Maggio 1967: un altro numero del giornalino del Liceo “Garibaldi” di Palermo

Il numero unico del giornalino del Liceo classico “Garibaldi” di Palermo, datato maggio 1967, sviluppava più del doppio di pagine rispetto ai fascicoli del 1965, arrivando a 40 pagine di testo; il prezzo di vendita era salito a 100 lire.

Il direttore era Fabio Grasso. La redazione era composta da 24 fra ragazze e ragazzi, di cui riporto l’elenco completo: Marina Battaglia, Rossella Botta, Irene Briguglia, Augusto Cacopardo, Antonio Calabrò, Gedo Campo, Augusto Cavadi, Gigi Cusimano, Nando Dalla Chiesa, Iunia De Mauro, Emilia Ferruzza, Carla Garofalo, Guido Giannici, Mario Gulli, Franco La Cecla, Ignazio Majolino, Irene Marsicano, Lucio Melazzo, Mario Menozzi, Anna Perricone, Carlo Perucci, Marcello Piazza, Hilena Trombetta e Pippo Vicari. Il bel disegno di copertina (che ritrae il volto pensoso di una giovane donna) era di Francesco Deplano.

Visto lo sviluppo notevole di questo giornalino, posso dare solo dei cenni su alcuni dei contributi in esso pubblicati, soffermandomi su quelli che appaiono, a distanza di anni, più interessanti e spesso estremamente attuali; va rilevata, in ogni caso, la varietà dei contenuti proposti e l’originalità di molti articoli.

28 maggio 1967 – alunni in sala professori

Dopo un editoriale iniziale (p. 1), in cui si invitavano i “garibaldini” a considerare il giornalino come «un mezzo di discussione, meglio di conversazione», con un atteggiamento di critica costruttiva e non di sterile polemica, a p. 2 Ignazio Majolino presentava il tema “Una scuola per la società”. Vi compaiono interessanti e condivisibili considerazioni; mi limito a citarne una: «nessun tipo di scuola che si limiti ad un’attività puramente didattica può veramente conseguire il fine di creare il cittadino. Potrà tutt’al più formare l’erudito, forse riuscirà a rendere il giovane maturo; anche questo però resterà sempre un individuo isolato, restio a comunicare con gli altri, ad aprirsi a forme di collaborazione e di lavoro comunitario che sono sicuri presupposti di una società evoluta».

A p. 3 il direttore, rispondendo a una lettera di Maurizio Liotta che auspicava il superamento delle difficoltà scolastiche tramite un «dialogo aperto tra insegnanti ed alunni», faceva presenti le difficoltà persistenti nella realizzazione di questo dialogo. La necessità dei docenti di «svolgere i programmi ministeriali», il poco tempo disponibile a ricreazione, la fretta di tornare a casa alla fine delle lezioni: tutto questo impediva un dibattito efficace fra docenti e studenti; ne derivava una critica «rivolta sostanzialmente alla scuola italiana di oggi così come essa è strutturata nel nostro paese».

I germi del ’68, come si vede, si andavano creando nel laboratorio vulcanico delle menti dei giovani; lo dimostrava, nella stessa pagina, un “Invito” a firma di Hilena Trombetta, che invitava i giovani a liberarsi “da una piatta mediocrità che avvilisce chiunque”, senza appiattirsi in un “sistema di vita borghese, senza ideali”.

Dopo un racconto di Marcello Piazza a p. 4 (“I tre gatti della signora Rosa”), a p. 5 Emilia Ferruzza ed Augusto Cavadi affrontavano il tema della pace nell’articolo “Un problema tutto per noi”.

I due articolisti (il secondo dei quali, che frequentava allora la I liceo, fu molti anni dopo mio collega di corso al Liceo “Meli”), con grande sensibilità (indotta anche dalla riflessione sulla guerra nel Vietnam) e con acume profetico chiarivano ed estendevano il concetto di “guerra”: «guerra, anche se incruenta, è quella che combattiamo giorno per giorno contro i nostri simili per affermare le nostre egoistiche ambizioni, guerra fatta di invidie nascoste, di crudele sarcasmo, di piccole e grandi offese. È guerra l’ostilità che proviamo verso gente che non ha il nostro grado sociale, la nostra nazionalità, che non parla la nostra lingua e non condivide le nostre idee. […] Per questo la pace dipende solo da noi, da tutti noi. Dobbiamo convincerci che nessuna barriera etnica, sociale, economica deve separarci dai nostri simili, che tutti, anche se il colore della pelle è diverso, anche se migliaia di chilometri e millenni di tradizioni ci separano, siamo cittadini del mondo. […] Il formarsi di una coscienza pacifista e l’uguaglianza economica sono dunque le premesse indispensabili per attuare la vera pace nel mondo». Premesse, ahimè, tuttora disattese a quasi sessant’anni di distanza…

Alle pp. 8-9 Carlo Perucci presentava notizie storiche sulla mafia, con qualche impennata polemica («io, voi, tutti noi siamo la mafia fino a quando accetteremo le leggi di questa società corrotta»).

Molto pungente, a p. 9, è un articolo (“L’approvazione”) in cui Iolanda Di Stefano e Anna Scala inveivano contro i “beat fasulli”, cioè «quei nostri coetanei che non avendo ancora una propria personalità […] si trasformano in pagliacci dietro alle mode dei loro divi. […] Vediamo così capelloni andare in giro con l’aria da eroi, portando al collo medaglioni con scritte di questo genere “non faccio la guerra, faccio l’amore”, […] “ma che colpa abbiamo noi?” […] Costruiscono così questo loro futuro mondo d’amore e di pace sulle vuote mode imposte dall’industria atta allo sfruttamento della loro ingenuità». Questo atteggiamento di diffidenza verso le mode, verso l’omologazione, verso lo sfruttamento occulto della faciloneria di certi giovani, va tanto più ricordato e lodato quanto più invece, nel nostro secolo XXI, per effetto micidiale dei cosiddetti “social”, sta venendo meno ogni consapevolezza critica in troppi giovani di oggi.

La “generazione beat” era giustamente al centro della riflessione dei giovani di allora: a p. 8 Gedo Campo parlava dei “beatniks”, mentre a p. 9 Anna Maria Adamo parlava del tema “I giovani e la religione”.

Seguiva poi un altro contributo del vulcanico Augusto Cavadi, che rivendicava la necessità dell’umorismo in un “giornaletto di giovani” presentando una sua “Paginetta così così” (in realtà le “paginette” erano due, pp. 10-11), in cui erano presentate barzellette, battute comiche, aneddoti, ecc.

Non mancava il “vecchio giochetto dei films”, che riferiva alcuni titoli di film famosi all’attualità “garibaldina”: “Per chi suona la campana” per l’entrata a scuola alle 8,25, “Svegliati e uccidi” per il risveglio di un temibile professore, “L’armata Brancaleone” per la I E che torna dalla palestra, “Colazione da Tiffany” per lo spuntino dei professori del corso B, “La morte arriva strisciando” nel momento dell’ora di Matematica, “Io scappo, tu corri, egli fugge” per la visita al I piano del terribile vicepreside prof. Geraci, “In ginocchio da te” in occasione dell’entrata in classe dell’alunno ritardatario, ecc.

Anno scolastico 1965-66: Augusto Cavadi riceve dal preside Tullio il premio di poesia.

Alle pp. 12-13 erano inseriti il racconto “La tuba” di Marcello Piazza (p. 12) e due lettere di studentesse straniere da Manchester e dal Texas (p. 13).

A p. 14 c’è uno degli articoli più interessanti, divertenti e piacevoli; si intitola “Sulla moda garibaldina” ed è firmato da Rossella Botta e Carla Garofalo; vi si trovano numerose informazioni sul “look” (ma allora non si diceva così) sfoggiato da ragazze e ragazzi nella primavera del 1967.

In particolare, erano assai di moda dei “braccialoni di metallo”, definiti “scrusciantissimi” (evidentemente perché dovevano tintinnare fortemente), con funzione non solo ornamentale per i “leggiadri polsi” delle studentesse, ma anche di “pietoso richiamo nelle strazianti ore di versione” (scuotendoli opportunamente, infatti, si poteva richiamare l’attenzione e invocare il sussidio della compagna più brava o più audace…). Le ragazze del ’67 seguivano la moda francese, con “righe multicolori e quadri” (ma alle più “impostatine” si consigliavano le righe verticali); sempre da Oltralpe arrivavano “vestiti a campana, a corolla, con sprone che fanno tanto pre-maman”. Un colore assai di moda era (alla faccia di ogni scaramanzia) il viola; ma si gradivano colori “sempre più forti, più solari, più splendidi: la gamma dal giallo all’arancione, il verde-mela, ed infine sempre in voga il bianco”; e qui le articoliste chiosavano: “altrimenti come si fa a sposarsi?” (epoca lontana in cui ancora si idealizzava il momento delle future nozze…). L’articolo ricorda anche le novità per le ragazze miopi: “occhiali beat o mini-occhiali, con montatura in metallo che somiglia a quella dei nostri nonni, ma un po’ più ridotta”; viene precisato che a portarli con molta disinvoltura era Franca Campolo. Al secondo piano, allora “esclusivamente femminile”, c’era Fiorella Siracusa che stava lanciando “la moda dei tailleurs-pantaloni”, tra l’altro “umiliando quelle compagne che credevano di essere all’ultimo grido coll’indossare le ormai antiquate gonne-pantalone”. Una “sportivissima” Fenizia Giurato (“Feny per gli amici”) sfoggiava invece “il suo giubbotto in pelle che fa tanto yè-yè”. Quanto ai ragazzi, sono definiti “più suscettibili delle ragazze”, per cui di loro non vengono fatti i nomi. La terribile influenza “polacca” aveva influito sulla moda maschile, inducendo i freddolosi “picciotteddi” a indossare “grandissimi fasciacolli a quadri, portati anche su semplici maglioni in giornate di pieno sole”, al fine di scongiurare ogni possibile ricaduta. Contestualmente, i pantaloni diventavano “sempre più aderenti”, per cui le articoliste sardoniche augurano ai ragazzi di non… ingrassare troppo! A scuola c’era ancora chi veniva con la cravatta, per cui c’erano “tanti fiori stampati nelle cravatte” a rallegrare i vestiti dei maschietti; in particolare, viene lodata una cravatta “più originale delle altre”, con “fondo nero con grandi fiori verdi e rossi”.

Le righe di queste ragazze di allora sprigionano vitalità, curiosità, doti di osservazione ed un’ottima dose di ironia; il loro articolo, per quanto leggero e spensierato, risulta intrigante non solo perché fornisce una preziosa documentazione sulla moda giovanile del 1967, ma perché fa percepire una “vita di istituto” vivace, coinvolgente e forse meno problematica rispetto al giorno d’oggi.

Ho rintracciato (potenza di Facebook!) Carla Garofalo, oggi insigne avvocato penalista, scoprendo anche che il disegno di p. 14 era suo; a proposito di quell’antico articolo mi ha scritto così: «Adoro ancora oggi i colori intensi e solari e l’immancabile viola, che indosso anche nei tailleur da “avvocato”, spesso provocatoriamente contro il grigiore che talvolta avvolge questa mia professione, specie per chi si prende troppo sul serio e si crede Dio dopo il primo processo vinto». Quanto all’altra articolista, Rossella Botta, purtroppo ci ha lasciati molti anni fa, troppo presto: questo suo ricordo costituisce, spero, un tributo alla sua memoria.

A p. 15 Iunia De Mauro in un articolo “Contro la guerra H” parlava dei timori di una guerra nucleare (timori tornati oggi quanto mai attuali): «Oggi che le nazioni sono impegnate in un’assurda gara atomica, oggi che il mondo intero conosce le conseguenze atroci di un’esplosione nucleare, oggi che non viene minacciata solo la nostra esistenza e quella del Paese ma di tutta l’umanità terrestre, non si può e non si deve continuare a crogiolarsi nel dolce e ottimistico “tanto sarebbe troppo pericoloso, quindi non si farà mai la guerra”». Iunia era figlia del famoso Mauro, il giornalista de “L’Ora” che pochi anni dopo fu vittima della violenza mafiosa; anche lei, purtroppo, non è più con noi.

Alle pp. 16-17 si trova un altro bellissimo articolo, firmato da Nando Dalla Chiesa, figlio del celebre generale, oggi sociologo, politico e scrittore di fama nazionale. Dalla Chiesa, che era stato in precedenza alunno del liceo “Parini” di Milano, era stato invitato a fare un parallelo fra il giornalino “Il Garibaldi” e il «ben più famoso collega milanese “La Zanzara”» (pubblicato appunto al “Parini”).

Secondo Dalla Chiesa, «le notevoli differenze esistenti tra essi sono dovute sono alle differenti condizioni ambientali in cui nascono»; in particolare, il modo diverso di condurre le inchieste nei due licei dipendeva «dalla differenza di mentalità esistente tra le città stesse in cui tali licei si trovano. Una, Milano, e chiedo perdono, abituata a prendere di petto i problemi, e a risolverli, o a tentare di risolverli, seriamente, tutta protesa verso il traguardo prefisso; l’altra, Palermo, abituata, mi è parso, a prendere alla leggera ogni problema, con abulìa, ed in cui la mentalità oraziana del “carpe diem” (in senso deteriore, per giunta) mi è sembrata larghissimamente acquisita».

Un punto a favore del “Garibaldi” era però, per l’articolista, lo spazio dedicato alle poesie degli studenti, visto che la poesia va considerata «una delle più alte espressioni dell’attività umana»; anche in questo caso, la “prosaica” Milano era contrapposta alla più “poetica” Palermo.

Un’altra stridente diversità era nella frequenza dei dibattiti stimolati dagli articoli dei due giornali: «qui al Garibaldi, di questi dibattiti, nemmeno l’ombra»; in proposito, Dalla Chiesa (che qui dimostrava già la sua stoffa di futuro sociologo)  giudicava così il liceo palermitano: «Mi è parso di vedere una scuola, direi, “a circoli chiusi”, ove cioè i più, per assenteismo proprio o perché trascurati dagli altri, restano completamente inattivi, il che si riscontra, appunto, soprattutto in questo scarsissimo spirito di collaborazione e di cameratismo così evidente dall’impostazione tutta del giornale scolastico. […] Forse, e la mia tesi trova conforto in quella di molti sociologi, questo smembramento interno è dovuto alla profonda scissione in due tronconi che in questa scuola si verifica; scissione dovuta alla quanto mai eloquente divisione in “Garibaldi maschile” e in “Garibaldi femminile” del “Garibaldi scuola”, che pare messa lì apposta a ricordare la famosa triade hegeliana di tesi, antitesi e sintesi. Fatto sta che “il Garibaldi” il più degli allievi mi sembra che lo considerino soltanto come una scuola cui andare al solo scopo di apprendere le singole materie, ma non, come sarebbe giusto, come un luogo in cui il giovane si prepari alla vita e cominci a vivere in società; dibattiti, conferenze, che potrebbero tenersi nella scuola stessa al pomeriggio o nei giorni feriali, gite scolastiche, sono ignorati del tutto; manca una compagnia teatrale, manca persino un’associazione studentesca, che senz’altro cementerebbe lo spirito di cameratismo tra i garibaldini».

A p. 18 Mario Menozzi nell’articolo “Giornale d’istituto” lamentava una “censura” operata nei confronti del giornale d’istituto, «censura che il più delle volte si presenta sotto forma di paternalistici consigli dati per il nostro bene». Alle pp. 18-19 Pippo Vicari parlava di “Tecnica e spirito”. Alle pp. 20-22 Augusto Cavadi, Lucio Melazzo, Anna Perricone, Franco La Cecla e C. Genco presentavano un’inchiesta intitolata “Che ne pensa la gente?”, consistente nella «esplorazione critica dei luoghi chiave della Palermo giovane», unita a «un rapido scambio di idee sui problemi basilari della nostra esistenza». A p. 23 si legge il racconto “Una mano piena di conforto”, di Pippo Vicari.

A p. 24 Mario Gulli poneva il problema della presenza della politica al liceo, affermando tra l’altro: «Il punto sta proprio qui: far sì che gli studenti siano considerati, si sentano e siano in realtà parte attiva e integrante della vita della scuola, e parte sino a un certo punto condizionante, o almeno influenzante, le direttive ministeriali e le decisioni del corpo docente, in modo che la loro partecipazione sia attiva e determini una critica costruttiva e una verifica continua delle esigenze degli studenti».

A seguire, nel fascicolo si trovano: un racconto di Valeria Albano (“Un cuore o una medaglia”, p. 25), un articolo di Antonio Calabrò su Hemingway (p. 26), una nota informativa dei ragazzi aderenti all’Associazione Culturale Giovanile (p. 27), una pagina di diario di Carlo Amodio (p. 27), una riflessione di Antonio Calabrò sul suicidio ispirata dalla morte di Luigi Tenco a Sanremo (pp. 28-29), la descrizione di “un singolare personaggio” da parte di Augusto Cacopardo (p. 29).

Dobbiamo però assolutamente soffermarci su un articolo intitolato “Per lei, professore”, scritto da Fabio Grasso (futuro Dirigente Scolastico, scomparso nel 2020), che modificava leggermente “un argomento trattato molto tempo fa da un nostro collega”. Si tratta di uno sfogo appassionato, di un tentativo “disperato” di colloquio fra uno studente e un docente, che testimonia il forte desiderio di dialogo che esisteva fra i giovani.

Le richieste di una scuola più legata alla vita reale, di un insegnamento che insegnasse davvero a “vivere”, di una cultura umana prima che umanistica, di un colloquio fattivo fra adulti e giovani, senza pregiudizi e senza reciproche diffidenze, appaiono sensate, frutto di un’intelligenza matura e di una reale disponibilità alla “formazione” (piuttosto che alla “informazione” fornita, fin troppi abbondantemente, dalla scuola). E forse proprio il fatto che molte di queste istanze fossero respinte o sottovalutate dal “mondo adulto” fu alla base della contestazione giovanile globale che esplose pochi mesi dopo.

Riporto qui di seguito i passaggi più significativi di questa “lettera aperta”, che meritano attenzione e appaiono ancora attualissimi in molti punti: «Signor Professore, vorrei parlare con lei serenamente, da amico. Non voglio qui impostare polemiche, processare la scuola, fare autodifese. Cerco solo di spiegare, di chiarire, di esprimere ciò che noi ragazzi sentiamo, nella speranza di creare un vero dialogo. Molti di noi studenti sono impegnati in attività extrascolastiche. Lei vede che queste attività ci assorbono e spesso afferma che ci disperdono e ci sprecano. Vorrei cominciare a dirLe, Professore, che tutto quello che noi facciamo fuori dallo studio non è un perditempo o quello che oggi potremmo definire un “hobby”; se volessimo divertirci, lo faremmo con minore fatica andando al cinema od alla partita con gli amici o a vedere la televisione. È una fatica andare a riunioni, discutere, parlare, pensare, organizzare qualcosa; è una fatica quando per queste cose dobbiamo rinunciare a delle comodità, a dei divertimenti privati. Tuttavia lo facciamo perché siamo convinti che abbia valore. Io giovane mi sento combattuto da esigenze molteplici, spesso opposte; esigenze di scoprire la vita, di approfondire i suoi valori, di conoscere la verità, di informarmi come uomo. Quando esco dalla scuola, anche dopo lo studio più intenso e serio, sento che la vita non è tutta lì, sento che devo conoscere e fare dell’altro. La scuola non può appagare la sete di problemi che il mondo, l’ambiente, la società odierna mi impongono. Quando chiudo ad esempio il libro di greco e parlo con un compagno mi sento di fronte ad una realtà che nessuno studio mi aiuta ad affrontare. […] Lo studio si riduce così ad un apprendimento, specie se il professore diventa il controllore del mio lavoro, e conseguentemente gli esami possono soltanto provare la quantità delle mie nozioni. Dovrei quindi arrivare a trovare un mio metodo di studio, ma la scuola si limita soltanto a darmi l’estensione dei miei compiti. Dovrei attuare un mio lavoro di ricerca personale, di approfondimento in alcuni campi, ma il tempo che mi rimane dopo la mattina a scuola e lo studio a casa, è ridotto a ritagli e scorci. […] Lei potrebbe dirmi che è presuntuoso tutto questo, che dovrei adempiere ai miei primi  doveri, a ciò che la scuola mi chiede e non preoccuparmi di ciò che è più grande di me. In questo caso non potrei essere d’accordo con Lei. La mia non è una presunzione, perché non ho mai affermato di rivoluzionare il mondo da solo; è solo risposta a dei bisogni troppi urgenti che devono essere risolti perché io possa fare di me un uomo. Perciò cerco un completamento al mio studio strettamente scolastico. Come vede, non penso affatto di rivoluzionare il valore dello studio o di tralasciarlo. […] Ecco: vorrei essere riuscito a far capire questo dissidio in cui mi trovo (e non soltanto io), incapace di trovare un equilibrio stabile: da una parte dei programmi, delle strutture cui non posso ribellarmi se non a parole, dall’altra esigenze e valori insopprimibili che si manifestano. […] Voglio solo chiederLe di comprendermi, comprendere che lo spirito da cui partiamo noi ragazzi, più che l’evasione da un mondo che ci soffoca o la pretesa di cambiarlo, è soprattutto la coscienza delle nostre responsabilità e del nostro essere studenti e, prima ancora, del nostro essere giovani. Se spesso ci poniamo in posizione sbagliate, dimentichiamo i nostri compiti, siamo disorientati ed incerti, è solo perché lo sforzo che dobbiamo compiere supera le nostre capacità, perché dobbiamo costruirci senza averne le forze, perché dobbiamo trovare un equilibrio, senza saperci ancora dominare, perché dobbiamo muoverci senza vederci chiaro. Se sbagliamo, correggeteci; non basta punirci. Se non sappiamo studiare, aiutateci a vedere nello studio una cosa viva, attuale, traducete la pesante cultura umanistica nel nostro spirito, dateci la vostra esperienza, scopriteci i problemi che non vediamo, rischiarateci la realtà che travisiamo. Non stateci lontani, non disinteressatevi, non limitatevi a critiche, perché sentiamo noi stessi la nostra povertà. Giudicateci come giovani, non come macchinette pensanti; rendete i nostri rapporti con Voi non quelli del subordinato con l’ufficiale, ma del giovane con l’adulto. Vogliamo diventare uomini, e Voi uomini formati potete e dovete darci una mano. Anche se i miei ideali non sono i suoi, se le mie fedi sono diverse, Lei può aiutarmi. Non certo in polemiche aperte, in osteggiamento reciproco, in prese di posizione imposte: può aiutarmi con la Sua esperienza, la Sua coscienza di studio, la Sua maturità di dialogo. Noi a scuola vorremmo conoscere la vita, non solo la cultura, vorremmo avere una preparazione umana non solo umanistica: è proprio questo il punto. Non dite che è un circolo chiuso, che noi continuiamo a domandarvi, ma al tempo stesso non vi veniamo incontro, che vi chiediamo aiuto e vi critichiamo. Solo ricordatevi che siamo limitati, che possiamo sbagliare, anzi che dobbiamo sbagliare, perché siamo soprattutto giovani».

A completamento del fascicolo vi erano: un articolo di Emilia Ferruzza sull’L.S.D. (pp. 32-33), due divertenti pagine di oroscopo a cura di Marcello Piazza (pp. 34-35) un contributo di Francesco Cisternino intitolato “Antico e moderno – Le idee di un utopista” (pp.35-36), una nota di Gigi Cusimano contro il razzismo (“La vergogna del secolo”, p. 37), un articolo di Alessandro Musco sull’“essere giovani” (“Premesse fondamentali”, p. 38) e infine due pagine conclusive sulle “cronache sportive” dell’istituto (pp. 39-40).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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