Altri tre vocaboli siculo-italiani

Continuiamo la rassegna di vocaboli del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.

Eccone altri tre.

1) “Pititto” – Sembrerebbe intuitiva la traduzione “appetito”; ma in realtà il “pititto” è, per i siciliani, molto più e molto peggio del normale “appetito” (in particolare di quello dei cosiddetti “continentali”).

Sarà che per secoli, da queste parti, gran parte delle classi più disagiate ha sofferto la fame nera; ma oggi non c’è cosa che atterrisca di più il siciliano della prospettiva di restare digiuno.

Da qui le corpose merende mattutine, gli ingegnosi “street food”, i pranzi domenicali torrenziali, le cene infinite. Da qui anche i mille manicaretti (non certo leggeri) che arricchiscono la mensa isolana; come scrive giustamente Natalia Milazzo, «la definizione di “piccolo”, in campo alimentare, in Sicilia è basata su criteri squisitamente locali, che poco o nulla hanno a che vedere con quelli normalmente utilizzati altrove (e specialmente al Nord); una porzione “piccola”, in Sicilia, a Milano basta per tre. […] Ma il problema è che il cibo in Sicilia non è soltanto abbondante; è anche diabolicamente buono» (“Cannoli e polenta”, D. Flaccovio ed., Palermo 2011, pp, 156-157).

La migliore traduzione di “pitittu” è dunque “desiderio di cibo” (come lo rende Mortillaro), quindi “fame”, fame compulsiva, insaziabile, smodata.

Parallelamente, non c’è niente di peggio di una persona “passa-pitittu”, cioè di quelle che ti fanno perdere il “pitittu” perché sono esangui, pallide, “scucìvule” e (peggio ancora) schifiltose e ritrose in campo alimentare.

Viceversa Andrea Camilleri, come è noto, ha voluto che il suo personaggio più celebre, il commissario Montalbano, fosse “liccu cannarutu”, cioè particolarmente goloso e ingordo; spesso “gli smorca un pititto lupigno”, cioè una “fame da lupi” che lo induce a voraci scorpacciate dei manicaretti preparati dalla sua colf Adelina.

Luca Zingaretti nel ruolo del commissario Montalbano

2) “Sfurniciàrisi” o “sfirniciàrisi” – Chi si “sfurnicìa” si sta lambiccando il cervello, spreme le meningi per capire o scoprire qualcosa, per trovare un espediente in un momento difficile. Ad es. uno studente alle prese con una versione di Greco per casa o con un problema di Matematica può dire, disperato: «Mi sto sfurniciando per capirci qualcosa!».

Il verbo deriva dal sostantivo “firnicìa” (o “furnicìa”, come si dice qui nel Palermitano), che significa “cura, pensiero, affanno per checchessia, sollecitudine” (Traina); l’etimologia è forse greca, da “frenesìa”.

3) “Attuppari” e “stuppari” – “Attuppari” significa “turare, tappare”; ad es. si “attuppa” la bocca a qualcuno per non farlo parlare (magari facendolo passare a miglior vita…) o ci si “attuppano” le orecchie per non sentire cose sgradevoli o per fare i finti sordi.

“Attuppato”, cioè ostruito, può essere un lavandino, un water, un tubo; bisogna allora “stupparlo” con gli appositi strumenti da idraulico. Analogamente, le orecchie si devono “stuppare” dopo un tuffo in mare, mentre lo stomaco va “stuppato” se è “attuppato” (magari in seguito ad una delle pantagrueliche libagioni di cui parlavamo prima o per qualche fastidioso virus intestinale poco rispettoso delle esigenze gastronomiche siciliane).

A proposito non posso non citare, qui, i deliziosi “attuppateddi”, cioè le lumache “col tappo” di cui il Traina dà una minuziosa definizione: «Specie di chiocciola così chiamata da una membrana mucoso-calcarea, che chiude l’apertura del nicchio. […] Quando l’animale dopo le prime pioggie [sic!] perde questa membrana vien chiamato “crastuni nìuru” e in taluni paesi “izzu”».

A Messina, curiosamente, si parla di “stuppateddi” per indicare queste lumachine con la pellicina che chiude l’apertura: in quel caso la prospettiva è di chi le mangia, che deve per forza “stupparle”….

Va detto infine che gli “attuppateddi” sono anche un tipo di pasta, corrispondenti in italiano ai “ditali” o alle “mezze maniche”: si possono cucinare con il polpo, a “picchi-pacchi” (non sapete che vuol dire? ne riparleremo…), con cozze-zucchine-caciocavallo, coi fagioli (anzi, “c’a fasola ‘ncirata”) e via attuppando…

Attuppateddi “a picchi-pacchi”

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *