La delusione di Nausicaa

All’inizio del VI libro dell’Odissea, la dea Atena si reca presso i Feaci. Questi un tempo vivevano “vicino ai Ciclopi, uomini tracotanti” (v. 5), ma un loro antenato, Nausìtoo (spesso i nomi dei Feaci ricordano le “navi”), li condusse a Scheria, isola lontana e inaccessibile, sulla quale ora regna Alcinoo, “che aveva sapienza dai numi” (v. 12).

I Feaci non conoscono la guerra e le contrappongono altre attività, come dirà poi Alcinoo ad Odisseo: “Non siamo pugilatori perfetti, non lottatori, / ma corriamo veloci e siamo a navigare eccellenti. / E sempre il festino c’è caro, la cetra, la danza, / vesti mutate, e bagni caldi, e l’amore” (Od. VIII 246-249; uso qui la traduzione di Rosa Calzecchi Onesti).

I Feaci sono dunque un popolo di marinai, che si procura pacificamente da vivere e che ama vivere bene; in particolare, amano la danza e il canto degli aedi (alla corte di Alcinoo troviamo Demodoco).

In virtù della loro ambigua identità, a metà tra l’umano e il divino, i Feaci si preparano a divenire, materialmente, i “traghettatori” di Odisseo alla sua terra, coloro che assisteranno l’eroe nel suo passaggio dallo spazio divino di Ogigia (l’isola della dea Calipso) a quello umano di Itaca (la patria per tanti anni desiderata dall’eroe); costituiscono il “gradino” intermedio nella discesa/ritorno dell’eroe in patria.

Atena, volendo garantire a Odisseo adeguata accoglienza, decide di favorire il suo incontro con la giovanissima figlia del re Alcinoo. Questa ragazza si chiama Nausicaa (il nome significa “colei che primeggia nelle navi”) ed è “alle immortali simile per aspetto e bellezza” (v. 16).

Assunte le sembianze di un’amica della ragazza (“la figlia di Dìmante, nocchiero famoso”) la dea appare in sogno a Nausicaa: la rimprovera di essere “trascurata” (v. 25) e  di lasciare “in abbandono” le sue “vesti vivaci”; eppure per lei “le nozze s’appressano”. La invita dunque, “appena spunta l’aurora”, ad andare a lavare le vesti al fiume. E aggiunge: “Non per molto sarai vergine ancora, / già ti domandano qui nel paese i migliori / di tutti i Feaci” (vv. 33-35).

Appena sorge il nuovo giorno, Nausicaa si risveglia, perplessa ma contenta; e subito corre “attraverso la casa, per dirlo ai genitori, / al padre caro, alla madre” (vv. 50-51).

Brava ragazza, ossequiosa delle regole di allora, che volevano che i figli ubbidissero in tutto ai genitori e che non avessero segreti per loro.

Nausicaa trova la madre Arète intenta a tessere, mentre il padre “andava tra i nobili capi / al consiglio con i nobili del popolo”. Famiglia tradizionalmente perfetta: il padre “business-man” al lavoro, la madre casalinga, la figlia rispettosa.

A questo ordine impeccabile (in greco “kòsmos”, κοσμος) si oppone il caos della corte di Itaca (descritto nei primi libri del poema), ove invece la famiglia regale è disgregata: il padre Odisseo è disperso, la madre Penelope è contesa fra gli arroganti pretendenti, il giovane figlio Telemaco è smarrito e alla ricerca di un punto di riferimento.

Nausicaa ha pudore “a nominare le floride nozze” (v. 66), ma suo padre comprende tutto e le dà il consenso di uscire. Le fanciulle dunque arrivano presto al fiume, lavano le vesti e improvvisano un pic-nic (“presero il pasto sulle rive del fiume”, v. 97); poi iniziano a giocare a palla, ma questa sfugge a un’ancella e le ragazze gettano “un grido lungo” (v. 117).

Nell’episodio del gioco della palla va colta un’implicita allusione ad Eros, essendo questo gioco il preferito dal dio dell’amore; cfr. un celebre frammento di Anacreonte: «Con una palla splendente ancora una volta / Eros chiomadoro mi ferisce / e mi sfida al gioco / con una fanciulla dai sandali belli» (13 G., vv. 1-4, trad. Leo).

L’allegro urlo giovanile ridesta Odisseo, che è naufragato da poco sull’isola e si è addormentato fra i cespugli, nudo, sporco, stremato. L’eroe esce dal suo riparo, coprendo con un ramo fronzuto “le vergogne”, simile a un “leone nutrito sui monti, sicuro della sua forza” (v. 130).

Spettacolo improvviso quanto orribile, che provoca la fuga immediata di tutte le ancelle; solo Nausicaa resta, “perché Atena / le infuse coraggio nel cuore, e il tremore delle membra le tolse. / Dritta stette, aspettandolo” (vv. 139-141).

Odisseo è incerto sul da farsi: abbracciare le ginocchia della fanciulla e supplicarla, o parlarle da lontano “con parole di miele” (v. 143)? L’eroe sceglie la seconda opzione: come sempre; la sua condotta è calcolata, passata al filtro della prudenza e della accortezza; si rivolge dunque a Nausicaa con parole accorte e seducenti.

Anzitutto la scambia (o finge di scambiarla) per una dea: “sei dea o sei mortale?” (e certo per una ragazzina sentirsi definire così doveva dare più di un brivido di gioia…). Nausicaa viene senz’altro paragonata ad Artemide, “per bellezza e grandezza e figura” (v. 132); la similitudine con la dea della caccia è coerente con la cornice naturale, separata dalla città, in cui avviene l’incontro con il naufrago.

L’abile elogio prosegue: se la fanciulla non è una dea, allora saranno “tre volte beati il padre e la madre sovrana, / tre volte beati i fratelli”, vv. 154-155); e non manca un esplicito riferimento alle nozze: “Ma soprattutto beatissimo in cuore (μακάρτατος), senza confronto, / chi soverchiando coi doni ti porterà a casa sua” (vv. 158-159).

Coerente con il tema delle nozze è lo strano paragone con cui Odisseo associa Nausicaa ad un germoglio di palma, che era però un simbolo di fecondità, connesso con il culto di Apollo ed Artemide, dea cui – come si è visto – Nausicaa è paragonata.

Odisseo affascina la sua interlocutrice alludendo astutamente al proprio glorioso passato: ad es. ricorda che una volta a Delo lo seguiva “innumerevole esercito”; si presenta però anche come l’eroe della sofferenza, vittima di un destino ostile e ingiusto (vv. 172-173).

Infine, invoca la compassione e l’aiuto della ragazza: “abbi pietà: dopo molto soffrire, / a te per prima mi mostro, nessuno conosco degli altri / uomini, che hanno questa città e questa terra” (vv. 175-177); le chiede infine che gli indichi “la rocca” e che gli dia un “cencio” con cui coprire la sua nudità.

Nausicaa subito garantisce il soccorso, intuendo la nobiltà e la saggezza dell’uomo (“non somigli ad un uomo cattivo né ad uno stolto”, v. 187); in lui vede un esempio dell’infelicità umana, che Zeus assegna a ciascuno; offre poi ospitalità allo straniero, non a nome suo ma in quanto figlia del re dei Feaci: “Io son la figlia del magnanimo Alcìnoo, / che tra i Feaci regge la forza e il potere” (vv. 196-197).

La ragazza tace il suo nome perché non conta: in quel tipo di società importa solo “di chi” lei sia figlia, a quale stirpe appartenga e a quale popolo: e l’ospitalità, che è già dovere di ogni mortale, è essenziale per un popolo come i Feaci.

Successivamente le ancelle eseguono le prescrizioni di Nausicaa e, su richiesta di Odisseo, lo lasciano solo mentre si lava e si unge di olio il corpo.

Atena, con uno dei suoi immancabili e preziosi lifting, rende l’eroe (che doveva essere quasi cinquantenne) “più grande e robusto a vedersi” (v. 230), infondendogli grazia e bellezza. Nausicaa rimane ammirata: “Prima m’era sembrato che fosse brutto davvero, / e ora somiglia ai numi che il cielo ampio possiedono. / Oh se un uomo così potesse chiamarsi mio sposo, / abitando fra noi, e gli piacesse restare!” (vv. 242-245).

È questo il momento di massima esplicitazione della speranza inconscia di Nausicaa.

Dopo che Odisseo si è rifocillato, Nausicaa lo invita a recarsi con lei in città, fornendogli indicazioni precise sul percorso; in particolare, la ragazza gli dice di tenersi a distanza dal suo gruppo, perché vuole sottrarsi alle chiacchiere maligne dei suoi conterranei, che interpreterebbero in maniera tendenziosa la presenza dello straniero: “E certo un maligno direbbe incontrandomi: / chi è lo straniero bello e gagliardo, che segue / Nausicaa? Dove l’è andato a trovare? Suo sposo certo sarà” (vv. 275-276).

Citando gli ipotetici pettegolezzi dei Feaci Nausicaa fa la sua implicita “dichiarazione” allo straniero: lo trova “bello e gagliardo” e si augura (più o meno inconsciamente) che sia lui lo “sposo” preannunciato dal sogno.

La storia d’amore però non ha ulteriori sviluppi e anzi si può dire che finisca sul nascere. Infatti  Nausicaa si avvia a sparire dal poema; nell’VIII libro ricomparirà per un istante, allorché si rivolgerà ad Odisseo, in partenza per Itaca, con queste parole: “Sii felice, straniero: tornato alla terra dei padri, / non scordarti di me, perché a me per prima devi la vita” (vv. 461-462). Odisseo le risponderà con gratitudine: “anche laggiù, come a un dio, a te farò voti, / sempre ogni giorno: tu m’hai salvato, fanciulla” (vv. 467-468). Non una parola di più; subito dopo l’eroe si siede sul trono accanto al suo mancato suocero Alcinoo; e di Nausicaa non si parla più.

A ben vedere, nel testo omerico compariva un’allusione di Alcinoo al possibile matrimonio fra lo straniero e sua figlia (“Oh se… / bello come tu sei, unanime con me nei pensieri, / la figlia mia avessi e ti chiamassi mio genero, / restando qui! Io ti darei casa e beni, / se ti piacesse restare”; VII 311-314); ma in nessun caso Odisseo aveva manifestato il desiderio di rimanere a Scheria con una principessa innamorata.

“Nausicaa”, dipinto a olio dell’artista inglese Frederic Leighton,
realizzato nel 1878.

In genere i critici hanno riconosciuto nella figura di Nausicaa una forte componente lirica, per la cura con cui sono descritte le sue reazioni psicologiche e la delicatezza dei suoi turbamenti adolescenziali. Nausicaa rappresenta un aspetto del femminile diverso e alternativo rispetto a quello incarnato da donne “seduttrici” come Circe e Calipso; come scrive Eva Cantarella, “Nausicaa invece è una fanciulla mortale, di buona famiglia, di buoni sentimenti e ben educata: sa come comportarsi con gli uomini, sa che il suo destino è sposare l’uomo che suo padre sceglierà”.

Nausicaa rappresenta la speranza inespressa, il sognante vagheggiamento amoroso adolescenziale, che però (a differenza di quanto aveva fatto Calipso) rispetta le ragioni dell’altro, rimanendo entro i confini consentiti al suo ruolo, sia pure al prezzo di “una dolce delusione formativa” (come la chiama Guido Paduano).

Un recentissimo saggio di Giorgio Ieranò, intitolato appunto “Omero – Nausicaa e l’idillio mancato” (Il Mulino, 2023), approfondisce ottimamente questa chiave di lettura del personaggio.

Eppure questa bella “meteora” nella storia di Odisseo ha suggestionato non pochi autori e interpreti di tutte le epoche. In un suo celebre libro, “L’autrice dell’Odissea” (Londra 1897), Samuel Butler affermò che l’Odissea a suo parere era stata composta da una donna, precisamente da una principessa giovane e bella, che abitava a Trapani in Sicilia e che nel poema avrebbe anche tracciato, con lieve malizia, il suo autoritratto, celandolo appunto sotto la maschera di Nausicaa, la figlia del re dei Feaci.

Strana tesi, che però fu presa sul serio da Robert Graves, che nel suo “I miti greci” (1955) commentò così: “È difficile non essere d’accordo con Butler. Il tocco leggero, umoristico, naïve, pieno di spirito dell’Odissea non può che essere il tocco di una donna“. Graves fu affascinato a tal punto dall’ipotesi butleriana da costruirci sopra un romanzo, “La figlia di Omero”; protagonista e io narrante, inutile dirlo, era l’autrice dell’Odissea, ovvero la principessa Nausicaa.

Due osservazioni conclusive:

1) Nel famoso sceneggiato televisivo “Odissea”, diretto nel 1968 da Franco Rossi, Nausicaa era interpretata da Barbara Bach, una modella americana allora ventunenne, che in seguito fu una delle “Bond girls” (nel film “Agente 007 – La spia che mi amava” con Roger Moore) e divenne nel 1981 la moglie di Ringo Starr, uno dei Beatles. conosciuto durante le riprese del film “Il cavernicolo”.

Barbara Bach e Roger Moore nel film “Agente 007 – La spia che mi amava”

2) Quando parlavo in classe di questo episodio omerico, mi piaceva citare, come conclusione, una bella poesia di Gesualdo Bufalino, intitolata appunto a Nausica ma indirizzata a Ulisse: “La vita non sempre fa male, / può stracciarti le vele, rubarti il timone, / ammazzarti i compagni a uno a uno, / giocare ai quattro venti con la tua zattera, / salarti, seccarti il cuore / come la magra galletta che ti rimane, / per regalarti nell’ora / dell’ultimo naufragio / sulle tue vergogne di vecchio / i grandi occhi, il radioso / innamorato stupore / di Nausicaa”.

Gesualdo Bufalino (1920-1996)

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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