“Il re di Asìne” di Seferis

Camminare fra le rovine di una città antica è una delle esperienze più belle ed emozionanti che si possano vivere; questo, almeno, per chi ha vivo il senso del tempo che passa, per chi avverte la frattura lancinante fra le epoche, per chi sente di ripercorrere il cammino di altre donne e altri uomini, vissuti in epoche lontane e diverse, immaginandone le parole, i gesti, la vita.

A me è capitato ovviamente tante volte: e più delle imponenti rovine di Pompei o Efeso, mi colpisce sempre il sito archeologico di Solunto, a venti chilometri ad est di Palermo, sulle pendici del versante sud-orientale del Monte Catalfano, di fronte allo splendido Capo Zafferano. Quando si arriva in questo meraviglioso posto, dove il tempo pare essersi fermato, non si sa cosa guardare prima: le rovine dell’antica città fenicia, ellenistica e romana, o la spettacolare vista sul mare.

Le rovine di Solunto (Santa Flavia, Palermo)

La stessa sensazione straniante, lo stesso impressionante “gap” fra passato e presente è al centro di una delle più belle liriche del poeta greco Yorgos Seferis (Γιώργος Σεφέρης), Premio Nobel per la letteratura nel 1963, nato a Smirne nel 1900. La poesia si intitola “Il re di Asìne” ed ha una duplice data: “Asìne, estate 1938 – Atene, gennaio 1940”.

Yorgos Seferis (1900-1971)

Asìne (Ἀσίνη) era un’antica città greca dell’Argolide, fondata secondo la tradizione da Driopi venuti dalla Tessaglia o dalla zona del Parnaso; è nominata fugacemente nel catalogo delle navi omerico: Οἳ δ’ Ἄργός τ’ εἶχον Τίρυνθά τε τειχιόεσσαν / Ἑρμιόνην Ἀσίνην τε, βαθὺν κατὰ κόλπον ἐχούσας, “Quelli che avevano Argo e Tirinto murata, / Ermione e Asìne sul golfo profondo…” (II 559-560). Come si vede, ad Asìne c’è solo un riferimento sfuggente, istantaneo, un nome che appare e dilegua in un attimo. Ecco cosa ci resta di un passato lontano: frammenti, flash memoriali, semplici isolate parole.

I versi omerici che citano Asine

La posizione della città fu precisata dalle notizie di Strabone e di Pausania; essa fu poi identificata sull’attuale colle di Kastrakì; gli scavi degli archeologi svedesi, alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, hanno portato alla luce l’acropoli e torri monumentali, dal periodo elladico più antico all’età romana. In epoca storica la città fu rasa al suolo dagli Argivi per aver favorito il re di Sparta Nicandro durante la prima guerra messenica (fine VIII sec. a. C.).

Un’ulteriore notizia riferisce che alcuni abitanti di Asìne, sfuggiti alla distruzione della loro città, ricevettero dagli Spartani, come compenso per il loro aiuto, un tratto di terra sulla costa occidentale del golfo messenico, dove fondarono una nuova Asìne su uno stretto promontorio nel golfo; da questa città prese nome il golfo intero. Questo racconto tuttavia potrebbe essere una semplice leggenda, indotta dalla omonimia tra le due Asìne.

Il Peloponneso: la nuova Asine si trova a sud-ovest, nella Messenia meridionale

Il poeta visita le rovine della cittadella di Asìne. Esplorando l’acropoli, cerca ossessivamente qualche indizio, una traccia concreta lasciata dal re di Asìne. Il mare è vicino, ma non appare nessuna “creatura viva” (κανένα πλάσμα ζωντανό, v. 12); in particolare è svanito nel nulla “il re di Asìne” (ὁ βασιλιὰς τῆς Ἀσίνης, v. 13), ignorato da tutti e ricordato di sfuggita solo da Omero: “sconosciuto e scordato da tutti, anche da Omero / – una parola sola nell’Iliade e mal certa – / gettata qua come la funebre maschera d’oro” (vv. 14-16).

L’acropoli di Asine

Il poeta però ha “toccato” la maschera d’oro del re, ne ha sentito il suono, ma ha avvertito “sotto la maschera un vuoto”: “Il re d’Asìne, un vuoto sotto la maschera, sempre / con noi, sempre con noi dovunque, dietro un nome: / “Ὰσίνην τε… Ὰσίνην τε” (vv. 20-22). In effetti si ha qui una licenza poetica (nel luogo non fu ritrovata alcuna maschera); essa consente però a Seferis di esprimere il disperato tentativo di “recuperare” l’assenza del sovrano.

Il vuoto è “dovunque” (v. 31): alle recenti visionarie immagini del presente (un uccello che ha preso il volo l’inverno precedente, una giovane donna partita invece in estate, un’anima disperata che ha cercato “pigolando” il mondo sotterraneo, un paese assolato) si contrappongono gli antichi monumenti, mentre emerge potentemente la tristezza attuale, “la pena d’ora” (τὴ σύγχρονη θλίψη, v. 39).

Il poeta esita, annaspa, “s’attarda” (ὁ ποιητὴς ἀργοπορεῖ, v. 40), fissa “le pietre” dell’antica città. Ne nasce una serie di domande angoscianti, sul senso e la possibilità dell’esistere: se tutto svanisce, se delle civiltà di un tempo restano solo i ruderi, può ancora sussistere “il moto del viso, la figura dell’affetto / di coloro che vennero meno / sì stranamente nella nostra vita / e degli altri, rimasti ombre di flutti, / pensieri nell’infinità del mare?” (vv. 45-48).

Le rovine di Asìne

Forse no (μήπως ὄχι). Forse non resta altro che “la nostalgia del peso d’un’esistenza viva” (v. 49). Forse anche noi, esseri umani di oggi, “stiamo senza consistenza, chini / come i rami del salice agghiacciante, / traboccati in un tempo costante e disperato” (vv. 50-51).

Il poeta, smarrito, esprime il suo vuoto esistenziale: “Il poeta, un vuoto” (Ο ποιητής ένα κενό, v. 54).

Nell’ultima immagine però, sorprendentemente, l’antico re sembra materializzarsi, in modo improbabile, in un “pipistrello spaventato”: “dal profondo / della caverna un pipistrello spaventato (μιά νυχτερίδα τρομαγμένη) / picchiò sopra la luce come freccia allo scudo: / “Ὰσίνην τε… Ὰσίνην τε” / Forse era quello il re d’Asìne / che così attentamente cercavamo su questa / acropoli, sfiorando con le dita / forse il tatto di lui sopra le pietre” (vv. 56-61).

Chissà se, a distanza di secoli, l’antico re è rinato come pipistrello. Chissà se vola ancora, “spaventato”, fra quelle rovine millenarie, per ricordare agli uomini di oggi la sua lontana esistenza.

La scrittura del poeta è, come sempre in lui, complessa, sfuggente, oscillante fra i dati realistici (molto evanescenti) e il flusso del pensiero, le associazioni ardite, i collegamenti sottintesi. Il tono è elevato e solenne; numerose sono le similitudini e le metafore.

Questa lirica evidenzia da un lato l’ansia potente degli autori neogreci di rivivere il loro passato esaltante, di ritrovarne le tracce con affannosa dedizione, dall’altro la constatazione dello iato ineludibile con il presente, con il peso dei secoli trascorsi. Del passato resta solo un miraggio lontano, difficile anche da sognare.

In un suo racconto la bizantinista Silvia Ronchey ha avanzato la curiosa ipotesi che il re di Asìne fosse lo stesso Omero, che così si sarebbe “mascherato” all’interno della sua opera (cfr. “La Stampa”, 17.07.2004). Eccone la conclusione: “Vent’anni durò la guerra di Troia, e negli ultimi gli occhi del re di Asìne cominciarono a spegnersi. Continuando a scrutare ogni cosa, non vide che ombre. Quando alla fine la città fu in fiamme, colse solo un riflesso rossastro, e poi restò il buio brulicante di sciami di punti luminosi, tanti quante le costellazioni del cielo notturno, tanti quanti gli eroi. Perché il re di Asìne era diventato cieco”.

Ecco il testo integrale della poesia nella traduzione di Filippo Maria Pontani:

IL RE DI ASINE

Tutto il mattino scrutammo d’intorno la rocca,

cominciando dal lato dell’ombra, dove il mare verde

senza barbagli, petto di pavone ucciso,

ci accolse come il tempo senza vuoti.

Le vene della rupe calavano dall’alto,

torti vigneti nudi, tutti sarmenti, ravvivati al tatto

dell’acqua, come l’occhio seguace contrastava

al logorante dondolio

perdendo forza sempre.

Dalla parte del sole un lungo litorale spalancato,

e la luce forbiva diamanti alle muraglie.

Non v’era creatura viva, fuggiaschi i palombacci

e il re d’Asìne, che cerchiamo da due anni,

sconosciuto e scordato da tutti, anche da Omero

– una parola sola nell’Iliade e mal certa –

gettata qua come la funebre maschera d’oro.

La toccasti, ricordi il suo rimbombo? vuoto nella luce,

un doglio secco nel suolo scavato;

eguale era il rimbombo del mare ai nostri remi.

Il re d’Asìne, un vuoto sotto la maschera, sempre

con noi, sempre con noi dovunque, dietro un nome:

“Ὰσίνην τε… Ὰσίνην τε”

I suoi figli

statue, battiti d’ali le sue brame e il vento

nei vuoti dei suoi pensieri, e le sue navi

attraccate in un porto sparito.

Sotto la maschera un vuoto.

Di là dai grandi occhi, delle curve labbra, dai riccioli,

rilievi sul coperchio d’oro del nostro esistere,

un punto tenebroso che viaggia come il pesce

nella bonaccia mattinale del mare, e tu lo scorgi:

sempre un vuoto, dovunque, con noi.

E’ l’uccello svolato l’altro inverno

con l’ala rotta,

riparo di vita,

e la giovane donna fuggita per giocare

con i denti canini dell’estate,

l’anima che frugò il mondo di sotterra pigolando,

e il paese, una larga foglia di platano a deriva

nel torrente del sole,

con le reliquie antiche e con la pena d’ora.

Il poeta s’attarda a mirare le pietre e si domanda:

esiste

in mezzo a queste linee smozzicate,

apici, punte, curve, cavità

esiste

quassù dove si incontra il passo della pioggia

e del vento e del guasto,

esiste il moto del viso, la figura dell’affetto

di coloro che vennero meno

sì stranamente nella nostra vita

e degli altri, rimasti ombre di flutti,

pensieri nell’infinità del mare?

O forse no, forse non resta, se non il peso, nulla,

la nostalgia del peso d’un’esistenza viva,

qui dove stiamo senza consistenza, chini

come i rami del salice agghiacciante,

traboccati in un tempo costante e disperato?

(lenta la gialla corrente cala

sradicati giunchi nel fango,

parvenza d’impietrita forma, risoluzione

d’amarezza perenne). Il poeta,

un vuoto.

Scudato il sole saliva pugnando, e dal profondo

della caverna un pipistrello spaventato

picchiò sopra la luce come freccia allo scudo:

“Ὰσίνην τε… Ὰσίνην τε”

Forse era quello il re d’Asìne

che così attentamente cercavamo su questa

acropoli, sfiorando con le dita

forse il tatto di lui sopra le pietre.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

2 commenti

  1. La città di Asine cui si riferisce Seferis è quella dell’Argolide, distrutta intorno alla metà dell’ VIII secolo a.C. dagli archivi.
    L’ Asine sul golfo di Messenia fu costruita dai profughi della prima.
    Ovviamente, il riferimento di Omero non può che riguardare quella dell’Argolide.

    1. La ringrazio della segnalazione; ho provveduto a correggere l’iniziale erroneo riferimento alla Messenia. Seferis sicuramente si riferisce, come dice Lei, all’antica città nell’Argolide; ne viene ulteriormente accentuata la dimensione di “poesia delle rovine”, visto il contesto di una città già svanita e ricostruita nell’antichità.

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