Un epigramma di Leonida di Taranto: la vecchia ubriacona

Leonida (Λεωνίδας) è l’esponente più importante della cosiddetta “scuola dorico-peloponnesiaca” degli epigrammisti greci.

Nato a Taranto intorno al 320 a.C., in seguito alla guerra dei Romani contro la sua città si trasferì in Epiro, dove fu ospitato da Pirro; morto costui, vagò per molte città della Grecia e dell’Asia: soggiornò a Sparta, Atene, Tebe, Cos, forse anche ad Alessandria.

Svolse la sua attività di poeta fra il 300 e il 270 probabilmente per committenti anche di modesta estrazione sociale, come i personaggi dei suoi epigrammi.

Morì vecchio intorno al 260 a.C. in terra straniera, come si deduce dal suo autoepitafio: «Molto lontano dormo dalla terra / d’Italia e dalla mia patria, Taranto. / Questo è per me più amaro della morte. / Tale è la vana vita d’ogni nomade. Ma le Muse mi amarono, e per tutte / le mie sventure mi diedero in cambio / la dolcezza del miele. / Il nome di Leonida non è morto. / I doni delle Muse lo tramandano / per ogni tempo» (A. P. VII 715, trad. Quasimodo).

Di Leonida rimangono un centinaio di epigrammi, soprattutto sepolcrali e dedicatori. Numerosi sono i temi trattati, anche se è prevalente l’attenzione agli umili e alle situazioni quotidiane: pastori, pescatori, marinai, filatrici, cacciatori costituiscono i principali protagonisti dei suoi versi. L’invito alla semplicità della vita (λιτότης) avvicina il poeta agli ideali propugnati dalla filosofia cinica.

L’interesse per l’uomo si apre anche a riflessioni più generali, che partono dalla constatazione della fugacità della vita: «Tu vedi, uomo, come tutto / è vano: all’estremo del filo, già / c’è un verme sulla trama non tessuta / della spola. Il tuo scheletro è più tetro / di quello d’un ragno. Ma tu, che giorno / dopo giorno cerchi in te stesso, vivi / con lievi pensieri, e ricorda solo / di che paglia sei fatto» (A. P. VII 472, trad. Quasimodo).

Spesso tale convinzione è espressa con immagini macabre, come le ossa del defunto che fuoriescono da una tomba o i vermi che osservano una bara dall’interno (cfr. A. P. VII 480).

Questa tendenza ha spinto Marcello Gigante a parlare, a proposito di Leonida, di “Antiarcadia”; ma non mancano i toni ironici, come avviene ad es. nell’epigramma in cui il poeta invita i topi ad abbandonare la propria dispensa perché scarseggia di cibo: «Via da questa baracca, topi del buio! La povera / madia di Leonida non vi dà da mangiare. / Il vecchio basta a se stesso: sale e due pani / è una dieta che gli viene dagli avi. / Perché scavi dunque avidamente nel buco, goloso? / Non troverai neanche un piccolo resto di cibo. / Io sono frugale; piuttosto, corri da altri: / forse là troverai un po’ più da mangiare» (A. P. VI 302, trad. Paduano). 

Nell’ambito di questi componimenti “ironici” rientra l’epigramma-epitafio (A. P. VII 455) in trimetri giambici per Maronide, una vecchia ubriacona sulla cui tomba è stata posta una coppa. L’anziana donna, ormai nell’Ade, non piange per gli affetti perduti, ma per questo calice che rimane sempre vuoto.

Eccone il testo greco, seguito da una mia traduzione:

Μαρωνὶς ἡ φίλοινος, ἡ πίθων σποδός,

ἐνταῦθα κεῖται γρῆυς, ἧς ὑπὲρ τάφου

γνωστὸν πρόκειται πᾶσιν Ἀττικὴ κύλιξ.

Στένει δὲ καὶ γᾶς νέρθεν, οὐχ ὑπὲρ τέκνων,

οὐδ’ ἀνδρός, οὓς λέλοιπεν ἐνδεεῖς βίου·

ἕν δ’ ἀντὶ πάντων, οὕνεχ’ ἡ κύλιξ κενή.

Maronide l’ubriacona,

lei che asciugava le botti,

Maronide la vecchia

qui giace.

E sulla sua tomba

poggia,

ben riconoscibile per tutti,

un calice attico.

Lei ora piange, sottoterra,

ma non per i figli,

né per il marito,

che ha lasciato privi di tutto;

piange per una cosa sola, per nessun’altra:

piange perché la coppa è vuota.

Quasi certamente l’epitafio è fittizio, proprio per il tono scherzoso che lo caratterizza. Anche la scelta del metro, il trimetro giambico in luogo del consueto distico elegiaco, amplifica l’intonazione satirica, che induce a identificare Maronide con il tipico personaggio dell’ubriacona, ricorrente nella commedia antica greca. Aristofane, ad esempio, nelle sue Nuvole si vanta di non aver inserito nei suoi drammi “la vecchia ubriaca che per poco non finiva nel ventre d’una balena”, definendola “una gag stantia” inventata dal suo rivale Frinico (vv. 555-556, trad. Turato; in questo passo gli scoliasti vedevano una frecciata politica contro la madre del demagogo Iperbolo, accusata di essere dedita al bere). La propensione per il vino da parte delle donne (specialmente anziane) era diventato un topos e costituiva l’ennesimo difetto femminile rilevato dalla tenace misoginia greca.

Quanto al nome dell’anziana, “Maronìs” (Μαρωνίς), era quasi sicuramente ricavato da quello di un sacerdote di Apollo, Màrone (Μάρων), che aveva regalato il vino ad Odisseo per ringraziarlo di averlo risparmiato (cfr. Od. IX 196-205). Si tratta di una sorta di nome parlante: infatti nel Ciclope di Euripide “Marone” indica per metonimia il vino (ἐμπλήσας σκύφος/ Μάρωνος, vv. 411-412), un po’ come per noi potrebbero essere termini come “Chianti” o “Barbera”.

Nell’epigramma di Leonida va segnalata la presenza di numerosi termini che alludono al campo semantico del vino (oltre a Μαρωνίς, ci sono φίλοινος, πίθων σποδός v. 1, κύλιξ v. 3 e v. 6), vero protagonista dell’epigramma. L’accostamento di questa sfera semantica a quella dell’epitafio produce un effetto comico, che raggiunge il culmine nella pointe finale: Maronide, che aveva dissipato il patrimonio, lasciando i suoi cari privi di mezzi di sussistenza, anche nell’Ade si rammarica solo del fatto che la coppa posta sulla tomba sia vuota. In un totale stravolgimento degli affetti, il ricordo del marito e dei figli non suscita alcun rimpianto: l’unico valore dell’esistenza è il vino.

La celebrazione di Maronide fu in seguito ripresa dall’epigrammista Antipatro di Sidone (A.P. VII, 353): «Questa è la tomba della canuta Maronide […] amante del vino non mescolato e sempre loquace».

Su Maronide possiamo dire ancora qualcosa.

Esiste infatti una scultura in marmo che rappresenta questo personaggio; è databile al 300-280 a.C. circa ed è nota da copie romane (che si trovano alla Gliptoteca di Monaco e ai Musei Capitolini di Roma: la copia romana fu ritrovata nel 1620 durante lavori di restauro della chiesa di S. Agnese sulla via Nomentana).

Plinio il Vecchio (Naturalis historia XXXVI, 32) attribuì la scultura di una “vecchia ubriaca di Smirne” (che ai suoi tempi si poteva ammirare appunto in Asia Minore) al famoso scultore Mirone, vissuto nel V secolo a.C.

Lo stile dell’opera però è chiaramente ellenistico: probabilmente vi fu un errore dei copisti latini che trascrissero, anziché il nominativo Maronis, il genitivo Myronis, scambiando così il nome attribuito alla vecchia con quello del noto scultore antico e traducendo come “la vecchia di Mirone” (Maronis anus ebria Zmyrnae in primis incluta).

Gli storici dell’arte attribuiscono invece l’opera a un tale Mirone di Tebe, vissuto alla metà del III secolo a.C. e attivo alla corte di Pergamo.

Soggetto della scultura è la nostra Maronide, un’anziana donna ubriaca, che sta distesa a terra con il busto alzato e la testa rivolta all’indietro; tiene tra le braccia un otre di vino (coronato dall’edera dionisiaca) e appare già in preda ai fumi dell’alcool: il volto rugoso presenta la bocca aperta e uno sguardo perso nel vuoto.

Come si vede dai particolari minuziosi e realistici, l’opera è notevole per l’attenzione alla resa della psicologia del personaggio, lasciandone trasparire la sottile ma profonda disperazione.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *