Anche noi: “Aspettando i barbari”

La tradizione letteraria dell’antica Grecia è un tema con cui tutti i poeti neogreci devono fare i conti; essa però per Konstandinos Kavafis (1863-1933) sembra escludere il periodo classico. Il poeta infatti (nativo di Alessandria d’Egitto come il nostro Ungaretti) rivolge la sua attenzione quasi esclusivamente all’età ellenistica ed imperiale, con il suo “melting pot” di uomini e costumi, le sue raffinatezze, le sue morbosità e soprattutto la sua condizione di lunga, interminabile ed inevitabile decadenza.

In tal senso, particolarmente significativa è la celebre lirica “Aspettando i barbari” (Περιμένοντας τοὺς βαρβάρους) del 1908, nella quale emerge un senso di inerzia e di accidia di fronte all’arrivo (ansiosamente atteso ma poi non avvenuto) di fantomatici “barbari” che potrebbero rappresentare la “soluzione” ai problemi di una città “civile” (o, forse, dell’individuo Kavafis, anch’egli in perenne e vana attesa di un intervento “esterno” che lo liberi dal tormento esistenziale).

Il contesto della lirica è alquanto sfumato. Nella piazza principale di una capitale senza nome (Roma o Costantinopoli? in fondo importa poco…), le massime autorità attendono l’arrivo delle truppe barbariche in atteggiamento remissivo, pronte a consegnarsi agli invasori senza opporre la minima resistenza, anzi rendendo loro omaggio.

L’imperatore, infatti, ha una pergamena da offrire al capo dei barbari, con “una serie di titoli e di epiteti” (v. 15); i due consoli e i pretori sono preziosamente vestiti ed ingioiellati per “fare colpo” (v. 23) sugli invasori; gli oratori soltanto si tengono lontani dalla piazza, consapevoli che i barbari “non hanno voglia di eloquenza e di arringhe” (v. 27).

Il finale però presenta un deludente “aprosdòketon”, cioè un evento del tutto inatteso: i barbari non arrivano, anzi qualcuno ha riferito “che di barbari non ce ne sono più” (v. 34).

Ne deriva nei cittadini un terribile smarrimento, un senso di profonda delusione, dato che viene meno la possibile “soluzione” (λύσις, v. 36) ai loro problemi; nessuno, dunque, porrà rimedio alla loro crisi profonda, al senso paralizzante di inazione che li attanaglia.

Il testo si presta a diverse chiavi di lettura, che forse però – anziché essere contrapposte – dovrebbero essere sovrapposte l’una all’altra.

Una prima interpretazione inquadra la poesia, alla lettera, nel momento della decadenza e del crollo finale dell’antico impero romano, allorché una civiltà ormai esaurita crollava sotto i colpi delle invasioni barbariche. Però in oriente l’impero romano non cadde fino al 1453 ed i “barbari” cui si allude nella lirica non possono essere i Turchi che conquistarono in quell’anno Costantinopoli, anche perché il contesto storico appare, sia pur nella sua genericità, “antico” e collegabile ai primi secoli dell’era cristiana.

L’interpretazione tradizionalmente più fortunata vede nel componimento la metafora della condizione del poeta, il suo isolamento in una situazione avvilente e la sua vana illusione che qualcosa, giungendo “da fuori”, dia una svolta alla sua esistenza. La lirica costituirebbe allora una sorta di beckettiano Aspettando Godot, in cui l’animo di Kavafis appare incline a sperare in soluzioni “esterne” alla sua tormentosa condizione di inerzia, piuttosto che ad una consapevole assunzione di responsabilità e ad un’azione decisa e risolutiva.

Perché rileggere ora questi versi?

Perché anche noi, in questi giorni, “aspettiamo i barbari”.

Ci siamo convinti, a torto o a ragione, di essere stati mal governati, mal amministrati, mal rappresentati.

Abbiamo accumulato delusioni, diffidenze (in quale Paese si cambiano tre volte le coalizioni di governo in una stessa legislatura e due volte con lo stesso presidente del consiglio?), disaffezione alla politica e ai suoi rappresentanti.

Come sempre accade, abbiamo fatto ringalluzzire le opposizioni, ascoltando le facili sirene delle proteste più di quanto abbiamo dato retta ai (più o meno coerenti) programmi governativi.

Proprio per questo mi fido più dei sondaggi (che ieri davano la coalizione di destra-destra al 49% alle prossime elezioni politiche) che delle esternazioni antiberlusconiane, antisalviniane e soprattutto antimeloniane dei social. Non si contano, a mio parere, quelli che a parole esternano preoccupazione e disappunto per la prevedibile vittoria dei conservatori populisti e sovranisti, ma magari nel segreto dell’urna sfogheranno le loro paturnie votandoli.

Subentra quindi in noi la stessa sfiducia di quei cittadini che aspettavano i barbari “riuniti in piazza”.

Che senso ha fare leggi? “Quando verranno i barbari le faranno loro”.

E che fa “il nostro imperatore” (Sergio I, patrimonio dell’umanità)? Ha già pronta la pergamena da offrire al capo (o alla “capa”) dei barbari.

E come saranno questi barbari? Beh, facile immaginarlo: amano e ameranno lo splendore dell’oro e dell’argento, si faranno incantare dalle apparenze seducenti: “queste cose fanno colpo sui barbari”.

E a che serve ammonire, parlare, discutere? “Oggi arrivano i barbari / e loro non hanno voglia di eloquenza e di arringhe”.

Magari, anche per noi, questa lunga giornata di attesa inerte si concludesse con una sorpresa sconvolgente!

Magari, anche per noi, i barbari non arrivassero!

Ma – in questa evenienza così inaspettata – non dovremmo tornarcene a casa “pensierosi”. Dovremmo ringraziare il destino che ha fatto perdere i barbari per strada.

Perché quella gente, dobbiamo capirlo bene, non era una soluzione.

ASPETTANDO I BARBARI (di K. Kavafis)

– Cosa aspettiamo riuniti in piazza?

Oggi devono arrivare i barbari.

– Perché tanta inerzia nel Senato?

E perché i senatori siedono e non legiferano?

Perché oggi arrivano i barbari.                        

Che leggi hanno ormai da fare i senatori?

Quando verranno i barbari le faranno loro.

– Perché il nostro imperatore si è alzato cosi di buon’ora

e se ne sta seduto sul trono, in posa solenne,

presso la porta maggiore della città, con la corona in testa?       

Perché oggi arrivano i barbari.

E l’imperatore è in attesa di ricevere

il loro capo. E anzi ha già pronta

una pergamena da offrirgli. Là

gli ha conferito una serie di titoli e di epiteti.        

– Perché i nostri due consoli e i pretori

sono usciti oggi con le toghe rosse ricamate?

Perché portano bracciali tempestati d’ametiste,

e anelli pieni di splendidi luccicanti smeraldi?

Perché proprio oggi brandire le preziose picche          

con gli stupendi ceselli d’oro e d’argento?

Perché oggi arrivano i barbari:

e queste cose fanno colpo sui barbari.

– Perché non vengono anche gli ingegnosi oratori

a tenere i loro discorsi, a dite la loro, come sempre?   

Perché oggi arrivano i barbari

e loro non hanno voglia di eloquenza e di arringhe.

– Perché a un tratto tutta questa apprensione, tutta questa

agitazione? (Come si sono fatte serie le facce).

Perché si svuotano rapidamente le strade e le piazze    

e tutti se ne tornano a casa pensierosi?

Perché si è fatta notte e i barbari non sono comparsi.

Anzi qualcuno è venuto dai confini

e ha detto che di barbari non ce ne sono più.

E adesso cosa sarà di noi senza i barbari?         

Quella gente, dopotutto, era una soluzione.

(trad. di T. Sangiglio)

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *