Discorso “femminista” di Medea

Nella “Medea” di Euripide (431 a.C.) la protagonista compare in scena soltanto al v. 214; nel prologo e nella parodos, infatti, era stata presente solo nella narrazione della nutrice o attraverso i suoi lamenti, che provenivano dall’interno della casa. Ora Medea, nel I episodio, presenta direttamente la sua triste vicenda rivolgendosi alle donne corinzie che compongono il coro: Giasone l’ha abbandonata e sta per sposare un’altra donna.

Νel suo discorso, Medea appare calma e padrona di sé, provocando un effetto-sorpresa sul pubblico, che ha appena udito le sue urla di disperazione dall’interno della casa; si tratta di un modulo tipico di Euripide e in particolare del personaggio di Medea: da una passionalità scomposta e disarticolata si passa infatti, con stacco brusco e sorprendente, ad un lucido e rigoroso discorso, che si segnala per la forza dell’argomentare e la razionalità dei nessi logici. Si assiste fin da qui a quella coesistenza tra “passionalità” e “ragione” (θυμός e βουλεύματα), che Medea stessa dichiarerà quale tratto caratterizzante della sua personalità e del suo operare (cfr. vv. 1078-1080).

Medea esordisce con affermazioni dolorose; per lei è finita ogni gioia di vivere: «La sciagura mi ha colpito all’improvviso, mi ha spezzato il cuore; è finita, ho perduto la gioia di vivere, voglio solo morire. Lui, che era tutto per me, si è rivelato il peggiore degli uomini» (vv. 225-227, trad. Albini).

Subito dopo Medea analizza la condizione femminile, definendo le donne “le più infelici” (v. 231) fra le creature: esse infatti devono, con grande dispendio economico, trovarsi uno sposo, che può risultare buono o cattivo (occorrerebbe essere delle indovine per prevederlo). Pur accennando alla propria personale condizione, Medea si presenta astutamente come parte di un insieme; in tal senso, la prima persona plurale (γυναῖκές ἐσμεν, “noi donne siamo…”, v. 231) è come una richiesta di complicità rivolta alle donne corinzie: in nome della comune identità femminile, l’appartenenza etnica, greca o barbara, rimane secondaria.

Rispetto alla condizione femminile, ben diversa è la vita dell’uomo; egli infatti, se annoiato o infastidito dalla vita familiare, può cercare fuori casa svago e distrazione. In effetti tali divagazioni non mancavano, come dimostra l’autore dell’orazione pseudo-demostenica Contro Neera, che suddivide le donne in tre categorie: 1) cortigiane o etère; 2) concubine; 3) mogli («noi ci teniamo le cortigiane per il nostro piacere, le concubine per la cura quotidiana del nostro corpo, le mogli per la procreazione di prole legittima, e per avere una fida custode del focolare», par. 122, trad. Avezzù). In particolare, le relazioni che i mariti avevano con le “concubine” (παλλακαί) non erano oggetto di riprovazione; gli eventuali figli nati da esse erano considerati “figli liberi” (ἐλεύθεροι παῖδες) e godevano dei diritti civili. Ora, la posizione giuridica di Medea (dal punto di vista di Giasone e del pubblico ateniese) era proprio quella di una “concubina”, trattandosi di una straniera estranea al contesto sociale ellenico; vera sposa dell’eroe, semmai, doveva diventare la figlia di Creonte.

Ai vv. 236-237 Medea afferma: «Separarsi è un disonore per le donne, e ripudiare lo sposo è impossibile». In effetti, nella Grecia dell’età classica erano previsti tre casi di scioglimento del matrimonio: il ripudio, l’abbandono del tetto coniugale da parte della moglie e lo scioglimento da parte del padre della sposa. Il ripudio della moglie da parte del marito (chiamato ἀπόπεμψις o ἔκπεμψις) era sempre possibile, purché il consorte restituisse la dote, che poteva essere utilizzata per un nuovo matrimonio. La donna invece poteva chiedere il divorzio (ἀπόλειψις) solo in casi ben definiti (ad es. crudeltà e infedeltà del marito), con l’intercessione del padre o di un altro cittadino di sesso maschile, presso l’arconte chiamato a registrare la separazione (in proposito, cfr. Plutarco Vita di Alcibiade 8, Pseudo-Andocide Contro Alcibiade 14 e l’orazione demostenica Contro Onetore). Se cercava di ottenere il divorzio da sola, la donna si esponeva al biasimo della collettività.

A questo punto Medea pronuncia l’espressione più “scandalosa”, che ribalta il topos della serena vita delle donne nella quiete domestica: “Dicono che viviamo in casa, lontano dai pericoli, mentre loro vanno in guerra; che follia! È cento volte meglio imbracciare lo scudo piuttosto che partorire una volta sola” (vv. 248-251). Qui, “alla tradizionale divisione dei compiti tra i sessi Medea obietta polemicamente che il parto è di per sé un combattimento rischioso, più pericoloso della battaglia affrontata dall’oplita, contestando in tal modo l’atavico pregiudizio secondo cui il πόνος, ‘la fatica, il travaglio’, è prerogativa esclusiva degli uomini” (G. Tedeschi).

Radicalmente opposta era stata la battuta rivolta da Oreste alla madre nelle Coefore di Eschilo:

ORESTE – Non accusare chi penava in guerra, tu che te ne stavi tranquilla in casa.

CLITEMESTRA – Figlio, è triste per una donna vivere lontana dal marito.

ORESTE – Ma il travaglio dell’uomo nutre chi se ne resta seduto in casa. 

(vv. 919-921, trad. Albini).

Le parole di Medea risultano particolarmente significative: «nell’antica Grecia, la maternità era strettamente legata alla figura femminile, quasi inscindibile: per essere donna, dovevi essere madre, e diventare madre, per quanto doloroso, era la cosa più bella che potesse capitare nella vita. Per Medea non è così: perso Giasone e persa la propria levatura sociale, i figli non servono più a nulla, anzi, la loro presenza continua a ricordarle cosa ormai non ha più e cosa ancora la lega all’uomo che l’ha tradita e abbandonata» (Benedetta Ricaboni).

La situazione, secondo Medea, si complica maggiormente, quando una donna, come avviene nel suo caso, è “sola, senza patria” (in greco ἔρημος, ἄπολις, v. 255); infatti le sono estranei i costumi e gli usi della città che la ospita. In effetti, «la follia di Medea come resistenza deve essere interpretata non solo in relazione al suo status di Altro femminile ma anche in rapporto alla sua condizione di Altro etnico: in altre parole, la pazzia della protagonista tenta di sovvertire non solo le nozioni patriarcali di femminilità ma anche la costruzione xenofoba ed etnofobica dell’identità nazionalista greca» (Aurora Abruzzese).

Va sottolineato peraltro come la portata “eversiva” delle affermazioni di Medea sia attenuata (e resa tollerabile alle orecchie del pubblico antico) proprio dal fatto che Medea è una barbara, non inquadrabile negli schemi culturali dell’Ellade.

Medea rileva infine la precarietà della sua situazione rispetto alle donne corinzie, che possono trovare conforto negli affetti e nella famiglia; si propone allora di ottenerne il silenzio per architettare in tutta sicurezza il suo piano di vendetta: «Da te vorrei una cosa sola: se mai trovassi un modo, un mezzo (πόρος τις μηχανή τ’) per far pagare a quell’uomo il male che mi ha fatto, tu non parlare, taci!» (vv. 260-263). In particolare il termine μηχανή (v. 260), termine ricorrente nella drammaturgia euripidea, indica l’“espediente” astuto che risolve una situazione difficile.

La rhesis si chiude con un’immagine che capovolge le affermazioni iniziali: alla descrizione dell’assoggettamento sociale e giuridico della donna si contrappone, alla fine, l’immagine di una creatura sanguinaria, la quale non tollera che un sopruso resti invendicato: «Di solito una donna è piena di paura, non sa usare la forza, trema al vedere un’arma; ma quando è offesa nei suoi diritti di moglie, non c’è cuore più sanguinario del suo» (vv. 263-266).

Come afferma Laura Correale, “le violente parole che concludono il discorso di Medea non devono apparire in contraddizione con quanto la protagonista ha appena affermato sulle donne. […] L’affermazione dell’estrema crudeltà cui sa giungere la donna offesa nella sfera che le è propria (quella degli affetti familiari e dell’eros coniugale) sembra anzi riaffermare la potenza di questa creatura esclusa dalla vita sociale e costretta a esplicare tutte le sue forze nel proprio ambito. In questi versi finali della rhesis di Medea, emerge una contrapposizione tra la forza fisica, qualità virile di fronte alla quale la donna appare debole e addirittura vile, e la sanguinaria potenza della mente femminile capace di difendere a ogni costo quel che per lei è più importante”.

Questo passo è stato sempre letto in chiave fortemente “femminista”: quando la “Medea” euripidea fu rappresentata a Londra al Savoy Theatre il 22 ottobre 1907, nella traduzione di Gilbert Murray, le “suffragette” inglesi fecero dell’antica eroina greca la loro bandiera nella rivendicazione dei diritti delle donne.

Alla lettura “femminista” di Medea si oppongono però pareri contrari, come questo espresso da Claudia Sarritzu in un interessante articolo del giugno 2022: «Medea non è femminista. Non è rivoluzionaria. È figlia del patriarcato. Non contesta nessuna regola. Le usa a suo vantaggio per vendicarsi. Perché fa parte dell’ingranaggio. Un mondo di uomini, costruito per gli uomini. E la vendetta cosa è, se non uno dei tanti bulloni di questo sistema impietoso e miserabile dove le donne sono solo rotelle che tengono tutto in funzione ma non hanno nessun beneficio né gratitudine? L’ira funesta di Achille non è stata mai concessa alle ragazze. Alle femmine è concesso il silenzio o il suicidio come atto di estremo dolore. Le donne non uccidono, non si vendicano, al massimo sacrificano il proprio respiro. Medea è feroce, strega, crudele? No. Medea fa il maschio. Come Agamennone che uccide Ifigenia ma nessuno grida allo scandalo. Perché lui lo fa per vincere la guerra. Ma la guerra cosa è se non una strage di figli? Medea tradita non si squarcia il petto come Madame Butterfly. Medea non accetta che Giasone continui la sua vita mentre ha distrutto la sua. È figlia del patriarcato e lo applica alla lettera. Cosa disintegra un uomo dalle fondamenta? Cancellare la sua stirpe. Lui l’ha sedotta, portata con sé in una patria che non era la sua, istigata a uccidere suo fratello. Poi abbandonata per un’altra donna. Medea, la strega, ucciderà Glauce, la nuova fidanzata del suo vecchio amore e ammazzerà i suoi stessi figli.  Quanto è maschilista Medea che accetta il modello barbaro e lo riproduce alla perfezione, scioccando il mondo da generazioni solo perché a fare questo è una donna, una madre? Una che non si uccide ma uccide il proprio sangue? Quanto è ripugnante il patriarcato visto da quest’altra prospettiva? Ora lo capite il genio di Euripide? Medea ci insegna ancora una volta che se i maschi vengono cresciuti come Giasone, ogni tanto emergerà una Medea. E ogni volta resteremo impietriti, zoppi e spaventati» (www.globalist.it).

P.S.: La foto mostra Mariangela Melato nella parte di Medea, nell’allestimento di Giancarlo Sepe (1989).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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