Piero Angela e “La meraviglia del tutto”

Ho da poco finito di leggere “La meraviglia del tutto”, il libro di Piero Angela pubblicato postumo pochi giorni fa da Mondadori.

Come scrive l’autore all’inizio della prefazione, «Questo è probabilmente l’ultimo libro che scrivo. Non pensavo di farlo, ma poi ho riflettuto che forse ne valeva la pena. Infatti, finora ho scritto libri sulla scienza (e dintorni), cercando di spiegare agli altri ciò che capivo incontrando scienziati e ricercatori. Adesso vorrei dire anch’io quello che penso, le domande che mi pongo, le cose che ho compreso su tanti argomenti».

La forma prescelta è quella dell’intervista, che viene condotta da Massimo Polidoro, storico collaboratore di Piero Angela. Si tratta dunque, come si legge nella presentazione di copertina, di una conversazione «sui massimi sistemi: l’universo, la natura, l’uomo. Si parla di scienza insomma, che lo appassionava e che era tanto bravo a divulgare»; il volume diventa «una lezione di vita che accompagna il lettore in un viaggio alle origini dell’uomo, questo “pezzetto di universo che ha acquisito la capacità di voltarsi indietro e di ricostruire la propria storia straordinaria”. Ogni capitolo apre una porta che dà su porte successive, e la grande capacità narrativa di Angela cattura la curiosità del lettore e lo trascina nell’affascinante avventura della conoscenza.

Questo libro non sarebbe stato possibile senza Massimo Polidoro, l’allievo che nel corso di trent’anni ha “interrogato” il maestro stimolandolo con le sue domande. Che sono poi le stesse che tutti noi ci facciamo. E a cui Piero Angela risponde con la chiarezza e l’onestà intellettuale che abbiamo sempre ammirato».

La lettura del volume, che supera le 500 pagine, è stata per me straordinariamente piacevole e interessante, per la chiarezza cristallina e la cultura poliedrica dell’autore, ma soprattutto per la straordinaria profondità dei suoi ragionamenti e delle sue considerazioni. Veramente, come scrivono i figli Christine e Alberto nella postfazione, Piero Angela era «un uomo dotato di un pensiero raro, geniale, di una saggezza profonda, capace di prevedere il futuro per dare sempre la risposta giusta a ogni domanda. Una capacità innata frutto di una conoscenza sterminata» (pp. 511-512).

La quantità di spunti di riflessione originata da questo volume, che consiglio a tutti, ma in particolare ai giovani, è impressionante. Si può dire che non si finisca di leggere una pagina senza essere indotti a nuove considerazioni, spesso imprevedibili, senza ricavare uno stimolo ad approfondimenti nuovi e senza ritrovare, come appunto il titolo del libro sembra auspicare, “la meraviglia del tutto”.

Mi limiterò qui a citare solo alcuni esempi, tralasciandone ovviamente molti altri per motivi di spazio.

1) Piero Angela cita una frase attribuita dubbiosamente a Confucio, ma che a lui piace moltissimo: «La scienza è sapere quello che si sa e non sapere quello che non si sa» (p. 30). In altre parole, a differenza di altre categorie che hanno sempre la risposta pronta su tutto, «la scienza risponde solo sulle cose che sa». La caratteristica specifica della scienza, poi, è che ogni sua ipotesi deve essere “verificabile”: solo l’ipotesi che supererà indenne il “check point” sarà degna di essere accolta e condivisa. Ecco la differenza fra un mondo parolaio, che vive di chiacchiere e di fumo, e la razionalità assoluta della scienza, che dice solo ciò che si può dire quando lo si può dire.

2) L’evoluzione della vita sulla Terra è stata lentissima e anzi quasi ferma per miliardi di anni: se volessimo immaginare di racchiudere la storia della vita sul nostro pianeta, dalle origini a oggi, nel corso di un solo anno, se il 1° gennaio appaiono le prime cellule viventi, l’Homo sapiens «compare solo la sera del 31 dicembre, a circa 15 minuti dalla mezzanotte» (p. 40); prima «l’evoluzione biologica si è svolta senza che nessun essere vivente se ne rendesse conto. Miliardi e miliardi di microrganismi, molluschi, meduse, vertebrati, pesci di ogni genere sono vissuti sott’acqua, si sono procurati cibo, hanno rincorso prede, si sono riprodotti, sono morti, nell’indifferenza generale» (p. 41).

Fa una certa impressione la considerazione inevitabile che ne deduciamo: l’intero genere umano, che si crede il sale del mondo, è un episodio tardivo verificatosi in un pianeta che fa parte di una galassia con oltre cento miliardi di stelle… Non meno impietosa è la constatazione che per miliardi di anni gli unici abitatori della Terra sono stati i batteri.

A me, che provengo da tutt’altro tipo di formazione culturale, tornano in mente le parole dell’Operetta Morale di Leopardi intitolata “Dialogo di un folletto e di uno gnomo”, in cui questi due personaggi commentano impietosamente la recente estinzione del genere umano: «ora che ei [gli uomini] sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancorché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi». La falsa presunzione degli uomini, che ritenevano che il mondo esistesse per loro e che fosse di loro proprietà, è stata così smentita categoricamente.

3) Il conteggio sul numero dei nostri antenati diretti mi ha colpito particolarmente. Ognuno di noi ha due genitori, quindi ha 4 nonni e 8 bisnonni. Continuando così, «ogni tre secoli arriviamo a mille antenati (se calcoliamo una vita media di circa trent’anni). Al Rinascimento si arriva a un milione, nel Medioevo a un miliardo, in epoca romana a mille miliardi di antenati diretti» (p. 66). In realtà il totale va diminuito, perché (fra guerre, epidemie, catastrofi varie) «i demografi del Population Reference Bureau di Washington hanno calcolato che sulla Terra siano vissuti in tutto circa 117 miliardi di Homo Sapiens. I geni si sono quindi intrecciati continuamente, e di conseguenza siamo tutti un po’ imparentati, perché una volta era facile che le famiglie si incrociassero. Probabilmente, siamo discendenti di qualche uomo o donna illustre. E con altrettanta probabilità di qualche carogna» (p. 66).

Viene da chiedersi se la considerazione che “siamo tutti un po’ imparentati” potrebbe servire a far capire alla testa bacata di certi governanti l’assurdità di ogni guerra…

4) Piero Angela compie un’interessante distinzione fra scienza e tecnologia, che tendono ad essere confuse fra loro. La scienza «è semplicemente conoscenza, comprensione dei fenomeni: e la conoscenza non può fare del male e non può creare danni. La scienza insomma indaga come funziona la natura, scopre cioè cose che esistono già» (p. 93); viceversa, la tecnologia «inventa macchine per fabbricare delle cose concrete e non per rispondere a domande filosofiche, produce manufatti che prima non esistevano: la bicicletta, il frigorifero o anche solo un ago da cucito non esistono in natura, li ha inventati l’uomo» (p. 94).

Ne deriva che «a produrre danni non è la scienza, che cerca solamente di “leggere nel libro della natura” e di conoscerne i segreti, ma la tecnologia. O meglio, l’uso distorto che si fa della tecnologia […] Decidere in quale direzione devono andare le invenzioni tecnologiche, dunque, non è qualcosa che può fare un ricercatore o uno scienziato, perché non avrebbe né i mezzi né le risorse. Sono scelte e decisioni prese dalla politica, dall’economia, dai militari. È il modo in cui viene gestito tutto questo che deve essere messo in discussione, se mai, non certo il principio in sé di indagare e scoprire le cose» (id.).

5) A proposito delle “energie pulite”, Piero Angela cita una buffa filastrocca da lui composta sulla falsariga della canzoncina “Ci vuole un fiore”, di Sergio Endrigo e Gianni Rodari: «Per fare pulizia nel cielo / ci vogliono energie pulite. / Per fare energie pulite / ci vuole tempo. / Per fare più in fretta / ci vogliono molti investimenti. / Per fare molti investimenti / ci vogliono decisioni politiche. / Per prendere decisioni politiche / ci vuole un’opinione pubblica favorevole. / Perché un’opinione sia favorevole / ci vogliono forti motivazioni. / E perché ci siano motivazioni / ci vuole molta informazione» (pp. 106-107).

La conclusione dell’autore è di una razionalità assoluta: «La futura diminuzione dei consumi, e quindi dell’inquinamento, non dipende tanto da noi, dalla nostra buona volontà, quanto dalle situazioni esterne che ci costringeranno a fare certe scelte. Meglio dunque decidere noi, adesso, di impegnarci, anziché ritrovarci costretti dall’emergenza a farlo» (p. 107).

Qui mi è venuto spontaneo il ricordo di come, durante il triste periodo della pandemia, l’inquinamento globale fosse diminuito in modo consistente in tutto il mondo… ma occorrerà sempre un’emergenza del genere per prendere decisioni ecologiche salutari? Come scrive giustamente l’autore, «Noè non ha certo aspettato il diluvio per costruire l’arca; l’ha fatto quando fuori splendeva il sole e nessuno ne sentiva il bisogno. Se avesse aspettato le prime gocce di pioggia, non sarebbe mai riuscito a salvarsi» (p. 109).

6) A proposito delle gerarchie sociali e politiche, le considerazioni di Angela sono impietose ma (almeno per me) assolutamente condivisibili: «Quando non si è culturalmente educati ad apprezzare certi valori “interni”, non visibili, i simboli del prestigio e della forza diventano allora quelli “esterni”, cioè l’apparenza, la facciata. […] Ecco perché, in una popolazione arretrata, l’autoritarismo incute rispetto, la solennità suscita ossequio, il linguaggio aulico provoca ammirazione, mentre la semplicità, la tolleranza, la cortesia vengono scambiate per debolezza, e in definitiva “sbranate”.  […] Quando si è abituati a valutare dalle apparenze, evidentemente è l’abito che fa il monaco, è l’ermellino che fa il potente; tutto il prestigio morale e intellettuale di un individuo non valgono un’occhiataccia e un pugno sul tavolo di un autocrate qualunque» (pp. 149-150).

7) Sulla cultura umanistica le pagine del libro sono tanto interessanti quanto lancinanti, specialmente per lettori come me, dalla formazione classica; innegabilmente, però, è vero che «oggi tantissime persone, magari anche molto colte, sono semianalfabete quando si esce dall’ambito umanistico. Siamo diventati effettivamente degli analfabeti del nostro tempo. […] E, invece, la cultura non può limitarsi a essere l’insieme dei romanzi, dei saggi, della musica, delle opere di storia, degli spettacoli teatrali o delle opere d’arte che un paese produce: questa rappresenta una parte del pensiero umano, nobile e meravigliosa, ma pur sempre solo una parte» (p. 170).

Anche l’informazione viene ritenuta responsabile della situazione: «le problematiche della scienza e della tecnologia compaiono con scarsa frequenza nelle pagine o nei supplementi culturali. Qui, le riflessioni, i ragionamenti, le recensioni sono solitamente riservati a opere letterarie, a questioni di costume, o a personaggi del mondo dell’arte, con commenti, approfondimenti e anche dibattiti che molto raramente invece vengono dedicati ai nuovi orizzonti aperti dalla ricerca. […] Insistendo sul fatto che esista una “cultura” alta, separata dal resto (e in particolare dalla scienza e dalla tecnologia) si perpetua un messaggio fuorviante» (pp. 170-171).

La mia formazione scientifica si è fermata all’ultimo anno del liceo (per di più classico): non posso quindi non rammaricarmi di essermi perso una parte enorme dello scibile umano; e dire che a scuola me la cavavo benissimo in Matematica (riportando voti eccellenti) e nelle altre materie scientifiche, tanto che mio zio Ciccio, che era preside e docente di Matematica e Fisica, mi esortava fortemente a iscrivermi in Matematica o in Ingegneria; ma il mio cuore era altrove e fui letterato per sempre.

Tuttavia, nonostante i miei studi di filologia, di letteratura, di linguistica, ecc., ho sempre continuato a leggere con interesse enorme le notizie sulle nuove scoperte scientifiche (sempre più straordinarie), sulle esplorazioni spaziali (che mi hanno affascinato fin dall’infanzia), sulle conquiste della tecnologia, verso le quali sono stato sempre apertissimo, disponibile e favorevole.

Vero resta, purtroppo, che tuttora non so distinguere un albero dall’altro e solo grazie a una app chiamata Lens riesco oggi a sentenziare che un olmo non è un pino (in fondo l’intelligenza artificiale è come gli occhiali: la indossi per vedere meglio quello che non riesci a vedere con i tuoi occhi). Mi ero ripromesso, nel periodo della pensione, di studiare botanica, biologia, astronomia, anche qualche nozione di medicina; per ora i miei persistenti impegni “umanistici” non me l’hanno consentito quanto vorrei, ma l’intenzione, che è più di un’intenzione, resta ed è forte.

Del resto, spesso penso che se dovessero venir meno (e non solo a me) i sussidi tecnologici odierni, ripiomberemmo nell’età della pietra in pochi minuti: è quello che succede, senza andar troppo lontano, anche in seguito a un banale e transitorio black-out.

Credo dunque che vada apprezzato il grande equilibrio con cui Piero Angela afferma: «Le due culture [quella umanistico-artistica e quella scientifico-tecnologica] non devono essere alternative, ma complementari. Da sola, ognuna di esse è insufficiente, mentre insieme consentono di avere il senso della prospettiva e di vedere i problemi in rilievo, così come con due occhi si riesce ad avere il senso della profondità» (p. 229).

Queste parole dovrebbero essere lette con attenzione e rispetto (cose, entrambe, sempre più rare al giorno d’oggi) da chi, con intransigenza degna di tempi oscuri e ormai lontani, crede che il mondo debba essere di un colore solo, fermo e immutabile nelle sue prospettive unilaterali. Viceversa, la cultura scientifica e quella umanistica possono e devono essere complementari: l’essere umano è creatura troppo fragile e limitata per potersi permettere di snobbare settori sconfinati del sapere “altro” dal proprio.

Penso che chi, per sua scelta, per sua vocazione, per sua necessità, si trova ad appartenere ad una delle due culture e non all’altra (e io sono uno di questi, schierato da sempre nel campo “umanistico”), debba avere per l’altra rispetto, comprensione e disponibilità. Non credo sia corretto, né giusto, pensare che una “scelta di campo” sia obbligatoria e che si debba per sempre essere “colti” solo a metà e solo in un settore dello scibile umano.

8) A proposito della “buona divulgazione”, Angela “gioca in casa” quando afferma: «Molti, purtroppo, non hanno ancora capito che il peggior nemico della cultura in televisione è la noia: chi pensa di fare cultura in questo modo, usando un linguaggio troppo dotto e impegnato, non si rende conto di essere il miglior alleato di coloro che premono per una programmazione di puro intrattenimento” (p. 180).

Opportuna è dunque la citazione di una frase rivolta da Sir Peter Medawar, biologo premio Nobel per la medicina, ai suoi studenti: «Evitate di far percorrere, ai vostri lettori, una distesa di vetri rotti a piedi nudi» (p. 188). Disseminare i discorsi culturali di “spine e aculei”, che fanno soffrire inutilmente chi legge o chi ascolta, è autolesionistico e controproducente: «si può anche raccontare una barzelletta in giapponese, ma non si può poi accusare chi ci ascolta di mancanza di senso dell’umorismo se non ride» (p. 189). La regola di Piero Angela, non a caso, è stata sempre: «dalla parte della scienza per i contenuti, dalla parte del pubblico per il linguaggio» (p. 190). E aggiunge un corollario che troppo spesso non si ha il coraggio di pronunciare: «La “colpa” non è mai di chi non capisce, ma di chi non si sa spiegare» (p. 202).

Un ulteriore consiglio è quello di «trovare il modo di accendere la curiosità dell’interlocutore», perseguendo il criterio del “ludendo docēre”, cioè “insegnare divertendo” (e qui ho avuto una piccola soddisfazione personale, pensando alla mia ultima fatica, il corso di Latino per l’editore Palumbo che ho scritto con Michela Venuto e che abbiamo voluto intitolare, appunto, “Lusus”). 

9) L’autore crede molto nel merito e nella sua valorizzazione; deplora dunque, parallelamente, l’esistenza di “parassiti” che di fatto calpestano chi merita e ne prendono il posto: «bisognerebbe aprire un intero capitolo sulle interferenze politiche, clientelari, lottizzatrici ammantate da un ipocrita “pluralismo” e garantismo che hanno afflitto, e continuano ad affliggere, il nostro paese» (p. 250). Manca, secondo Piero Angela, un efficiente meccanismo di premi-punizioni che consenta di combattere le cattive abitudini, eliminando la diffusa impunità di cui godono gli incompetenti, i raccomandati e i “furbi”. In particolare, manca un “controllo sociale” sui comportamenti illeciti; viene fatto l’esempio di chi “fa la spia”, ad es. denunciando a scuola o in un concorso chi copia illecitamente un compito: ebbene, non è forse vero che dalle nostre parti la mentalità corrente è che ad avere torto sia lo “spione” e non l’imbroglione? Però, come scrive l’autore, «se si lasciano le chiavi di casa nella toppa, si incoraggiano i ladri a rubare» (p. 259).

10) A proposito del mondo del paranormale, di cui Angela si è occupato in alcune sue trasmissioni televisive e nel suo libro “Viaggio nel mondo del paranormale”, fino alla fondazione del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) nel 1989, le pagine dedicate all’argomento evidenziano quanto radicata sia in molte persone la “necessità” di credere a esperienze che superino la realtà abituale: «tanti hanno un desiderio profondo di credere al meraviglioso» (p. 332).

I riferimenti a personaggi come Uri Geller (quello che affermava di piegare i cucchiaini con la forza della mente), come il sensitivo Gustavo Rol o come altri celebri paragnosti, dimostrano che tutti costoro si sono sempre sottratti deliberatamente a ogni tipo di verifica o di controllo scientifico, accettando di esibirsi soltanto di fronte alla loro corte di “adoratori”. In realtà, come impietosamente scrive l’autore, «nel paranormale, quando il controllo è zero, il fenomeno è cento; quando il controllo è cento, il fenomeno torna a essere zero» (p. 340); parole di razionalità estrema, che sono l’opposto delle romantiche “illusioni” foscoliane: ma l’autore ha il merito di voler spazzare via, almeno in questo XXI secolo, i retaggi di sciamanesimo, di ciarlataneria, di millantati “poteri” che ancora si prendono gioco della credulità popolare. Ciò vale anche per certe cure mediche “alternative”, proposte spesso come miracoli prodigiosi che potrebbero curare malattie inguaribili e che vengono accettate grazie alla “leva delle emozioni” e alle dietrologie (ad es. la credenza diffusa che siano le case farmaceutiche a ostacolare certe scoperte per mantenere attivo il “mercato del farmaco”); invece, scrive l’autore, «come si fa a non capire che trovare la cura per i tumori sarebbe una scoperta straordinaria, che nessun complotto al mondo sarebbe in grado di fermare?» (p. 353). In realtà, pochi spiegano bene alla gente che «nella ricerca non basta affermare qualcosa, ma bisogna dimostrarla e per farlo ci sono delle regole, che sono universali e vanno rispettate» (p. 355).

11) Riguardo alle prospettive sul futuro dell’umanità, l’autore sottolinea l’importanza di comprendere i nuovi problemi affrontandoli con strategie lungimiranti e vincenti: «qualunque direzione si voglia prendere, ovunque si desideri andare, bisogna prima di tutto essere capaci di guidare la macchina sulla quale si viaggia, bisogna cioè essere all’altezza del proprio tempo, altrimenti la continua accelerazione e la crescente complessità delle manovre da compiere condurranno a sbandate e collisioni» (p. 423). Il futuro poi «non è qualcosa che si costruisce da solo, ma che edifichiamo noi stessi giorno per giorno» (p. 433).

In proposito, le considerazioni sull’educazione dei giovani risultano particolarmente interessanti, soprattutto per quanto riguarda il ruolo dell’istruzione scolastica: «Oggi nessuno è in grado di dire a un ragazzo di 12 o 13 anni come sarà fatto il mondo quando avrà 25 o 30 anni. […] Questo che cosa significa? Che non è importante che oggi un giovane si metta a studiare la fisica, la matematica o la geologia, per dire. Ma è fondamentale che si dedichi a capire proprio la “cultura scientifica”, che significa comprendere il senso profondo di queste discipline e anche che tipo di trasformazioni producono e produrranno nella nostra società. […] In passato la scuola serviva a dare un’indicazione, a tracciare un itinerario. Oggi ogni studente deve imparare a leggere anche fuori dai programmi scolastici, ad andare “oltre” la scuola» (pp. 447-448).

In tal senso, poi, occorrerebbe che ogni giovane coltivasse “sogni raggiungibili”; la felicità e la soddisfazione nella vita, infatti, dipendono spesso dalla fattibilità dei sogni e dei desideri di ognuno: «Il segreto, dunque, sta nell’imparare a conoscere se stessi e la realtà, combinando insieme queste due consapevolezze per darsi degli obiettivi. Personalmente, ho sempre desiderato solo cose che rientrano nelle mie capacità» (pp. 452-453). Paradossalmente, Angela torna qui al “conosci te stesso” dell’antico oracolo di Delfi, anche se il prezzo da pagare – ancora una volta – è un realismo impietosamente crudele verso i sogni di qualunque tipo.

12) In particolare, a proposito dell’incubo di un conflitto nucleare, Angela invita saggiamente a non fidarsi soltanto della “simmetria del terrore”, cioè alla speranza che nessuno possa mai scatenare una guerra nucleare soltanto pensando alle sue conseguenze: «che cosa succederebbe se, in qualche parte del sistema, esistesse un punto di rottura, cioè una situazione particolare che in un certo momento di crisi grave potrebbe far crollare certi difficili equilibri militari, politici, psicologici?» (p. 426). In tal senso, fa riflettere la constatazione che «è sufficiente un solo sottomarino con 12 missili a 10 testate (capaci cioè di colpire 120 bersagli indipendenti) per riportare di colpo al Medioevo un paese delle dimensioni degli Stati Uniti o della Russia» (p. 426). Tuttavia, accanto alla strada del disarmo, ce n’è forse un’altra praticabile: «ridurre, oltre che le armi, anche le “ragioni” per cui le armi possono venire impiegate, affrontando in modo più intelligente i problemi economici, di diseguaglianze, di energia, di disoccupazione, di educazione, di tecnologia, di risorse, di sviluppo eccetera» (p. 427).

Altre considerazioni preziose si incontrano quasi in ogni pagina; ne riassumo brevemente altre quattro.

a) Un gruppo di lavoro deve essere composto al massimo da 6-7 persone, perché «se sono di più non si va da nessuna parte» (p. 217).

b) Bisognerebbe assegnare le lauree con la “scadenza”, obbligando così i laureati a un continuo aggiornamento e a non essere mai appagati dai risultati già ottenuti, rimettendosi sempre in gioco e in discussione alla ricerca di un continuo miglioramento (p. 221). Più in generale in Italia, dopo aver ottenuto un attestato, un titolo, una patente di guida, un certificato, un diploma, ecc., cessa ogni forma di controllo: «se commetti degli abusi è molto difficile che chi ti ha dato i permessi venga a controllare. Negli Stati Uniti è esattamente l’opposto: io ti do subito la fiducia, però poi ti controllo. E se sgarri hai finito, sei sulla lista nera» (p. 249).

c) Come disse il presidente americano Obama, un grande Paese non è quello che ha un grande esercito, ma quello che ha delle grandi università (p. 223); infatti un Paese dovrebbe investire molto di più sulla formazione delle competenze dei giovani: «è molto più redditizio investire sul cervello anziché investire in acquedotti, strade o ponti» (p. 226); bisognerebbe dunque seguire l’esempio degli Stati Uniti, dove «l’esigenza che guida generalmente le scelte è quella di mettere le persone giuste al posto giusto, e non l’amica dell’amico al posto sbagliato, come ancora capita da noi» (p. 230).

[Una parentesi sui punti b) e c): Piero Angela, che negli USA è stato molte volte e a lungo, parla sicuramente con cognizione di causa; io mi chiedo però, se la scelta è quella “di mettere le persone giuste al posto giusto” e se è vero che “se sgarri hai finito”, come mai si possa ancora candidare uno come Trump alla Casa Bianca…]

d) Le considerazioni sul jazz (di cui Angela fu un cultore, essendo lui stesso un bravissimo pianista) aprono importanti sviluppi sociologici; questa forma musicale, infatti, «consente non solo di eseguire musica, ma di “crearla” attraverso l’improvvisazione. Inoltre, pone un individuo in quella ideale posizione che gli insegna a essere al tempo stesso solista e componente di un gruppo, cioè a combinare insieme individualismo e socialità, momenti in cui conta la sua personalità e momenti in cui rientra nei ranghi e collabora con gli altri (anzi, ascolta gli altri “individualismi”). Chi ha suonato questo genere musicale sa, inoltre, che un complesso jazz è la migliore scuola di integrazione sociale: non c’è più distinzione tra le diversità di origine sociale, di educazione, di etnia o di nazionalità (non per niente fu proprio nei complessi di jazz che si verificarono le prime spontanee integrazioni “razziali” negli Stati Uniti» (pp. 302-303).

Nella parte finale del volume la discussione si sposta sulle prospettive che in filosofia si chiamano “escatologiche”, quelle relative alla “fine” di tutto. La riflessione conclusiva riguarda dunque la fine del mondo, la morte del cosmo e in particolare della nostra Terra.

Anzitutto, «se ci riferiamo alla fine della Terra, la data è stata stabilita con una certa approssimazione dagli astrofisici. Tra circa cinque miliardi di anni infatti il Sole, come è noto, esaurirà il carburante interno che lo tiene in equilibrio, si espanderà diventando una “gigante rossa” e brucerà tutto sulla Terra: vegetazione, musei, cimiteri, biblioteche (o il loro equivalente, in un mondo per noi oggi inimmaginabile). Gli esseri umani (o i loro equivalenti) se ne saranno probabilmente già andati via, magari rimodellando il sistema solare» (pp. 482-483). Quanto all’Universo, esso «si espanderà all’infinito: tutte le galassie continueranno ad allontanarsi le une dalle altre e probabilmente voleranno via per sempre, anche se non sappiamo quanto tempo occorrerà perché si spenga l’ultima luce. Stelle e pianeti diventeranno oggetti neri e freddi che viaggeranno per sempre nel buio del cosmo. […] Quindi non solo tutto si spegnerà, ma la materia, in pratica, scomparirà. Subentrerà il vuoto e sarà la morte di qualunque cosa» (p. 483).

E tuttavia, in questa prospettiva cupa, un senso a tutto va trovato: «dovremmo imparare a ricordarci quanto siamo fortunati, nell’Universo buio e gelido che ci circonda, a vivere su questa piccola isoletta azzurra, al caldo e al riparo da tutto quello che avviene nel cosmo» (p. 484). L’autore, commemorando il momento in cui nel dicembre 1968 a Cape Canaveral vide la foto della Terra scattata dagli astronauti di Apollo 8 in orbita lunare, riferisce la sua emozione ineguagliabile: «iniziai a pensare a quanto fossero assurde e stupide tutte le guerre, i conflitti, le distruzioni reciproche, che da secoli continuano a verificarsi sotto quel sottilissimo velo di atmosfera, mentre il pianeta viaggia a 100.000 chilometri orari. Un granellino, perso nel silenzio del cosmo, che però contiene un mondo pieno di luce, di bellezza, di vita. Come possiamo essere così stolti da non ricordarcelo?» (p. 485).

Una delle ultime citazioni è tratta da Leonardo da Vinci e fu poi ricordata da Alberto Angela nella commemorazione del padre ai suoi funerali, il 16 agosto 2022: «Così come una giornata ben spesa dà un lieto dormire, una vita bene usata dà un lieto morire».

Con questa assoluta serenità Piero Angela pensava alla sua morte imminente, a 93 anni suonati, accettandone la prospettiva con la razionale calma di sempre; tuttavia nell’ultima pagina del testo, uscendo dalle strette pastoie del razionalismo assoluto che lo ha guidato in tutta l’intervista, cita il grande valore rappresentato dalla famiglia: «se mi chiedi qual è la cosa che secondo me conta di più nella vita, ti rispondo che, al di là di tante cose astratte, ciò che conta sono le emozioni giuste, quelle delle persone che ti vogliono bene. Ciascuno di noi, al termine del viaggio, non può che mettere da parte la razionalità e riconoscere che in fondo è proprio così. Certo, bisogna avere una grande visione, fare del proprio meglio, ma l’unica cosa che poi conta davvero alla fine è una sola: l’amore» (p. 510).

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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