Altri quattro vocaboli siculo-italiani

Continuiamo, anche nel nuovo anno 2024, la rassegna di vocaboli del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.

Eccone altri quattro.

1) “Allicchettato” – Nella zona di Palermo significa “elegante”, con riferimento ad un abbigliamento particolarmente curato: ad esempio, in occasione di una ricorrenza, ci si veste “tutti allicchettati”.

Ciò avviene soprattutto quando si è “di matrimonio” (chissà, in analisi logica, che complemento è “di matrimonio”…): infatti ricordo che l’unica volta che misi giacca e cravatta nell’anno scolastico in cui insegnai alla Scuola Media di Bolognetta, i miei alunni mi dissero: «Miiiiiiiiiiiiii, che è allicchettato oggi, uessù [cioè “professore”]; ma che è, di matrimonio?».

In altre zone della Sicilia si dice anche “alliffatu” o “alliccatu”: un esempio si trova nel romanzo “Il metodo Catalanotti” di Andrea Camilleri. Qui l’autore descrive la passione senile di Montalbano per la sua collega Antonia Nicoletti; in questa occasione il commissario si prende cura, come mai ha fatto prima, del suo abbigliamento e del suo aspetto fisico: acquista un costoso dopobarba in profumeria, va nel “cchiù liganti negozio mascolino di Vigàta” ove compra tre nuove camicie, fa una sosta dal barbiere, compra un nuovo abito spezzato e un paio di scarpe inglesi. Quando arriva in commissariato, è irriconoscibile: «Montalbano niscì fora che pariva un figurino, aliganti, profumato, con le scarpi novi che sbrilluccicavano. […] Tutti stavano per rapriri la vucca per parlari ma ristaro ‘ngiarmati a taliarlo. Mai avivano viduto al commissario accussì alliccato» (cfr. il mio volume “Camilleriade”, scritto con Vito Lo Scrudato e Bernardo Puleio per Diogene Multimedia, a p. 235).

Una volta, ci si vestiva “allicchettati” (o per lo meno più dignitosamente del solito) anche quando si andava al lavoro in ambienti che lo richiedevano (ad es. uffici e scuole), quando si faceva qualche visita (per rispetto delle persone visitate), quando era festa; anche chi non era benestante ci teneva al decoro del suo aspetto almeno in certe occasioni e nelle feste comandate. Ma il nostro ineffabile secolo XXI è riuscito ad annichilire (fra le tante altre cose) ogni scrupolo in materia: dunque oggi, chi si veste “allicchettato”, può apparire come un obsoleto “dandy” démodé.

2) “Sbrizziare” – Stamattina a Palermo “sbrizzìa”, cioè “pioviggina”; il verbo “sbrizziari” viene così spiegato (nel suo strambo italiano) da Antonino Traina: «leggermente bagnare facendo saltare goccioli d’acqua con checchessia, […] piovere leggermente».

Certo, una “sbrizziatina” ha il vantaggio di non disturbare troppo chi deve uscire, che può anche fare a meno dell’ombrello, però non risolve i problemi della siccità; gli invasi della Sicilia in questo momento sono semivuoti e stanno già scattando in alcune zone i piani di razionamento delle forniture idriche: ci vorrebbe altro che una “sbrizziatina”! Occorrerebbe una pioggia “ad assuppaviddano”, cioè continua e consistente anche se non devastante, “all’antica” insomma: ma anche la pioggia “giusta” appartiene ormai all’altro secolo…

3) “Stonato” – In siciliano questo aggettivo, nell’uso comune, non ha a che fare con esibizioni canore discutibili e dannose per i timpani: «Oggi mi sento stonato» è frase pronunciata da chi sta male, è “stordito” (“per dispiacere o per altra cagione”, precisa Traina) o semplicemente “distratto”, con la testa tra le nuvole. La cosa può essere fatta notare pesantemente da qualche interlocutore sgarbato: «Ma che sei, stonato? Te l’ho detto mille volte cosa devi fare!».

Andrea Camilleri usa spesso l’aggettivo “stonato” con questo valore: ad es. ne “Il corso delle cose” (1978) Turi Santalucia, svegliato dai carabinieri, è “ancora stonato dal primo sonno” (p. 101).

4) “Tiso” – In dialetto siciliano l’aggettivo “tisu” significa anzitutto “disteso, diritto” (come l’italiano “teso”): si definisce “tisu”, secondo Mortillaro, «chi cammina colla persona ben dritta». Tuttavia a questo significato si aggiunge il frequente valore metaforico di “svelto, non addormentato”: “tisu” è un vecchietto arzillo, un ragazzo ricco di iniziative, una persona sveglia e anche troppo sicura di sé. Esiste anche l’immancabile diminutivo, “tisuliddu”, che attenua (ma non troppo) il valore principale dell’aggettivo.

Per la prevalente componente maschilista del linguaggio siculo, la versione al femminile, “tisa”, assumeva connotazioni negative: per una ragazza, essere troppo “tisa” appariva sconveniente o provocatorio.

C’è anche un verbo derivato, “attisire”, che indica il “riprendersi” da un momento negativo (ad es. una malattia); un genero affettuoso può dire (non si sa con quanta gioia): “mia suocera attisìu”,

Qui mi fermo per oggi: anche se sono “tisuliddu” e non “stonato”, visto che “sbrizzìa” e non c’è motivo di vestirmi “allicchettato”, oggi me la prendo comoda e passo ad altre attività domenicali.

Buona domenica a tutti e buon smontaggio di alberi di Natale e presepi (attività fra le più deprimenti dell’anno…)!

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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