Venti-ventitrè

Sanremo Festival host and artistic director, Amadeus on stage at the Ariston theatre during the 72nd Sanremo Italian Song Festival, in Sanremo, Italy, 05 February 2022. The music festival runs from 01 to 05 February 2022. ANSA/ETTORE FERRARI

Di questo festival di Sanremo mi hanno colpito diverse cose: la pressoché assoluta mancanza di valorizzazione dell’orchestrazione in quasi tutti i brani in gara; la monotonia della struttura musicale (con una prima parte sussurrata o malamente salmodiata con parole inintellegibili e una seconda parte sbraitata in modo esagitato, senza trapassi, senza emozioni), il look (ah no, l’outfit) inguardabile di giovani interpreti trasformati in arazzi viventi dai tatuaggi più estrosi (penso con malinconia a quale generazione di anziani si prepara per gli anni ’80 di questo secolo), la gesuitica ed episcopale condiscendenza di un Mozart (io lo chiamo così) in evidente e crescente dissenso con un Morandi che sembra piovuto lì da un altro pianeta (in realtà soltanto da un altro secolo). E altro ci sarebbe da dire (ma non si vuole passare per i soliti criticoni a tutti i costi).

Fra le cose per me “indigeribili”, però, ce n’è una che mi risulta particolarmente urtante. Mozart (e non solo lui) non dice mai “duemilaventitrè”, ma dice sempre “Sanremo venti-ventitrè”. E se deve citare le edizioni precedenti parla di “venti-ventuno” e “venti-ventidue”; poi, se parla di anni futuri, allude ad es. al “venti-ventisei”.

Ora, questo modo di chiamare gli anni deriva palesemente dal modello anglosassone: in inglese, “I was born in nineteen fifty-four”. Ma se dicessi in italiano “Sono nato nel diciannove-cinquantaquattro” credo che molta gente resterebbe sorpresa e spiazzata. Per non parlare poi delle date storiche: la scoperta dell’America del quattordici-novantadue, la rivoluzione francese del diciassette-ottantanove, la (attualissima) marcia su Roma del diciannove-ventidue e via anglicizzando. Teoricamente si potrebbe allargare la regola agli anni a tre cifre: l’impero romano d’occidente cadde nel quattro-settantasei (sì, è caduto: che c’è, non lo sapevate?).

In realtà, mi pare di capire che la nuova combinazione numerica viene applicata solo al nostro attuale impagabile secolo e anzi forse solo agli ultimi anni, quelli dell’attuale decennio: non mi pare che negli anni ’10 si dicesse – che ne so – “venti-undici” e “venti-dodici”, ecc.

Io francamente mi augurerei che questa innovazione lessicale si limiti a Mozart e a pochi altri anglofili; ma, già che ci siamo, vorrei aggiungere una riflessione che da un po’ mi capita di fare.

Nel secolo scorso si può dire che ogni decennio presentasse dei caratteri distinguibili ben chiari: ognuno di noi riesce – chi più chi meno – a cogliere da una foto, da un brano musicale, da un’espressione lessicale, da un abito, il decennio di appartenenza: anni Venti, anni Trenta, anni Quaranta, anni Cinquanta, anni Sessanta, anni Settanta, anni Ottanta; anzi già gli anni Novanta cominciano in qualche modo a perdere la forte connotazione identitaria dei decenni precedenti.

Ma da quando siamo nel secolo dei “millennial” io non riesco più a distinguere un decennio dall’altro.

Ci riuscite, voi, a ricordare qualcosa che abbia caratterizzato gli anni dal 2000 al 2009 e che sia profondamente diverso dagli anni 2010-2019 o da questi attuali anni Venti, in cui – a parte certi “ritorni” evocativi – non c’è nemmeno il charleston a dare una chiara e nuova identità? O si deve cogliere l’evoluzione nell’ultimo gadget tecnologico, nell’incremento esponenziale degli arazzi viventi (leggi: gli onni-tatuati), nello sdoganamento di vecchie barriere ideologiche e di antichi pregiudizi (sicuramente positivo ma a volte “urlato” più che realmente affermato), nel sempre più palese oblio anagrafico di un intero mondo passato e già frettolosamente sepolto e dimenticato?

In definitiva, se nel diciannove-ottantanove Raf cantava a Sanremo “Cosa resterà degli anni Ottanta”, io in questo venti-ventitrè mi chiedo: cosa resterà di questo decennio?

«Anni come giorni son volati via / brevi fotogrammi, o treni in galleria».

Buona giornata a tutti!

Palermo, 9 febbraio venti-ventitrè.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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