In occasione dell’odierna “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali”, istituita dall’UNPLI (Unione nazionale delle Pro Loco) per sensibilizzare istituzioni e comunità sull’importanza di valorizzare le lingue locali e sulla tutela del patrimonio culturale che rappresentano, ripropongo una bella lirica di mio cugino Pietro Maggiore, indimenticabile poeta dialettale bagherese.
La poesia, intitolata, “Paisi miu”, risale al periodo 1982-1984; si tratta di una celebrazione del paese natìo, Bagheria, volutamente idealizzata ma sicuramente molto sentita e significativa.
Il poeta dapprima descrive il suo “paiseddu”, bagnato da un mare di “cobalto colorato”, che lo accarezza e lo vivifica assiduamente (“a tutti l’uri l’accarizza e pasci”). La Conca d’Oro, “verde di agrumeti” (una volta…), gli fa da “letto naturale” mentre il guanciale è la contrada di Incorvina, “terra ricca di vigneti”. Ulteriore riparo viene offerto dal monte Catalfano (monte calcareo “di àgavi e saggìne”), che lo protegge dai venti, “con amore eterno più di quello umano”.
Queste poche pennellate paesaggistico-geografiche sottolineano la “protezione” e – si direbbe – l’affetto che gli elementi naturali riservano al paese, rendendolo speciale e privilegiato.
Pietro cita poi i due corsi principali, Butera e Umberto (rispettivamente “Stratuni” e “Stratuneddu”) e delimita lo spazio storico del “paese nuovo e vecchio”: “non superare Angiò e Palagonia” (chiamata con il nome con cui la chiamano i “baariòti” DOC: “Trippurtuna”).
Segue la descrizione della gente del paese, “laboriosa e di poche parole” (“massara e di picca parrari”), amante delle scienze e delle arti (non si contano gli insigni rappresentanti della cultura bagherese); questa gente, inoltre, ha dato i suoi morti ad ogni guerra (su tutti, basterebbe ricordare il sacrificio eroico di Ciro Scianna sul Monte Asolone nel 1918).
Ma il poeta non può tacere nemmeno l’“amara realtà”: l’aumento demografico cui non corrispondono crescenti occasioni lavorative, l’emigrazione che costringe i bagheresi a “buttare sangue” in terre lontane, ricordando con cuore nostalgico i “Pupi” di Villa Palagonia, storico emblema del paese. Ne deriva, come reazione, l’elenco delle storiche ville di Bagheria, che “troneggiano” a ricordarne la “gloria eterna di passata era”.
Ora però, camminando per le strade, il poeta si immerge nella sua “gente”: l’intraducibile vezzeggiativo “gintuzza” (“cara gente, dolce gente”) sottolinea il suo grande affetto verso i suoi compaesani: la “vera Bagheria” è formata da tutti i suoi abitanti, vivi, veri e solidali fra loro.
Si ricordino, i bagheresi di oggi, delle parole di questo loro grande concittadino; e mostrino un po’ di orgoglio e di buona volontà nel mantenere la Bagheria di oggi all’altezza del suo passato.
Per facilitare la comprensione del testo, lo faccio seguire dalla traduzione italiana che lo stesso Pietro ne fece nell’unico volume da lui pubblicato, “Azzurru”, del 1986.
“D’unni codda lu suli e d’unni nasci
lu paiseddu miu veni vagnatu
d’un mari di cubaltu culuratu
ch’ a tutti l’uri l’accarizza e pasci.
La Conca d’Oru, virdi d’agrumeti,
l’accogghi dintra un lettu naturali
e a lu capizzu ci fa di guanciali
‘Ncurvina terra ricca di vigneti.
Contru li venti e la brizza di mari,
cu amuri eternu cchiù di chiddu umanu,
li peri cci arripara Catalfanu
calcàriu munti di ‘disa e zabbari.
Attornu o’ Stratuneddu e lu Stratuni
s’intreccia lu paisi novu e vecchiu;
ma, siddu ‘n cerca vai di lu megghiu,
nun supirari Anciò e Trippurtuni.
Gintuzza allegra vivi ‘ntra ‘sta terra,
genti massara e di picca parrari;
li Scenzi e l’Arti sapi cultivari
e vita e sangu ha datu ad ogni guerra.
Amara rialtà fa cunstatari
ca, mentri a vista d’occhiu a genti crisci,
la terra di zappari diminuisci;
e all’omu nun ci resta ch’emigrari.
E mentri a la stranìa jetta sangu
lu cori palpitìa di nustalgia;
e notti e ghiornu sonna Paulunia
cu li so’ Pupi, Mostri di gran rangu.
Palazzo Villarosa e Valguarnera,
Cattolica, Inguaggiatu e Larderia
trunèggianu ccà dintra a terra mia
a gloria eterna di passata era.
Ma, quannu pi li strati vaiu e viu,
m’accorgiu ca la vera Baarìa
si’ tu, sugnu iu, è chiddu chi passia:
gintuzza viva d’u paisi miu”.
“Da dove il sol tramonta e dove nasce / il paesello mio viene bagnato / da un mare di cobalto colorato / che ad ogni ora l’accarezza e nutre. / La Conca d’Oro, verde d’agrumeti, / l’accoglie dentro un letto naturale / e al capezzale gli fa da guanciale / Incorvina, terra ricca di vigneti. / Di contro ai venti e alla brezza di mare, / con amore eterno più di quello umano, / i piedi gli ripara Catalfano / calcareo monte di àgavi e saggine. / Attorno al Corso Umberto e Butera / si snoda il paese nuovo e vecchio; / ma chi di esso vuol vedere il meglio / non vada oltre Angiò e Palagonia. / Gente allegra vive in questa terra, / laboriosa e di poche parole; / le scienze ed arti ama coltivare / e vita e sangue ha dato ad ogni guerra. / Amara realtà fa constatare / che, mentre il popolo aumenta a vista, / la terra da zappare diminuisce; / e all’uomo non rimane che emigrare. / E mentre in terra estranea butta sangue / pàlpita il cuore suo di nostalgia / e sogna notte e dì Palagonia / con i suoi Pupi, Mostri di gran rango. / Palazzo Villarosa e Valguarnera, / Cattolica, Inguaggiato e Larderìa / troneggian dentro questa terra mia / a gloria eterna di passata era. / Ma, quando per le strade vado e vedo, / mi accorgo che la vera Bagheria / sei tu, son io, è quello che passeggia: / la gente viva del paese mio”.