Altri cinque vocaboli siculo-italiani

Continuiamo la rassegna di vocaboli del dialetto siciliano che vengono compresi e utilizzati anche nell’italiano regionale dell’isola e quindi nella conversazione quotidiana.

Eccone altri cinque.

1) “Angariato” – In italiano “angariato” è chi viene sottoposto ad angherie e soprusi. Il vocabolo “angheria” deriva dal latino medievale “angaria”, a sua volta proveniente dal greco “angaréia” (ἀγγαρεία, “arruolamento per un servizio pubblico”; consisteva in un onere – in natura o in denaro – imposto a qualcuno dallo stato o da un’autorità locale: l’“àngaros”, ἄγγαρος, era il corriere a cavallo che notificava questi spiacevoli avvisi). Il siciliano “angariatu” accentua il senso di afflizione e di fastidio che viene provato da una persona; “ti vedo angariato” si dice a qualcuno che appare triste, travagliato, scocciato e assediato dai pensieri negativi.

2) “Intamato” – In dialetto siciliano “’ntamatu” significa “balordo, stupido, e che non sappia ciò che si faccia” (Mortillaro); una persona “intamata” appare sprovveduta, incapace di agire e di fare alcunché. In genere il termine viene affiancato e rinforzato dall’aggettivo “preciso” (nello specifico valore siciliano di “a tutti gli effetti”): “intamato preciso” è dunque chi è irrimediabilmente goffo e smarrito, chi si perde in un bicchier d’acqua. E dunque, quando qualcuno esita e non sa che fare, c’è qualcuno che gli dice: “Ma che sei, intamato?” (invettiva frequentissima fra gli automobilisti palermitani, che notoriamente sono fra loro in perenne rapporto conflittuale).

3) “Pila” – Non è, o per lo meno non è soltanto, un “generatore di energia di vario tipo” (De Felice-Duro); in Sicilia la “pila” è anche un “vaso di pietra che tenga, o riceva acqua per diversi usi”, ad esempio “in modo da tenere l’acqua per lavarvi i panni per uso domestico” (Mortillaro); corrisponde dunque al “lavello” italiano (termine derivato dal lat. “labellum” che indicava la “vasca), detto anche “lavatoio”. Nella “pila” (che nei tempi più recenti è ormai in ceramica) si lavano a mano i capi di biancheria più delicati o i pullover di lana. Il vocabolario italiano registra questa accezione più rara del termine e lo definisce “vasca di pietra o di muratura” (De Felice-Duro), ma precisa che “è ormai usato quasi esclusivamente nella denominazione “pila dell’acqua santa”, con riferimento alla grande acquasantiera delle chiese. In Sicilia, ove sacro e profano si confondono spesso, la “pila” – come i “buttatoi” ad essa affini – ha finalità ben poco sacrali.

4) “Stràcchiola” – Si usa per indicare una donna sguaiata, kitsch, “coatta” (come si direbbe a Roma) e “tascia” (come si dice qui a Palermo). L’origine del termine è incerta: alcuni lo associano allo “stràcchiulo”, lo “strillone” che vendeva i giornali per strada (il termine sarebbe stato volto al femminile per indicare le donne che, poco signorilmente, sbraitano a voce alta; altri invece lo collegano allo “stracchiularu”, il venditore di stracci che – anche lui – gridava per le strade per “abbanniare” (cioè “pubblicizzare”) la sua merce. Comunque sia, la “stràcchiola” è donna decisamente poco fine (per usare un eufemismo), che parla solo in dialetto, dal look inconfondibile e dalla camminata ondeggiante che ricorda una nave in tempesta nel mare forza 8. Indubbiamente, il termine non è esente da un certo snobismo e da una punta di razzismo sociale, a conferma della separazione netta fra ceti (che da sempre è caratteristica storica specifica di Palermo) e dell’ironico distacco delle fasce sociali “bene” da quelle più strettamente popolari.

Una definizione particolarmente impietosa della “stràcchiola”…

5) “Truppicare” – Vuol dire “inciampare”; il Traina spiega questo verbo con «intoppare o percuotere il piede in checchessia in modo da poter cascare»; aggiunge poi una serie di sinonimi accomunati, tranne l’ultimo, dal fatto di essere disusati già al tempo in cui l’autore scriveva, nel 1868: “inciampicare, ciampicare, intrampolare, scappucciare, incespicare”. Il verbo ha originato sostantivi, come “truppicuni” e “truppicata” (cioè l’atto dell’inciampare), e aggettivi come “truppicusu” (che assume anche il valore di “difficile, malagevole”). Certo, “truppicare” non è piacevole: ma qua a Palermo è cosa possibilissima e anzi purtroppo frequente, soprattutto per le condizioni ignobili in cui sono tenuti i dissestati marciapiedi cittadini.

Ma qui ci fermiamo per oggi, per non “angariare” ulteriormente chi ha avuto la pazienza di leggere…

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *