L’ “Aiace” di Sofocle a Siracusa

L’ “Aiace” di Sofocle apre oggi, 10 maggio, la 59° Stagione di spettacoli classici al Teatro greco di Siracusa; è la quarta volta che la tragedia viene messa in scena in più di 100 anni di rappresentazioni classiche, organizzate dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Regista dello spettacolo sarà Luca Micheletti, che interpreterà anche il ruolo del protagonista.

Può essere utile anzitutto, come introduzione allo spettacolo, riepilogare le essenziali notizie mitografiche su questo personaggio.

Aiace era figlio di Telamone, re di Salamina, e di Peribea.

L’etimologia del nome dell’eroe è dubbia:

  • il personaggio sofocleo afferma che il suo nome deriva dal grido di dolore αἰαῖ (vv. 430-431);
  • Pindaro collega il nome ad αἰετός “aquila”, perché questo rapace avrebbe assistito, per ordine di Zeus, alla nascita dell’eroe (cfr. Istmica V 53);
  • una leggenda più tarda riferisce che un giacinto, sui cui petali si leggevano le lettere AI, era fiorito sul sangue di Aiace suicida;
  • alcuni studiosi recenti collegano il nome all’aggettivo αἰολός “veloce, impetuoso”.

Aiace (Αἴας) compare già nell’Iliade, dove:

  • è considerato originario di Salamina (Il. VII 199 e II 557); 
  • è di statura gigantesca (πελώριος, III 229), di robusta corporatura, vero “baluardo degli Achei” (ἕρκος Ἀχαιῶν, Il. III 229 e VII 211);
  • è secondo solo ad Achille per forza e valore;
  • ha contribuito alla spedizione con dodici navi.
  • si segnala nel duello contro Ettore (Il. VII 206 ss.), nella battaglia presso le mura (Il. XI 463 ss.), nella difesa delle navi (Il. XV 415 ss. e XVI 102 ss.) e nella lotta per il cadavere di Patroclo (Il. XVIII 151 ss.).
  • partecipa, con Odisseo e Fenice, all’ambasceria inviata ad Achille per tentare di convincere quest’ultimo a tornare in battaglia; in quell’occasione il Telamonio, rendendosi conto dell’irremovibilità del Pelìde, pronuncia poche e sbrigative parole (oltretutto gli sembra assurdo il motivo dell’ira di Achille: costui infatti si è ritirato “per una fanciulla”, Il. IX 637);
  • nei giochi funebri in onore di Patroclo pareggia il match di lotta con Odisseo e perde nella gara con la lancia contro Diomede (cfr. Il. XXIII 708 ss. e 811 ss.).

Dunque nell’Iliade non c’è alcun riferimento ad una vicenda tragica di Aiace, né si accenna a una sua ὕβρις verso gli dèi (orgogliosamente, non fa mai ricorso all’aiuto degli dèi, ma li rispetta); manca anche ogni accenno a sue inimicizie con altri guerrieri (e particolarmente con Odisseo o con gli Atridi).

Ben diverso è Aiace nell’Odissea (XI 541-564), ove compare per la prima volta una prova del contrasto con Odisseo; durante il viaggio agli Inferi, quest’ultimo tra le anime dei defunti vede in disparte l’anima di Aiace, corrucciata per la contesa delle armi di Achille. Odisseo tenta di placare l’ira di Aiace, ricordandogli i suoi meriti e dando la colpa dell’accaduto a Zeus (cfr. XI 559). Ma l’invito cade nel vuoto.

Il poeta della Νέκυια non fa cenno esplicito a un suicidio dell’eroe (Kamerbeek ritiene però che esso sia implicito nelle parole di Odisseo) né tanto meno a una sua precedente follia. Odisseo però appare rammaricato della sorte del Telamonio, anticipando così lo stato d’animo che gli verrà attribuito nell’Aiace sofocleo.

In Omero non è menzionata la concubina di Aiace, Tecmessa, che era stata catturata durante un’incursione dei Greci nel suo regno, nei pressi di Troia; aveva dato ad Aiace il suo unico figlio, Eurisace.

I poeti del ciclo epico precisarono le notizie mitiche su Aiace:

1. nell’Etiopide, attribuita ad Arctino di Mileto, Aiace era furente allorché gli Achei avevano assegnato le armi di Achille a Odisseo e non a lui; non si parlava forse ancora del massacro del bestiame argivo compiuto dall’eroe impazzito, che si suicidava forse immediatamente dopo aver subìto l’ingiustizia;

2. nella Piccola Iliade di Lesche di Mitilene, invece, Aiace tramava di vendicarsi uccidendo gli Atridi e Odisseo; ma Atena lo rendeva pazzo ed egli infieriva sul bestiame. Rinsavito, l’eroe si suicidava. Agamennone proibiva che il cadavere dell’eroe fosse bruciato sul rogo, ordinando invece che fosse posto su una bara di legno (ἐν σορῷ); questo spunto fu tenuto presente da Sofocle nella seconda parte dell’Aiace, concernente appunto il contrasto per il seppellimento dell’eroe.

In altre varianti mitografiche, Aiace diventò un membro della famiglia degli Eacidi: Peleo, padre di Achille, e Telamone, padre di Aiace, furono considerati fratelli, figli di Eaco e di Endeide. Madre di Aiace sarebbe stata Eribea, originaria di Megara, della famiglia dei Pelopidi.

Pindaro in varie odi fa riferimento ad Aiace, considerandolo vittima di disonesti intrighi ed emblema dell’invidia che colpisce soprattutto i nobili: le menzognere astuzie di Odisseo sono state preferite alle virtù di Aiace, coraggioso ma “incapace di parlare” (ἄγλωσσον) (cfr. Pindaro Istmica V 20, Nemea VII 20, Nemea VIII 22 ss.). Una tradizione diceva che dopo il naufragio di Odisseo il mare aveva portato le armi sulla tomba di Aiace.

Aiace inoltre fu venerato come eroe eponimo della tribù Aiantide (cfr. Erodoto V 66); feste in suo onore (Αἰάντεια) si tenevano ad Atene e Salamina, ove gli era stato dedicato un tempio.

La figura di Aiace compare in molte pitture vascolari ed in rilievi antichi; si possono ricordare la cosiddetta “tazza di Codro” da Vulci (ora al Museo Civico di Bologna), l’anfora di Exekias con Achille e Aiace che giocano ai dadi, ancora da Vulci (Vaticano), il “vaso François” (Firenze, Museo Archeologico) con Aiace che sorregge il corpo di Achille, ecc. Aiace è stato poi identificato nel “Torso del Belvedere”.

Aiace Telamonio trasporta il cadavere di Achille (particolare dal Vaso François, VI sec. a.C., Museo Archeologico di Firenze)

Un famoso quadro di Timomaco di Bisanzio (300 a.C. circa) mostrava l’eroe seduto tra il bestiame massacrato, mentre meditava il suicidio; questo quadro fu ammirato da Ovidio nel tempio di Venere Genitrice (cfr. Tristia II 525 ss.).

L’“Aiace” di Sofocle affronta il tema della follia di Aiace: l’eroe, infatti, dopo la morte di Achille avrebbe dovuto ereditarne le armi, essendo il più valoroso dopo il Pelìde; ma tali armi erano state invece assegnate a Odisseo; il Telamonio, furente per l’ingiustizia subìta, aveva deciso di uccidere il rivale e gli Atrìdi, ma – reso folle da Atena – aveva invece fatto strage di armenti.

Un mio commento all’Aiace di Sofocle (ed. Palumbo, 1988)

Ecco il contenuto della tragedia sofoclea.

Il prologo si svolge nell’accampamento acheo a Troia. Odisseo è venuto all’alba per ricercare un misterioso fuggitivo che durante la notte ha trucidato nel campo degli Argivi il gregge e alcuni mandriani. Atena gli rivela che l’autore della strage è Aiace, il quale, furibondo per la mancata assegnazione delle armi di Achille, voleva sterminare gli Argivi; la dea però, offuscandogli la mente, aveva rivolto la furia dell’eroe contro la mandria. Compiuta la carneficina, Aiace aveva anche incatenato alcuni bovini e li aveva portati nella sua tenda per torturarli. La dea, ironica e sprezzante, invita Aiace ad uscire; Odisseo, vedendo apparire il rivale stravolto e dissennato, prova per lui profonda pietà. Aiace, sempre fuori di sé, narra alla dea i particolari della sua spedizione notturna; rientra poi nella sua tenda. Atena, magnificando la potenza degli dèi, invita gli uomini alla saggezza.

Nella parodo il coro dei marinai di Salamina auspica che Aiace abbandoni la sua pericolosa inerzia, causa di calamità.

Nel I episodio entra in scena la concubina di Aiace, Tecmessa; quando la donna apre la tenda tutti possono vedere l’eroe accasciato fra gli animali uccisi; disperato, Aiace chiede ai suoi compagni di ucciderlo e domanda soltanto di vedere il figlio Eurisace. Quando un servo glielo conduce dinanzi, l’eroe gli regala il suo grande scudo a sette strati di pelle di bue; poi rientra nella tenda, troncando bruscamente i pianti di Tecmessa.

Nel II episodio l’eroe riappare sorprendentemente più tranquillo e afferma di aver deciso di non abbandonare la moglie e il figlioletto; andrà dunque a purificarsi e nasconderà la sua spada in un luogo invisibile a tutti.

Nel II stasimo il coro, lieto per il cambiamento psicologico di Aiace, intreccia danze festose.

Nel III episodio un messaggero riferisce una profezia di Calcante: Atena è adirata con Aiace perché ha respinto il suo aiuto; tuttavia la persecuzione della dea durerà soltanto un giorno: perciò il Telamonio dovrà restarsene nella tenda fino al tramonto. Tecmessa ed i marinai corrono dunque alla ricerca di Aiace. La scena cambia. In una spiaggia deserta Aiace declama il suo ultimo monologo e si suicida gettandosi sulla sua spada.

Segue l’epiparodo con il rientro del coro; avviene la scoperta del cadavere di Aiace da parte di Tecmessa.

Nel IV episodio arriva Teucro, che si accinge a dar sepoltura al defunto; ma Menelao, adirato, vieta il rito funebre. Teucro e Menelao litigano aspramente, finché l’Atrìde si allontana.

Nell’esodo Agamennone inveisce contro Teucro, che però replica con altrettanto vigore. La disputa ha fine grazie all’intervento di Odisseo, che invita alla conciliazione e ottiene così la sepoltura dell’eroe suicida. Il coro si prepara dunque ad accompagnare il corteo funebre.

L’Aiace di Sofocle a Siracusa nel 1988 (regia di Antonio Calenda, con Massimo Popolizio nel ruolo di Aiace)

Una prima interpretazione dell’“Aiace” privilegia una chiave di lettura religiosa, incentrandola sulla presunta “hybris” (ὕβρις) del protagonista, cioè sulla sua empietà religiosa e sul suo arrogante disprezzo degli dèi. La tremenda punizione inflitta all’eroe da Atena, l’invito alla moderazione che la dea rivolge ad Odisseo, le parole del messaggero che rievocano le lontane colpe di Aiace (il quale ha osato rifiutare l’aiuto divino), le ricorrenti accuse rivolte all’eroe di nutrire pensieri “più che umani”, sembrano tutti elementi che possano indurre a vedere nella tragedia sofoclea il dramma della superbia e dell’empietà punita. Tutt’al più, è stato ammesso che Sofocle, costretto dalla sua fede a condannare Aiace, abbia poi risentito del fascino gigantesco di questo mitico eroe (così riteneva, ad es., il Perrotta).

Ma queste osservazioni non sono convincenti. Anzitutto Aiace non si può definire “empio”, né tale lo giudicano i personaggi dell’opera (amici o nemici che siano), compresa la stessa Atena; questa anzi, proprio nel momento in cui dileggia il folle stravolto e proclama “la forza degli dèi” (v. 118), ammette che nessuno era stato in passato “più assennato” di Aiace o “più valoroso nell’agire al momento propizio” (vv. 119-20; uso qui la traduzione di Albini e Faggi).

Lo stesso eroe, poi, non mostra mai, nemmeno quando è tornato in sé, alcuna consapevolezza di avere commesso un atto empio. Per di più Odisseo, sia all’inizio del dramma sia nell’epilogo, prende decisamente le difese dell’avversario, mostrando per lui ammirazione e pronunciando parole insolite per l’etica greca, secondo la quale era prassi comune schernire e oltraggiare i nemici: “provo compassione per lui, anche se è mio nemico, perché è infelice, perché è aggiogato alla sventura, e io penso non meno al mio che al suo destino. Noi, i viventi, io lo vedo, non siamo che fantasmi o vane ombre” (vv. 121-126).

In definitiva si ha l’impressione che Sofocle non abbia voluto dare importanza fondamentale alla “hybris” di Aiace (come invece aveva fatto Eschilo nella sua trilogia), ponendosi semmai altri interrogativi, legati alla condizione esistenziale umana.

Gli dèi sono spesso chiamati in causa nell’“Aiace”, ma l’eroe non arriva mai ad una aperta recriminazione contro di essi: il suo odio feroce, il suo rancore, sono riservati agli Atrìdi e ad Odisseo, da cui si sente defraudato; e con il suo suicidio mira a riconquistare, attraverso una “prova d’onore” (πεῖρα, v. 470), l’onore perduto (τιμή).

Un altro tema di fondamentale importanza del dramma riguarda appunto la dimensione “eroica”, “arcaica”, di Aiace e il conflitto interiore che essa innesta nell’animo del protagonista. Per questa etica, a chi è “di stirpe nobile” (εὐγενής, lett. “ben nato”) non si presentano alternative: “o vivere gloriosamente o morire gloriosamente; è il dovere di un valoroso” (vv. 479-480). La magnanimità di Aiace appare nel suo tormentato percorso interiore: attraverso la follia, l’avvilimento, il ridicolo, l’eroe ritrova la strada che lo ricondurrà a riconquistare la gloria che aveva perduto. Per questo rifiuta i consigli di Tecmessa e del coro, che invano lo invitano ad adottare una morale più “elastica” e lassista.

Aiace è un sopravvissuto, l’ultimo esponente di un mondo in estinzione; nel dramma, infatti, compaiono inequivocabili anticipazioni di una nuova morale (“post-eroica”, più che “anti-eroica”): è quella del coro e di Tecmessa, ma è soprattutto quella di Odisseo, che proclama una nuova saggezza, più consona alla situazione “effettuale” degli uomini, così esposti alla precarietà ed al mutamento costante.

Difficile è però stabilire in quale delle due etiche maggiormente si riconoscesse Sofocle, poiché, se la figura di Odisseo assume risalto per la nobiltà e l’originalità delle sue parole di conciliazione e di saggezza (σωφροσύνη), è innegabile che i sentimenti della platea si orientano tutti in favore di Aiace per la sua coerenza eroica.

Anche il cosiddetto “discorso ingannatore” di Aiace nel II episodio (vv. 646-692) sembra voler evidenziare, in linea con le discussioni sofistiche dell’epoca, la mutevolezza delle opinioni, l’incertezza della condizione umana, l’importanza del fattore tempo.

Del resto la duplicità della prospettiva di questo dramma si coglie anche nella sfuggente figura di Atena, che ora appare simile ad una capricciosa divinità omerica, pronta a schernire i nemici e a favorire gli amici, ora invece proclama importanti verità etiche e religiose: “Ricordati di non pronunziare mai una parola d’orgoglio contro gli dei, e non insuperbirti se vali più di un altro per il vigore del braccio o il peso della ricchezza. Un giorno, uno solo, abbatte e rialza tutte le cose umane; gli dei amano i saggi, detestano i malvagi” (vv. 127-133).

Dopo la scomparsa del protagonista, un nuovo problema caratterizza la parte residua del dramma: agli Atrìdi, propensi a gettare “a cani e uccelli” il cadavere di Aiace, si oppone Teucro, fratellastro dello scomparso, riuscendo poi – grazie all’aiuto di Odisseo – nel suo intento di dare onorata sepoltura ad Aiace.

Questa seconda parte è apparsa a molti critici fredda e prolissa, una specie di inutile appendice del dramma; alcuni addirittura (come il Bergk) hanno negato l’autenticità di questi versi, attribuendoli ad interpolatori. Ma non mancano elementi che mostrano l’opportunità di questa sezione della tragedia:

1) anzitutto, la morte di Aiace doveva essere seguita da una sua definitiva riabilitazione (tanto più importante per un eroe venerato in Attica);

2) inoltre il tema della sepoltura era particolarmente caro a Sofocle (ricorre soprattutto nell’“Antigone”): il contrasto tra la pietà religiosa (che impone di seppellire i morti, rispettando le leggi divine) e una ferma autorità politica (che crede di poter oltraggiare i resti dei nemici defunti) era tema profondamente sentito dall’autore, oltre che fermamente radicato nella coscienza civile, morale e religiosa del suo popolo;

3) infine, a parte i numerosi rimandi che dimostrano lo stretto collegamento tra la prima e la seconda parte dell’opera, il cadavere di Aiace resta sulla scena fino alla fine del dramma: la presenza “fisica” del protagonista garantisce unità allo spettacolo, che tra l’altro si vivacizza nelle vibranti scene del contrasto tra Teucro e gli Atrìdi.

Anche il tema politico è presente nell’“Aiace”, come dimostrano le ricorrenti allusioni a Salamina e alla “sacra Atene”, la presentazione “negativa” dello spartano Menelao, nonché le dissertazioni politico-civili degli Atrìdi sul “timore” che deve reggere lo stato. Tuttavia “il motivo patriottico può essere stato concomitante ma non determinante nel dramma” (L. Massa Positano).

Il “copione” del dramma risulta ricco di ingegnose “trovate” sceniche: l’uso delle macchine teatrali; la comparsa in scena di un bambino, Eurisace, che – pur non pronunciando alcuna battuta – costituisce elemento di indubbia efficacia emotiva; l’uscita del coro dall’orchestra (metàstasis) e la sua successiva ricomparsa in una seconda parodos (epiparodo); un insolito cambiamento di scena (cosa molto rara nel teatro greco); la morte di Aiace “coram populo”, allorché l’eroe si butta sulla spada (coperta o no che fosse dai cespugli) sotto gli occhi degli spettatori; il movimento concitato e le urla nella seconda parte del dramma, ove ha luogo l’agone tra Teucro e gli Atrìdi, contrappuntato dalle pause relative al sommesso rituale funebre in onore dell’eroe.

L’Aiace si rivela dunque anche una grande opera “da palcoscenico”, destinata a conquistare l’attenzione e l’interesse degli spettatori di ogni epoca.

P.S.: Ho ricavato queste note dal mio commento all’ “Aiace” di Sofocle (pubblicato nel 1988 dall’editore Palumbo, con prefazione di Giusto Monaco) e dalla mia storia letteraria “Grecità” (scritta con Michela Venuto ed edita da Palumbo nel 2012).

Una curiosità: la squadra olandese di calcio Ajax Amsterdam si chiama così da Aiace, che è disegnato nello stemma della società.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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