I dolci e l’amaro: un esempio di cortesia palermitana

Stamattina, come in genere faccio la domenica, sono andato a comprare il mio vassoietto di dolci in una pasticceria vicino casa; mi è già capitato di parlare bene di questo piccolo negozio di dolci, che ha il merito di mantenere molte tradizioni del passato, riproponendo nel corso dell’anno numerosi gelati e dolci della tradizione palermitana, anche quelli ormai poco richiesti e poco reperibili.

Unico neo di questa pasticceria è la “scucivulaggine” e la pochissima cortesia dei proprietari, due signori anziani e due signore; in genere il cliente non viene salutato mai, né all’arrivo né dopo l’acquisto.

Oggi, ad esempio, dopo aver ricevuto il mio vassoietto con due babà, tre “sfingette” con crema di ricotta, tre sciù e due cassatine, ho pagato i 9 euro richiesti; dopo avermi dato il pacchetto, la signora di turno – senza proferire verbo – è rientrata all’interno in cucina.

A questo punto, siccome oggi mi sono svegliato anche io con la luna storta, mi sono piantato davanti al bancone senza uscire.

Dopo un paio di minuti la signora è ricomparsa e, ritrovandomi là davanti col vassoietto dei dolci in mano, mi ha guardato come un alieno sbarcato da Marte; ovviamente non ha articolato verbo neanche stavolta, ma sono stato io a dirle: “No, niente, siccome lei ha dimenticato di salutarmi, sono rimasto qui ad aspettare. Un salutino, in fondo costa poco”. Dopo di che, ho tuonato un fragoroso e sorridente “Buongiorno”.

Nessuna risposta, se non forse il pensiero – balenato alla mente della mia interlocutrice non locutrice – di chiamare la neuro.

A questo punto sono uscito a riveder le stelle (anzi le stalle palermitane, visti i cumuli d’immondizia domenicale in agguato all’angolo).

Per me non è una novità.

Una simile scena si svolge spesso dal panettiere:

1) entrata del cliente e suo saluto (“Buongiorno”);

2) nessuna risposta: manco fosse entrato un fantasma;

3) richiesta (“quattro bocconcini”);

4) spesso, ripetizione della richiesta quando non sembra sia stata udita (“Allora, mi dà quattro bocconcini?”);

5) consegna dell’ambita preda;

6) pagamento del conto (“ce l’ha scambiati?” immancabile battuta del mutànghero cassiere);

7) saluto finale del cliente (“Buongiorno”);

8) nessuna risposta.

La scena si replica quasi quotidianamente in una larga percentuale di panifici palermitani.

La cosa vale, sia chiaro, per qualunque tipo di negozio: entrata del cliente e reazione zero da parte dell’esercente che (si badi bene) dovrebbe essere invece esultante per l’arrivo di qualcuno che riempirà le sue tasche. Invece, preso in tutt’altra attività, il negoziante (semplicemente) non “vede” il cliente, oppure, se lo vede, lo sente come uno scocciatore venuto a infrangere la sua privacy.

La musica cambia, ovviamente, se il cliente appartiene ad una delle seguenti categorie:

1) parente (ammesso che sia un parente con cui si hanno rapporti);

2) amico;

3) persona “conosciuta” (ma deve essere conosciuta da tempo e considerata ormai pienamente affidabile, avvicinandosi così alle precedenti due categorie);

4) persona comunque ritenuta “utile” (medico, finanziere, carabiniere, esattore delle tasse, mafioso, ecc.).

Se appartiene ad una di queste categorie privilegiate, il cliente viene visto eccome! Anzi, viene visto solo lui (alla faccia di altri eventuali clienti presenti) e solo a lui è rivolta l’attenzione melliflua del proprietario (“A disposizione sempre!”).

Siamo fatti così…

Sarà colpa delle troppe dominazioni passate, per cui non ci va ormai di “servire” nessuno. Oppure dipenderà dalla nostra idiosincrasia e diffidenza per tutto ciò che esula dal nostro orticello privato (e il cliente, in quanto tale, è “altro” da noi).

Forse, più semplicemente, per molti di noi il rispetto dell’altro è una chimera, un oggetto sconosciuto, una sorta di “diminuzione” del nostro essere.

Chiudo citando due mini-aneddoti a confronto (rigorosamente autentici e sempre validi, anche se risalgono a qualche anno fa…).

1. Autobus romano, ora di punta, moltissime persone accalcate; una signora scende. L’autista improvvisamente ferma il mezzo, scende, chiama la signora e le dice: “‘A signò, ha perso er guanto!”; e le porge il guanto che le era caduto; sì, perché l’autista, attento (chissà perché…) al mondo circostante, glielo aveva visto cadere.

2. Autobus Ast, vecchio capolinea di Piazza Lolli, partenza (in ritardo, come spesso accade; ma questo è un altro discorso…) del bus extraurbano per Bagheria. Un vecchietto insegue a fatica il bus già in movimento e implora l’autista di fermarsi. L’autista palesemente disgustato sbuffa, apre le porte e sentenzia: “U miègghiu stàvamu lassannu” (“Stavamo lasciando il meglio”).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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