Lo sparviero e l’usignolo

La parte “parenetica”, cioè “esortativa”, delle “Opere e Giorni” di Esiodo, quella che più chiaramente prospetta il messaggio etico-religioso del poeta, ha inizio con l’apologo (αἶνος) dello sparviero e dell’usignolo.

Eccone il testo: «Ora io narrerò un apologo ai giudici, sebbene essi siano saggi. Uno sparviero così parlò all’usignolo dal variopinto collo, mentre, avendolo ghermito con gli artigli, lo stava portando in alto, fra le nubi, e quello, trafitto dagli artigli ricurvi, pietosamente gemeva. A lui, dunque, lo sparviero superbamente parlò: «A che ti lamenti, o infelice? Ti tiene uno che è più forte; dove ti porto io, tu andrai, anche se sei canoro; ti divorerò oppure ti libererò a mio piacere. Stolto è chi vuole combattere contro i più forti: non riporterà alcuna vittoria e, oltre al danno, subirà pure la beffa». Così parlò lo sparviero veloce, uccello dalle grandissime ali. O Perse, ascolta la giustizia e non alimentare la Prepotenza; la prepotenza è dannosa all’uomo debole; nemmeno il grande facilmente la può sopportare, anzi egli stesso rimane oppresso e va incontro a sventure. Migliore è l’altra strada, verso la giustizia: la giustizia al termine del suo corso vince la prepotenza, e solo soffrendo lo stolto impara»(Opere e giorni, vv. 202-218, trad. Magugliani).

Si tratta della prima favola della letteratura occidentale: in una civiltà di cultura orale, come era quella esiodea, l’apologo costituiva uno dei mezzi privilegiati per la trasmissione di un patrimonio di sapienza popolare (simile sarà la funzione delle parabole nel testo evangelico).

In questo breve testo l’usignolo, ghermito dallo sparviero, piange e invoca pietà; il rapace infatti gli evidenzia tutta l’inutilità della sua disperazione, imponendo senza mezzi termini la legge del più forte: “Stolto (ἄφρων) è chi vuole combattere contro i più forti (πρὸς κρείσσονας)” (v. 210).

È evidente che la “morale” della favola non è affatto condivisa dal poeta; l’apologo è presentato come “modello negativo”, giacché vi si descrive il trionfo della hybris (ὕβρις), la superbia arrogante e “animalesca” che si contrappone alla giustizia divina, quindi un modo inaccettabile di concepire le relazioni tra gli individui.

Destinatari del messaggio esiodeo sono, oltre al fratello Perse, i re-giudici corrotti, che sono emblema di una società basata sull’ingiustizia e la sopraffazione; a costoro il poeta intende far capire che, mentre il mondo animale può essere soggetto alla legge della violenza, gli uomini devono conformarsi alla legge della giustizia (dìke, δίκη) e devono salvaguardare, semmai, le ragioni di chi è più debole. In altri termini, il mondo del nòmos (νόμος), cioè della legalità e della giustizia, deve contrapporsi al mondo della physis (φύσις), cioè alle leggi “naturali”. Da qui l’apostrofe rivolta a Perse (v. 213) affinché ascolti Dike (destinata prima o poi a vittoria sicura) e rifiuti la hybris.

Dunque, a differenza di quanto riterranno alcuni autori del V sec. a.C., quali Antifonte o Tucidide, per Esiodo la legge del più forte, teorizzata dallo sparviero, non è legge di natura, bensì qualcosa di anomalo e ingiusto.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *