San Giuseppe in Sicilia: “sfince”, tavolate e vampe

La “sfincia” di San Giuseppe è un dolce tradizionale della Sicilia occidentale, tipico in particolare di Palermo. Si tratta di un grosso bignè fritto, farcito con crema di ricotta, zucca candita e gocce di cioccolato e decorato con granella di pistacchi, ciliegie e scorza d’arancia candita. Il nome deriva dal latino “spongia”, che indicava la “spugna”; e infatti questo dolce, per consistenza e volume, somiglia proprio ad una spugna.

La “sfincia” di San Giuseppe

La ricetta per farsi le “sfince” in casa è facilmente reperibile su Internet; la loro preparazione però richiede non solo particolare abilità ma anche molta pazienza, dato che questi deliziosi dolci vengono preparati con una frittura lunga, che consente all’impasto di gonfiarsi raddoppiando il suo volume iniziale e divenendo soffice e alveolato al suo interno. Inoltre ogni singola “sfincia” durante la cottura va girata in continuazione, per farla dorare bene; e siccome ogni “sfincia” deve cuocere per 10-15 minuti, nel complesso occorrono diverse ore di lavoro.

In definitiva, specie per chi vive a Palermo e provincia, è molto più semplice andare a comprare una bella “guantiera” di “sfince” in una delle tante ottime pasticcerie.

Le “sfince” hanno origini antichissime: dolci affini, con nomi diversi, sono ricordati nella Bibbia e nel Corano; e c’è chi vede in esse un’evoluzione dei pani o dei dolci arabi o persiani fritti nell’olio.

A Palermo però furono inventate (o re-inventate) alcuni secoli fa dalle suore del Monastero delle Stimmate di San Francesco come dolci poveri coperti di miele, da consumare per la Festa di San Giuseppe del 19 marzo; nel tempo però i pasticcieri locali ne hanno arricchito progressivamente le caratteristiche e oggi le “sfince” sono disponibili nelle pasticcerie palermitane tutto l’anno e non solo per San Giuseppe.

Nel 1866 durante la rivolta del “Sette e mezzo” il monastero fu assalito ed utilizzato come ricovero per gli insorti. In seguito il Comune di Palermo decidese di edificare un teatro lirico per cui si decretò la demolizione di questo monastero, che venne completata dopo il 1880 nonostante l’opposizione delle badesse dell’epoca.

Un altro cibo tipico della giornata odierna nel palermitano è il pane di San Giuseppe con semi di finocchio. Si tratta di panini dalla forma tonda, con un taglio a croce sulla parte superiore, aromatizzati con i semi del finocchio. Questi panini erano preparati come voto fatto al Santo (protettore dei lavoratori e dei poveri); infatti, una volta cotti, si portavano in chiesa per farli benedire. Poi erano donati ai vicini, ai familiari o ai conoscenti.

Il pane di San Giuseppe, con i semi di finocchio

La festa di San Giuseppe ha ispirato ai siciliani innumerevoli altre iniziative che, come avviene di consueto nell’isola, uniscono sacro e profano.

Ad esempio in molti paesi, specie nell’entroterra, oggi si allestiscono le “tavolate di San Giuseppe”, imbandite in casa dalle famiglie come ex voto per il santo e aperte alle visite per tutta la giornata. Questa usanza, che non è soltanto siciliana (la si ritrova in altre regioni centro-meridionali), ricorda la Sacra Famiglia e richiama l’agàpe, una istituzione caritatevole del cristianesimo antico, fiorente nei secoli III e IV, che consisteva in una cena offerta da qualche persona ricca ai poveri e alle vedove della comunità.

Una “tavola” di San Giuseppe

Le “tavolate” hanno un aspetto molto scenografico (in ogni manifestazione siciliana lo spirito barocco tende sempre a riproporsi); infatti, apparecchiate con preziosi merletti, lenzuolini e immagini di San Giuseppe, assumono la forma di veri e propri altari, attraverso i quali viene espressa la devozione popolare. L’usanza vuole che alcune comparse rappresentino le figure della Sacra Famiglia, accompagnate da San Gioacchino e Sant’Anna.

Le “tavolate di San Giuseppe”, a seconda dell’area della Sicilia, assumono caratteristiche e nomi diversi, per cui non si contano le varianti locali.

Tra queste sontuose imbandigioni meritano però una menzione speciale i “pani di San Giuseppe” preparati a Salemi, che costituiscono una tradizione riconosciuta addirittura da parte dell’UNESCO.

Una “cena” di San Giuseppe a Salemi

A Salemi la preparazione degli “altari di pane” inizia molti giorni prima prima della ricorrenza: alla lavorazione del pane, compito un tempo affidato alle donne, si affianca la realizzazione di un altare o “Cena”: l’altare, in legno o ferro, viene chiamato così in ricordo dell’ultima cena di Gesù con gli apostoli; interamente ricoperto di alloro, bosso, arance e limoni, ha la forma di un tempio o di una piccola chiesa. Lo decorano moltissimi pani modellati in varie forme che rappresentano gli attrezzi del falegname (la sega, il martello, la scala) o simboli religiosi (l’ostensorio, il pesce, gli angeli adoranti, l’uva, l’asinello). Su tutti spicca il “cucciddatu”, un pane a forma di stella donato al Bambino Gesù; invece la “parma”, un pane intagliato a forma di palma (in ricordo della palma da datteri che nutrì la Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto), è offerto alla Madonna; infine c’è “u vastuni”, un pane forgiato in forma di bastone fiorito, dedicato a San Giuseppe. I tre rappresentanti della Sacra Famiglia spesso erano “interpretati” da persone del luogo.

Un tempo il devoto che organizzava la “cena” doveva allestire un pranzo comprendente da un minimo di 19 a un massimo di 101 (!) pietanze, per lo più a base di cereali, verdure, frutta, pesci e dolci in grande varietà. Dopo la benedizione dell’altare e dei pani, il cibo era offerto ai bambini, che rappresentavano la Sacra Famiglia, e ai visitatori che, secondo tradizione, non potevano rifiutarsi per non offendere il santo (ma l’eventualità di un rifiuto da queste parti è decisamente fantascientifica e certamente S. Giuseppe è sempre pronto ad aiutare gli invitati nell’ardua fase della digestione).

Anche in molti altri paesi nelle “tavolate” si trova di tutto: pasta con sarde e finocchi, salsiccia, salumi e formaggi, broccoli, cardi e verdure fritte, caponata, frittate, polpette di pesce, finocchi e lattughe fresche, frutta e – immancabilmente – tantissimi dolci (cassate, pignolata, cannoli, cassatelle, ecc.). Dunque, a differenza di altre zone in cui i cibi esposti erano parchi e poveri, in Sicilia nelle “tavolate” domina l’abbondanza, anche per un diverso concetto della festa, che (almeno in origine) intendeva fornire ai poveri i cibi riservati ai ricchi.

Per concludere questa (forzatamente incompleta) rassegna di usanze in onore di San Giuseppe, vorrei ricordare i falò, anzi le “vampe”.

Vampa di San Giuseppe a Palermo

Il rito della “vampa”, che coincide con la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, testimonia il passaggio di antichi elementi pagani nella religiosità cristiana. Nella leggenda popolare, il fuoco ricorda san Giuseppe che, per combattere il freddo della grotta di Betlemme, bruciò il suo mantello e andò di casa in casa alla ricerca di un po’ di brace per riscaldare il Bambino Gesù e la Madonna.

Tradizionalmente le cataste di legno per le “vampe” venivano accese la sera prima del giorno della festa; nei paesi la vampa principale era allestita davanti la Chiesa Madre, ma altre se ne facevano nelle strade del paese, ammassando cataste di legna e vecchio mobilio.

Tuttavia negli ultimi anni la dissennata proliferazione di fuochi e incendi ha causato non pochi incidenti ed è stata conseguentemente proibita in molti comuni siciliani: persino due anni fa, quando era già iniziata la pandemia, a Palermo si erano creati diversi assembramenti di persone accanto ad altrettante “vampe di San Giuseppe”; e nemmeno il rischio di essere contagiati dal coronavirus aveva fermato nei quartieri di periferia il ritrovo delle persone per il tradizionale falò in onore di san Giuseppe; i vigili del fuoco dovettero intervenire in diverse zone per spegnere i roghi e gli incendi.

In conclusione, rivolgo un affettuoso augurio a tutti i Giuseppe e le Giuseppine! E, auspicando che prudentemente si astengano dalle “vampe”, auspico che non manchi loro, oggi, una bella “tavolata” e l’immancabile “sfincia”.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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