Gramsci “partigiano”

Anche Antonio Gramsci ebbe il suo 25 aprile. Ma quella data non ebbe nulla di gioioso per lui: infatti il 25 aprile 1937, proprio nel giorno in cui sarebbero state sospese le misure di detenzione nei suoi confronti (era stato arrestato dal governo fascista l’8 novembre 1926), il leader comunista fu colpito da un’emorragia cerebrale. Due giorni dopo, prima dell’alba del 27 aprile 1937, Gramsci si spense, assistito dalla cognata Tatiana Schucht, che mise in salvo i suoi “Quaderni” portandoli all’ambasciata sovietica. Il funerale ebbe luogo il 28; il corpo fu cremato al cimitero del Verano e da allora l’urna con le ceneri è custodita al Cimitero acattolico di Roma.

Gramsci dunque non vide il 25 aprile di pochi anni dopo e non poté assistere a quella Liberazione che aveva atteso e sperato per tanti anni.

Curiosamente, però, in un suo scritto dell’11 febbraio 1917, “La città futura” (pubblicato a cura della Federazione giovanile piemontese del Partito Socialista), Gramsci aveva dissertato sul termine “partigiano”, utilizzandolo ancora nel senso generico di “colui che prende posizione politica, che parteggia per un’idea politica” e non nel senso in cui oggi lo adoperiamo più comunemente (cioè con riferimento specifico a chi combatté nella Resistenza italiana contro i nazifascisti).

In quell’antico scritto del 1917, antecedente perfino alla rivoluzione bolscevica ma contemporaneo alla prima guerra mondiale (che in quell’anno fu particolarmente tragica per l’Italia, con la disfatta di Caporetto), Gramsci prende fortemente posizione contro chi in politica è “indifferente”, contro chi accetta tutto e cala la testa a tutto, ritenendo che i problemi pubblici non siano affar suo: «Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti».

Per Gramsci l’indifferenza «è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde».

Nonostante ciò, con amarezza il pensatore osserva: «l‘indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. […] Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare».

Gramsci smaschera poi il concetto di “fatalità”, poiché a suo parere gli eventi non sono mai frutto di un caso cieco, bensì conseguenza diretta delle scelte degli uomini: «La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. […] I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare, la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile».

A questo punto Gramsci richiama tutti, con forza, al “senso del dovere” (con un monito che molti degli attuali politici “progressisti” dovrebbero far proprio e difendere con le unghie e coi denti): «Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano».

La requisitoria dell’intellettuale sardo a questo punto si fa incalzante: «Odio gli indifferenti anche perché mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime».

Gramsci dunque rinnega il partito degli “indifferenti” definendosi “partigiano”; e anche se lo dice “ante litteram” e in senso alquanto diverso, molti dei “partigiani” del 1945 avrebbero potuto pienamente riconoscersi in lui: «Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano. […]. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti».

Dovrebbe leggere queste righe quel 37% di (pseudo)cittadini italiani che non ha ritenuto di recarsi alle urne alle elezioni politiche dell’anno scorso, cioè i membri del primo partito italiano, il P.A.I. (Partito astensionista italiano).

Dovrebbe riflettere su questi temi anche chi, nella ricorrenza del 25 aprile, tende a sbuffare, a dire che non se ne può più di ripetere ogni anno le stesse cose, a infastidirsi (perfino) sentendo cantare “Bella ciao”, forse perché anche lui è uno dei tanti che una mattina si è svegliato e, cascando dalle nuvole, ha trovato “l’invasor”; o forse perché quella canzone di lotta per la libertà è stata ormai banalmente identificata con la sigletta di un’ideologia politica specifica.

Dovrebbe meditare su queste parole chi non si scandalizza più di niente, digerendo senza problemi esternazioni sempre più imbarazzanti e derubricandole a “equivoci”, accettando (un passo alla volta) l’archiviazione di quelli che erano i pilastri della democrazia e della libertà, stendendo un comodo velo di oblìo sugli ideali da cui è ripartito il nostro Paese dopo le macerie della dittatura e della guerra.

Nel frattempo, onestamente, seriamente, pervicacemente, ostinatamente, ognuno continui (in linea con l’esortazione di Gramsci) a “fare il proprio dovere”, anche quando si vede che molti non lo fanno e anche quando il “dovere” viene visto come un optional o come una ridicola sopravvivenza di antichi moralismi.

E ognuno, liberamente e come meglio crede, “parteggi”, sia “partigiano”, prenda posizione: ma con consapevolezza critica e rigore morale, sempre.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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