare / inventino i mondi sui quali guardare”. La vera funzione degli occhiali di Dippold, dunque, sarebbe quella di superare i limiti della scienza, fornendo un’evasione che consenta di trovare (in una sorta di “sballo”) una realtà alternativa migliore.

In questa chiave di lettura (ma – visto il titolo della poesia – si potrebbe dire “in questa ottica”…) sarebbe ammissibile un parallelo con la celebre canzone dei Beatles “Lucy in the Sky with Diamonds” (1967), in cui alcuni hanno visto l’acronimo dell’LSD. Così la pensa, ad esempio, Federico Pistone in una sua analisi dell’opera di De Andrè: «Fabrizio chiude la saga della scienza con questa sofisticata follia, che parte da un valzer familiare e si inabissa in un gorgo ipnotico quasi new age alla Tangerine Dream, conducendo i clienti in un paradiso parallelo, generato – senza bisogno di specificarlo – dalle sostanze allucinogene come l’LSA, lo stesso che quattro anni prima ha concesso l’acronimo, e qualcos’altro, alla Lucy in the sky with diamonds dei Beatles. […] Ecco la vera funzione degli occhiali, ecco l’ennesimo fallimento della scienza che ha bisogno di evadere per trovare un senso alla realtà, non riuscendo a renderla vivibile» (F. Pistone, Tutto De André, Arcana, 2018, pp. 96-97].

Ecco la traduzione italiana della poesia di Masters, a cura di Fernanda Pivano, seguita dal testo originale inglese.

Dippold l’ottico

Che cosa vedete adesso?

Globi di rosso, giallo, porpora.

Un momento! E adesso?

Mio padre e mia madre e le mie sorelle.

Sì. E adesso?

Cavalieri in armi, belle donne, visi gentili.

Provate questa.

Un campo di grano – una città.

Benissimo! E adesso?

Una donna giovane e angeli chini su di lei.

Una lente piú forte! E adesso?

Molte donne dagli occhi vivi e labbra schiuse.

Provate queste.

Soltanto un bicchiere su un tavolo.

Oh, capisco! Provate questa lente!

Soltanto uno spazio vuoto – non vedo nulla in particolare.

Bene, adesso!

Pini, un lago, un cielo d’estate.

Questa va meglio. E adesso?

Un libro.

Leggetemi una pagina.

Non posso. Gli occhi mi sfuggono di là dalla pagina.

Provate questa lente.

Abissi d’aria.

Ottima! E adesso?

Luce, soltanto luce che trasforma tutto il mondo in giocattolo.

Benissimo, faremo gli occhiali cosí.

Dippold The Optician

What do you see now?

Globes of red, yellow, purple.

Just a moment! And now?

My father and mother and sisters.

Yes! And now?

Knights at arms, beautiful women, kind faces.

Try this.

A field of grain – a city.

Very good! And now?

Many womens with bright eyes and open lips.

Try this.

Just a globet on a table.

Oh I see! Try this lens!

Just an open space – I see nothing in particular.

Well, now!

Pine trees, a lake, a summer sky.

That’s better. And now?

A book.

Read a page for me.

I can’t. My eyes are carried beyond the page.

Try this lens.

Depths of air.

Excellent! And now?

Light, just light, making everything below it a toy world.

Very well, we’ll make the glasses accordingly.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *