Montalbano compie trent’anni

Trent’anni fa, il 10 marzo del 1994, fu pubblicato da Sellerio “La forma dell’acqua”, il primo romanzo che aveva per protagonista il commissario Montalbano. Per festeggiare la ricorrenza, l’editore ripropone in libreria il romanzo con l’aggiunta di una “Nota” in cui Andrea Camilleri racconta la nascita del personaggio.

Nel romanzo, la prima apparizione del commissario si ha quando due “operatori ecologici” scoprono il cadavere dell’ingegnere Luparello e si dirigono a fare la denuncia: «Si avviarono verso il paese, diretti al commissariato. Di andare dai carabinieri manco gli era passato per l’anticamera del cervello, li comandava un tenente milanese. Il commissario invece era di Catania, di nome faceva Salvo Montalbano, e quando voleva capire una cosa, la capiva» (La forma dell’acqua, p. 17).

Fin dal primo romanzo emergono molte delle caratteristiche essenziali del commissario: l’intuito investigativo straordinario, la sua passione per il cibo, lo stretto rapporto con Livia Burlando (la fidanzata che vive lontano, nel quartiere di Boccadasse a Genova), l’onestà cristallina e l’indisponibilità a compromessi di ogni tipo.

Va detto che, almeno nelle intenzioni di Camilleri, La forma dell’acqua, primo romanzo con Montalbano, “doveva anche essere l’ultimo” (Camilleri sono, in “MicroMega – Tutto Camilleri”, 2019, p. 302). Tuttavia l’autore riteneva di non essere ancora riuscito a fare di Montalbano un vero personaggio, per cui decise di scrivere il secondo romanzo, Il cane di terracotta, per definirne meglio i dettagli.

A questo punto avrebbe dovuto concludersi il ciclo e Camilleri comunicò ad Elvira Sellerio di non voler scrivere un altro libro su Montalbano: ma la risposta dell’editrice fu sorprendente: «A proposito del tuo non voler più scrivere Montalbano, ti mando il rendiconto delle vendite» (ibid., p. 303).

I dati erano straordinari: la casa editrice aveva venduto 130.000 copie delle altre opere di Camilleri, ma con i romanzi di Montalbano arrivò a 980.000 in 8 mesi; per di più, i due libri su Montalbano avevano un effetto di “traino” sulle vendite degli altri libri precedenti di Camilleri.

Iniziò così, come diceva l’autore, il “ricatto di Montalbano”: «Da quel momento è iniziato quello che io chiamo il ricatto di Montalbano, che consiste nel fatto che non solo Montalbano vende quello che vende, ma mi fa vendere anche gli altri romanzi a cui tengo di più» (ibid., p. 303).

La particolarissima scrittura di Camilleri colpì immediatamente pubblico e critica, ottenendo il favore del primo nonostante le perplessità della seconda.

Va detto però che nel romanzo La forma dell’acqua, fin dall’incipit, le espressioni “non italiane” risultavano piuttosto isolate (cummigliava, si cataminava, arrisbigliarsi, piombigno, scangiare) e morfologicamente adattate all’italiano (si avrebbero altrimenti le forme arrisbigliarisi, piombignu, scangiari): «Lume d’alba non filtrava nel cortiglio della «Splendor», la società che aveva in appalto la nettezza urbana di Vigàta, una nuvolaglia bassa e densa cummigliava completamente il cielo come se fosse stato tirato un telone grigio da cornicione a cornicione, foglia non si cataminava, il vento di scirocco tardava ad arrisbigliarsi dal suo sonno piombigno, già si faticava a scangiare parole. Il caposquadra, prima di assegnare i posti, comunicò che per quel giorno, e altri a venire, Peppe Schèmmari e Caluzzo Brucculeri sarebbero stati assenti giustificati. Più che giustificata infatti l’assenza…» (La forma dell’acqua, Palermo, Sellerio, 1994, p. 9; i corsivi qui sono miei).

Insomma, l’operazione linguistica di Camilleri era ancora molto “soft”, limitandosi all’inserimento di alcuni vocaboli di origine siciliana, disseminati però in un contesto fortemente “italiano”.

Dunque, lo stile “ibrido” camilleriano non si spingeva ancora alle estreme conseguenze delle sue premesse; eppure tanto bastò, alla luce anche dello straordinario successo editoriale, per scatenare un intenso dibattito critico, accompagnato anche dall’esternazione di alcune forti perplessità. Tuttavia, a distanza di trent’anni, non c’è dubbio che la sfida “linguistica” sia stata pienamente vinta dall’autore empedoclino, come testimoniano essenzialmente due cose: 1) gli ottimi riscontri ottenuti da tutti i suoi libri; 2) un fenomeno senza uguali nella letteratura italiana contemporanea, cioè la penetrazione nel parlato comune di parecchie parole provenienti da una scrittura romanzesca (grazie anche al tramite decisivo della televisione, che ha fatto conoscere certi elementi del lessico vigatese anche ad un gran numero di non lettori).

Oggi i “camillerismi” sono notissimi in tutta Italia; e una prima consacrazione di tale impatto sulla lingua italiana si trovò nel GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso) diretto da Tullio De Mauro, soprattutto nell’aggiornamento del 2007, centrato sullo studio de La stagione della caccia.

Qui però vorrei notare quanto sia gradualmente mutata la scrittura nei romanzi di Montalbano: si ha infatti l’impressione di scorgervi una progressiva immersione nel siciliano. Di questo processo Camilleri diede conferma in un’intervista rilasciata il 31 marzo 2016: «Cominciai da lì, da questo shakeraggio tra italiano e parlate diverse. Dopodiché decisi di fare un passo ulteriormente in avanti, cominciare ad esempio a crearmi un linguaggio tutto mio, per esempio con l’alterazione della coniugazione dei verbi o con le allitterazioni frequenti. Insomma, questa ricerca dura ancora, tant’è vero che quando io riprendo tra le mani un romanzo di tre, quattr’anni fa, e lo devo pubblicare ora, io sono costretto a riscriverlo di sana pianta perché intanto questa ricerca mia è andata avanti. È un work in progress. […] Io ho cercato di creare un idioletto, una lingua che nessuno parla che poi finiscono col parlare tutti, una lingua mia e che è possibile forse imitare ma che è sostanzialmente mia» (cfr. https://grammalogos.com/meeting-camilleri/).

Il risultato dell’operazione emerge con assoluta chiarezza se si confronta il già citato incipit de La forma dell’acqua con le prime righe dell’ultimo romanzo pubblicato in vita da Camilleri, Il cuoco dell’Alcyon (2019, quindi 25 anni dopo): «Stava abballanno un valzaro supra al bordo di ’na piscina, tutto alliffato e profumato, e sapiva che la fìmmina che tiniva tra le vrazza era Livia, da qualichi orata addivintata sò mogliere. Non potiva vidirle la facci per via del fitto velo bianco che la cummigliava. Tutto ’nzemmula arrivò ’na folata di vento forti e il velo si scostò quel tanto che gli abbastò per scopriri che non s’attrattava di Livia, ma della maestra Costantino, quella della terza limintari, coi baffi e l’occhi torti. Si sintì mancari le forzi per lo scanto e chiuì l’occhi» (Il cuoco dell’Alcyon, Sellerio, Palermo 2019, p. 9).

Come è evidente, nel libro più recente si nota un forte incremento dei dialettismi, che addirittura ormai sono predominanti sulle forme italiane; inoltre è cambiata radicalmente la strategia linguistica complessiva: il siciliano infatti “contamina” l’italiano, non si limita a singole parole ma si fonde con la lingua nazionale e la va sostituendo; infatti, ad un certo numero di voci schiettamente dialettali (alliffato, cummigliava, scanto) si uniscono numerosissime forme che si allontanano dall’italiano solo dal punto di vista fonetico o morfologico. Questa tecnica ha consentito all’autore di aumentare i dialettismi senza rendere incomprensibile il testo ai lettori non siciliani: infatti nessuno potrà trovare difficili termini come abballanno, valzaro, supra, ecc.

Di fatto, i due brani appaiono redatti in due lingue diverse: nel primo caso si ha un italiano punteggiato da elementi dialettali; nel secondo un vero e proprio ibrido siculo-italiano.

Per capire ancora meglio l’evoluzione della lingua camilleriana, è illuminante Riccardino (2020), che presenta (in una delle due versioni editoriali) due diverse redazioni del romanzo: la prima risale al 2004-2005, mentre la seconda rispecchia la revisione del 2016. Il libro fu rivisto dall’autore, ormai cieco, con l’aiuto della preziosa e discreta Valentina Alferj; Camilleri ha ripreso la storia, non cambiandone la trama ma la lingua: è passato infatti dalla “lingua bastarda” della prima stesura alla “lingua ‘nvintata” di Vigàta, da lui perfezionata negli ultimi romanzi.

Una curiosità: nella fortunatissima serie televisiva su Montalbano, “La forma dell’acqua” andò in onda nel 2000 e fu soltanto il terzo degli sceneggiati diretti da Alberto Sironi e interpretati da Luca Zingaretti; l’anno prima, infatti, erano stati trasmessi “Il ladro di merendine” e La voce del violino”.

P.S.: Per tutta la questione, e per un’analisi minuziosa del commissario Montalbano, rimando al mio saggio “Camilleriade – I luoghi, il commissario, i romanzi storici”, scritto insieme con Vito Lo Scrudato e Bernardo Puleio e pubblicato l’anno scorso da Diogene Multimedia.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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