E se Ulisse si fosse inventato tutto?

Dopo aver terminato il lungo racconto delle sue straordinarie avventure (libri IX-XII dell’Odissea), Ulisse si congeda dal re dei Feaci Alcinoo e si imbarca sulla nave allestita per lui, sulla quale si addormenta serenamente. Il breve viaggio verso Itaca avviene senza intoppi; all’alba i marinai feaci lasciano Ulisse, che ancora dorme, sulla sponda di Itaca. Ma al risveglio l’eroe non riconosce la sua terra, a causa di una fitta nebbia procurata da Atena per proteggerlo, rendendolo invisibile a tutti.

Sembra incredibile: Ulisse torna dopo vent’anni di peripezie nella propria desideratissima patria, dopo averla sognata e rimpianta ogni giorno, dopo averne ricordato i minimi particolari: e poi, all’arrivo, non la riconosce e crede di essere stato ancora una volta ingannato, di essere giunto in un paese sconosciuto, in una nebbiosa val Padana! Ma forse è questo il destino dei momenti troppo attesi, troppo sognati, che poi nella realtà si rivelano, magari, molto meno “magici” del previsto…

Mentre Ulisse si dispera sulla riva, gli appare Atena, che ha però assunto le sembianze di un giovane pastore (gli dèi greci non amano farsi vedere nel loro reale aspetto se non come e quando dicono loro; e qui Atena gioca col suo eroe preferito come il gatto con il topo, come la maestra con l’allievo). Il falso pastorello rivela ad Ulisse che quella è proprio l’isola di Itaca.

L’eroe gioisce; però, ignorando la vera identità del suo interlocutore, inventa un racconto menzognero: “il vero non disse, di nuovo forzava il discorso, / accorto piano sempre in cuore agitando” (XIII 254-255; uso qui la traduzione della Calzecchi Onesti). Narra dunque di essere un nobile cretese sfuggito dalla sua patria, dopo aver ucciso un tale Orsiloco, figlio di Idomeneo (XIII 256-286). Nella sua invenzione, Ulisse mescola abilmente notizie vere e false e modifica luoghi e persone, pur accennando alle sue vicende reali.

Al termine della fasulla narrazione di Ulisse, Atena sorride e con una nuova metamorfosi si trasforma in una donna “bella e grande, esperta d’opere splendide” (v. 289); si rivolge poi all’eroe con un’ironica serie di sferzanti vocativi: “Impudente, fecondo inventore, mai sazio di frodi, non vuoi / neppur ora, in patria, lasciar da parte le astuzie, / e i racconti bugiardi, che ti son cari fin dalle fasce” (vv. 293-295). In realtà però la dea si compiace delle astute menzogne del suo prediletto: “Via, non parliamone più, perché ben conosciamo / le astuzie entrambi: tu sei il migliore fra tutti i mortali / per consiglio e parola, e io fra tutti gli dèi / sono famosa per saggezza e accortezza” (vv. 296-299).

In questa circostanza, dunque, Ulisse ha fatto ricorso a un racconto menzognero; e da qui alla fine del poema, altri ne inventerà, ugualmente falsi, indirizzati spudoratamente al suo fedele porcaro Eumeo (XIV 199-359), al capo dei proci Antinoo (XVII 415-444), a sua moglie Penelope (XIX 165-202; 221-248), a suo padre Laerte (XXIV 244-279; 303-314).

In tutti questi discorsi, tacendo la sua vera identità, l’eroe sosterrà sempre di essere originario di Creta (non a caso, ritenuta patria di abitanti menzogneri); ad esempio così dice a Eumeo: “Dell’ampia Creta mi vanto d’essere stirpe, / e figlio d’un ricco principe […] / me generò schiava madre, / concubina: pure, alla pari coi figli legittimi m’ebbe in onore / Càstore Iliacìde: io mi vanto suo sangue” (XIV 199-204). Chiacchiere, fandonie, minuziose nei dettagli, apparentemente credibili per la perfetta articolazione dei dati.

Non meno fantasioso sarà il racconto ingannatore rivolto da Ulisse (trasformato da Atena in un vecchio mendicante) a sua moglie Penelope: “Deucalione generò me e Idomeneo sovrano; / [..] io ho il nome glorioso d’Etòne” (XIX 181-183).

Sul fatto che Ulisse sia un incallito mentitore non ci sono dunque dubbi: del resto si diceva che il suo vero padre fosse l’ingannatore Sisifo; inoltre nella sua vita non aveva esitato in molte occasioni a mentire ingannando il prossimo: ne sapevano qualcosa Palamede, Achille, Filottete, Clitemestra (a cui aveva fatto credere che sua figlia Ifigenia fosse destinata alle nozze con Achille e non alla morte), l’intera città di Troia (con l’inganno del cavallo), ecc.

Da questa “etichetta” di “eroe bugiardo” deriva però, a rigore di logica, una curiosa conseguenza.

Nei libri IX-XII Ulisse, ospite dei Feaci, ha raccontato le sue leggendarie peripezie: l’avventura nella terra dei Lotofagi (gli uomini che si nutrono di loto, il frutto in grado di far perdere la memoria); il drammatico scontro con il Ciclope Polifemo e il suo accecamento; la sosta presso il signore dei venti Eolo, da cui ha ricevuto l’otre dei venti; l’avventura presso i giganti antropofagi chiamati Lestrigoni; le arti ammaliatrici di Circe, che aveva trasformato in porci alcuni suoi compagni; la discesa nel mondo dei morti e l’incontro con la defunta madre Anticlea; il canto seducente delle micidiali Sirene; infine  il passaggio da Scilla e Cariddi e la sosta nell’isola di Trinacria, con l’uccisione – da parte dei compagni – delle sacre vacche del Sole.

Tutte queste avventure sono universalmente note, affascinanti, straordinarie, che segnano la differenza con l’Iliade, poema dell’assedio e della guerra, ambientato in un unico, cupo scenario. L’Odissea, non a caso, è stato giudicato il primo “romanzo” della letteratura europea. In particolare, gli elementi fantasiosi sono stati analizzati anche da Vladimir Propp (studioso delle fiabe) e dagli studiosi delle tradizioni popolari (ad es. l’episodio di Polifemo è simile a un racconto che ha per protagonista il marinaio Sindbad nella raccolta “Le mille e una notte”).

Tuttavia sorge un inevitabile sospetto: Ulisse, si è detto, è abituato a mentire, mente spesso e volentieri, mente anche quando non ne ha una reale necessità. Allora, sarà lecito manifestare il sospetto che ad Alcinoo e ai Feaci, ivi compresa la dolce Nausicaa che si era invaghita di lui (“Oh se un simile uomo potesse chiamarsi mio sposo”), Ulisse abbia raccontato un enorme, clamoroso, infinito cumulo di fandonie?

Non a caso i libri IX-XII, con procedimento insolito e innovativo, presentano la narrazione di Ulisse in prima persona; non esiste più il filtro oggettivo del rapsodo compositore e il racconto è delegato, con una delega in bianco, al personaggio. Ulisse diviene così “aedo di se stesso”; e tale lo definisce, in una pausa della narrazione, lo stesso re Alcinoo: “Ma tu hai bellezza di parole e, dentro, saggi pensieri, / e il tuo racconto, come un aedo, con arte l’hai fatto” (XI 367-368). Nessun dubbio da parte del re dei Feaci, nessuna perplessità, nessun sospetto.

La conseguenza quale sarebbe?

Se tutta la narrazione di Ulisse fosse in realtà una colossale mistificazione, da questo poema famoso per le sue pagine fantastiche (ciclopi, sirene, trasformazioni di uomini in porci, visite nell’aldilà, giganti che precorrono quelli di Gulliver) dovremmo sottrarre quei quattro libri relegandoli sul piano dell’invenzione.

Che cosa resterebbe?

Un poema di uomini, senza mostri, senza eventi soprannaturali particolari (la costante presenza degli dèi è invece, nel mondo arcaico, sentita come assolutamente “normale”). Esattamente come l’Iliade: senza creature straordinarie, senza surreali voli di fantasia.

Un mondo dalle connotazioni “quotidiane”: aspre e ruvide come la terra “petrosa” di Itaca, terra di fatica e di sacrificio (in una prospettiva già “esiodea”).

Non approfondisco il discorso, che meriterebbe in realtà uno studio “scientifico”. Un articolo molto stimolante è stato pubblicato in proposito da Giovanni Cerri: “Odisseo, l’eroe che narra se stesso” (in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli”, XXV, 2003); a me inoltre vengono in mente le parole che il poeta Esiodo dichiara di aver sentito dalla voce delle Muse: “noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, / ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare» (“Teogonia” vv. 27-28).  

PS: Un piccolo corollario finale. Se Ulisse non ha realmente visitato tutti gli straordinari e sovrannaturali luoghi che descrive, che ha fatto in tutti quegli anni del suo “nòstos”, cioè del suo viaggio di ritorno? Forse la risposta andrebbe cercata nei celebri versi di Costantino Kavafis, tratti dalla poesia “Itaca”: “Sempre nella tua mente Itaca tieni. / Il tuo approdo là è la tua destinazione. / Ma non affrettare per nulla il viaggio. / Meglio se lunghi anni esso dura. / E vecchio ormai arénati all’isola / ricco di quanto avrai guadagnato in viaggio / senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca il bel viaggio ti ha concesso. / Senza di lei non ti saresti avviato. / Più altra cosa non ha da darti” (trad. M. Vitti).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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