L’ “Apologia di Socrate” di Senofonte

L’”Apologia di Socrate” (Ἀπολογία Σωκράτους) è forse lo scritto più giovanile di Senofonte; esso intende riprodurre in poche pagine l’orazione tenuta da Socrate nel processo.

Ormai sembrano superate le perplessità sull’attribuzione dell’opera allo scrittore ateniese; verosimilmente Senofonte, comprendendo l’attualità e l’importanza del dibattito sulla condanna di Socrate, volle portare il contributo della sua esperienza personale. Egli intese in particolare contrapporsi al libello antisocratico del sofista Policrate, che fu pubblicato fra il 395 e il 390 a.C.

Alla difesa del Maestro egli era spinto anche da motivazioni di ordine politico (l’avversione al regime democratico ateniese, responsabile della condanna di Socrate), nonché da una certa componente “nostalgica”, legata al ricordo degli anni giovanili trascorsi ad Atene, patria abbandonata ma mai dimenticata dall’autore.

L’Apologia di Senofonte non si limita, come l’omonima opera platonica, a riferire il discorso di difesa pronunciato dal filosofo durante il processo, ma aggiunge altri episodi, anteriori e posteriori al processo stesso. L’opera presenta l’immagine di un Socrate “buon cittadino”, che per difendersi punta sulla sua vita sana e virtuosa; i discorsi da lui tenuti nel processo costituiscono soltanto una parte dell’opera, che contiene anche riferimenti al comportamento del filosofo prima e dopo il procedimento giudiziario.

Basandosi – a suo dire –  sulla relazione di Ermogene, Senofonte riferisce parte della difesa pronunciata in aula dal filosofo: questi respinge l’accusa di non credere negli dèi tradizionali, difende il proprio “demone” (considerato analogo alle forme di profezia già in uso) e si vanta della sua moralità, della sua sapienza e dei suoi successi di educatore.

Come è stato osservato, tutte queste sembrano “ostentazioni verbali che hanno un suono falso, sulle labbra di un uomo la cui tendenza a sminuirsi era di pubblico dominio. Quelli sono piuttosto gli argomenti che Senofonte, pervaso di fede nella religiosità e nella bontà di Socrate, avrebbe pronunciato a difesa del maestro; e non si esclude che, a poco a poco, si fosse anche convinto che proprio quelli erano i discorsi usciti dalla bocca del suo eroe” (F. H. Sandbach, Platone e gli scritti socratici di Senofonte, in AA. VV., La letteratura greca della Cambridge University, A. Mondadori, Milano 1990, vol. II, p. 106).  

Ciò vale anche per la fase successiva alla condanna, in cui Socrate si rivela piuttosto esasperato e stizzito, denunciando l’iniquità della sentenza e profetizzando una brutta fine per il figlio di Anito, suo accusatore.

Nel brano iniziale (Apologia 1-9), Senofonte intende differenziarsi da coloro che hanno precedentemente parlato del processo a Socrate: se costoro sottolineavano la “fierezza di linguaggio” (μεγαληγορία, par. 1) e il comportamento altezzoso e controproducente dell’imputato, Senofonte afferma che il filosofo “considerava ormai la morte preferibile alla vita” (ibid., trad. G. Rosati). Al discepolo Ermogene, che lo invita a pensare di più alla sua difesa, Socrate risponde che in realtà tutta la sua vita è stata una preparazione a tale difesa; l’imputato afferma poi che la voce del suo “demone” si è opposta ad ogni suo discorso apologetico, deducendone che la sua morte è, secondo il dio, “la cosa migliore” (par. 5).

Le successive affermazioni di Socrate sono quelle che maggiormente si differenziano da quelle contenute nell’Apologia platonica: l’imputato deplora gli “inconvenienti della vecchiaia” (par. 6), elencandoli minuziosamente: «Ora invece, se avanzo ancora con l’età, so che sarà necessario subire gli inconvenienti della vecchiaia e la mia vista peggiorerà, sentirò di meno, avrò più difficoltà a imparare e dimenticherò più facilmente quanto avrò appreso. Se dunque mi accorgerò di peggiorare e sarò scontento di me stesso, come potrò vivere ancora piacevolmente?».

Ecco dunque che il dio “nella sua bontà” (δι’εὐμένειαν, par. 7) gli concede di chiudere la sua vita al momento opportuno e “nel modo più facile” (ibid.). Se Socrate sarà condannato, egli morirà senza lasciare “nessun ricordo indecoroso né sgradevole” e per di più “con un corpo in buona salute e con un animo capace di sentimenti d’amicizia” (ibid.); se egli avesse invece architettato e pronunciato un abile discorso difensivo, avrebbe ottenuto un prolungamento della vita che si sarebbe rivelato una sorta di agonia e che comunque si sarebbe concluso con “una morte in mezzo ai dolori della malattia o della vecchiaia, nella quale si radunano ogni genere di fastidi senza alcun piacere” (par. 8).

È dunque meglio morire che supplicare “vergognosamente” (ἀνελευθέρως, par. 9): «Per Zeus, o Ermogene, io non desidererò mai una tale fine, ma se io devo affliggere i giudici mostrando tutti i vantaggi che io credo di aver ottenuto dagli dèi e dagli uomini e quale opinione ho di me stesso, preferirò morire piuttosto che, chiedendo vergognosamente di continuare a vivere, ottenere una vita peggiore della morte».

L’atteggiamento del Socrate senofonteo è apparso estremamente deludente (e improbabile) ai critici tradizionali; secondo il Perrotta l’interpretazione senofontea “è una povera cosa, e falsa completamente l’atteggiamento di Socrate davanti ai giudici: Socrate è un vecchio che vuol morire, per sottrarsi ai mali e ai fastidi della vecchiaia. Il confronto con l’Apologia di Platone è veramente schiacciante per Senofonte” (Disegno storico della letteratura greca, Principato, Milano-Messina rist. 1972, p. 248); pure il Colonna, benché in forma più attenuata, parla di una “difesa superficiale e povera di argomenti, ma piena di vigore e di entusiasmo” (La letteratura greca, Lattes, Torino 1969, p. 419).

Ma va detto che il paragone con l’Apologia platonica è improprio e in un certo senso fuorviante, giacché induce a confrontare l’opera di un vero filosofo militante con quella di un poligrafo versatile e rivolto a interessi del tutto differenti; inoltre i pregiudizi sulla “superficialità” di Senofonte appaiono ormai datati e ingiustificati, giacché troppo spesso nascono da un carente esame del nuovo contesto storico-culturale in cui questo autore si trovò ad operare.

Si dovrebbe invece riflettere sulla “letterarietà” dell’opera senofontea, sulla sua modernità (che prelude a tanta letteratura “esemplare” dei secoli successivi), sul suo collegamento a tematiche di ampio respiro (ad es. il tema della vecchiaia affliggente, che era ben consolidato nella produzione letteraria greca, da Mimnermo ad Anacreonte a Sofocle) e infine sulla sua voluta contrapposizione con le opere precedenti (che può avere indotto l’autore ad accentuare volutamente alcuni caratteri di “diversità”).

Va osservato infine che la cultura dell’epoca era abituata a rielaborare i “discorsi” dei personaggi famosi (è quello che fa dichiaratamente, ad es., Tucidide nelle sue Storie: cfr. I 22, 1); dunque, “come escludere che Senofonte abbia intrecciato fantasia e documento? Come tracciare una linea di frontiera nitida? E non è detto che questa ipotetica linea distingua fra vero e falso: è possibile che la tradizione documentaria sia inattendibile, e che invece le fantasiose finzioni colgano nel segno” (H. Sandbach, art. cit, p. 107).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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