Ricordo del servizio militare

Mercoledì 13 settembre 1978 iniziai il servizio militare a Orvieto, presso la Caserma “Piave”, III Battaglione Granatieri “Guardie”. In realtà fui arruolato fra i bersaglieri, che si dividevano la caserma in condominio con i granatieri (con reciproci perfidi sberleffi). Il tenente colonnello, arcigno anzichenò, si chiamava Benedetto Pappalardo.

La Caserma “Piave” di Orvieto – cartolina 1978

Avevo 24 anni; due anni prima mi ero laureato in Lettere classiche a Genova e subito dopo avevo dovuto lasciare la mia città natale perché i miei genitori avevano deciso di ritornarsene a Bagheria dopo oltre 25 anni passati nel capoluogo ligure (in altre parole, come diceva Peppuccio Tornatore in “Nuovo Cinema Paradiso”, “si erano lasciati fottere dalla nostalgia”).

Trasferito da poco a Bagheria, sradicato, senza più amici, senza conoscenze che non fossero i tanti parenti, senza immediate prospettive di lavoro, inscatolato nella piccola realtà di un piccolo difficile paese che per me era stato fino ad allora solo la meta delle vacanze (estive o natalizie), ero in un momento difficile. Perciò, dopo aver cincischiato qualche mese in vana attesa di non so che, avevo deciso di non chiedere ulteriori rinvii del servizio militare, che come è noto era allora obbligatorio.

Dunque martedì 12 settembre nel pomeriggio ero partito in treno da Palermo; dopo la notte in treno, il 13 mattina arrivai a Roma e da qui presi il diretto per Venezia, a bordo del quale incontrai altri ragazzi diretti anche loro ad Orvieto, ove svolgevano il servizio militare. Da loro ebbi le prime, preoccupanti “dritte” sulla vita militare (ma ora ho il sospetto che, come si dice in Sicilia, “ci bagnassero il pane” e volessero burlarsi di me terrorizzandomi).

Arrivai alla stazione di Orvieto alle 12,40; in autobus salii in paese. Era ancora presto per presentarsi in caserma, sicché me la presi comoda e andai a mangiare alla “Trattoria del Rocchio”: ero affamato e mi sbafai un bel piatto di lasagne e una sontuosa bistecca alla Bismarck, pagando in tutto 5.000 lire (bei tempi…). Iniziai poi un primo giro orientativo e fui folgorato dalla splendida bellezza del Duomo.

Il Duomo di Orvieto

Infine alle 16 mi presentai in caserma; dopo una lunga attesa all’ufficio/selezione, alle 18 (ora del pasto serale!) fui indirizzato alla mensa, dove – utilizzando per la prima volta le gavette di alluminio – mangiai molto peggio che a pranzo: una specie di minestrone con fagioli, due brutte polpette e una pesca. Fui quindi messo di nuovo in stand-by; nell’attesa, dallo “spaccio” telefonai a casa per dare mie notizie e rassicurare i miei genitori.

Infine fui assegnato alla I compagnia Bersaglieri, III plotone, XI squadra, camerata 11, II piano scala A; mi consegnarono un primo equipaggiamento, consistente per il momento solo in uno zaino con vari oggetti d’uso, senza ancora procedere alla “vestizione”. In abiti borghesi, dunque, andai mestamente a dormire nella XI camerata: non c’era nessun armadio, le valigie erano riposte su scaffali “en plein air”, i bagni erano alla turca, le docce si potevano fare per soli 3’ una volta a settimana.

Il quadro complessivo, per un ragazzo abituato alle comodità, non era il massimo; mi addormentai a fatica, anche perché disturbato da schiamazzi di ogni tipo, provenienti però (le cose giuste bisogna dire) soprattutto dalle altre camerate. I miei compagni di stanza invece, tutti reclute come me, erano bravi ragazzi, in genere liguri, sardi, napoletani e siciliani; erano più piccoli di me di qualche anno. Come capii subito (lo scrissi nella prima lettera a casa), in situazioni del genere “ci si deve dare tutti una mano, se no è peggio per tutti”. Prendemmo sonno verso l’una, pensando immancabilmente al nostro letto di casa…

La mattina dopo, giovedì 14, fummo svegliati dalla tromba alle 7 e subito dopo dalle urla di un sergente che ci faceva fretta e ci diceva di lavarci e vestirci im-me-dia-ta-men-te.

Alle 7,45 scendemmo in cortile per l’adunata. Ricordo la commozione di quel momento: l’aria fredda del mattino (a Orvieto di notte c’erano già 10-12 gradi), noi ragazzi ancora in borghese, intimiditi e preoccupati, “stravuliati” (come si dice qui da noi), che guardavamo gli altri soldati già in divisa e già “militarizzati” nei gesti e negli atteggiamenti, la bandiera italiana che sventolava, la tromba, l’inno nazionale.

Alle 8 ricevemmo le prime istruzioni in aula di compagnia, accompagnati da una serie impressionante di prescrizioni-minacce. Fummo poi spediti dal barbiere: io mi ero illuso di “legalizzarmi” preventivamente, facendomi accorciare i capelli (che allora – incredibile dictu – avevo folti e neri) dal mio barbiere “baarioto”, ma fu inutile, dato che fui “scozzolato” senza pietà. In particolare volarono via le basette che portavo da alcuni anni, seguendo la moda dell’epoca; “Cochise” (così era soprannominato il barbitonsore) mi fece una sfumatura posteriore altissima, con il ”cozzo” impietosamente rasato.

Seguì una prima visita medica dal cardiologo. Dopo il frugale pasto, dalle 14,30 alle 15,30 fui spedito a ramazzare il cortile esterno con altri tre compagni; e, per non farmi mancare nulla, la notte successiva dalle 3 alle 5 dovetti fare il “piantone alla camerata”, restando sveglio di guardia mentre gli altri ronfavano, mentre l’indomani fui di corvée in cucina (ripulendo e “sgrasciando” piatti e gavette).

Il 15, dopo la “puntura” al petto (che provocò patemi e svenimenti ad alcuni, ma che io feci senza problemi), avvenne la vestizione con relativa trasformazione del cittadino in militare; eccone il mio resoconto in una lettera a casa: “La tuta mimetica è buona, rispetto ad altri che ci nuotano; le scarpe vanno benissimo, i pantaloni sono un po’ corti; poi c’è la giacca, l’impermeabile, il fez, un cappellaccio nero ancora senza piume. Col fez sembro Ignazio Buttitta. Ci hanno dato l’attrezzatura per tutto l’anno… Ho appeso tutto accanto alla branda, non abbiamo armadi, c’è una confusione… 3 paia di scarpe, 4 maglie leggere, 2 camicie, giacca… Mentre aspettavamo la vestizione, seduti lì per terra, ad aspettare 2 o 3 ore, ci hanno tirato un sacchetto pieno d’acqua” (era stato il primo immancabile “gavettone” di benvenuto…).

Nei giorni successivi iniziò il massiccio addestramento bersaglieresco: otto ore (!) al giorno di corsa con gli scarponi “anfibi” ai piedi, lancio della bomba a mano e sparatorie al poligono, addestramento formale (fioccavano le punizioni per chi trasgrediva qualunque regola), canzoni da cantare obbligatoriamente (“O Ricciolina, tu sei la mia morosa / sei la morosa del bersaglier”, “Questa è una corsa di resistenza, / chi non resiste non va in licenza”), scarpe da ripulire sempre (la sera passava l’ispezione a controllare che gli “anfibi” fossero tornati lucidi e verniciati in “nero inferno”), “cubo” del letto da rifare in modo impeccabile, ecc. ecc.

A distanza di tanti anni, posso dire che quell’anno di vita militare,  proseguito poi al I Battaglione Bersaglieri di Civitavecchia e concluso al 141° Battaglione di Palermo, mi servì immensamente: imparai a cavarmela da solo in molte occasioni, a sbrigarmela nelle difficoltà (ivi compresi i furti subìti spesso in caserma), a sopportare pazientemente disagi, a conoscere persone di ogni ceto sociale e a interagire sempre meglio con loro, a escogitare stratagemmi salvifici (come quando io e il mio indimenticabile amico Enzo Mineo, durante un allarme notturno a Civitavecchia, in qualità di furieri convincemmo il capitano a farci presidiare la fureria, scialandocela poi a giocare a carte al calduccio mentre gli altri “scoppiavano”, facendo adunata al gelo esterno).

Non è stato dunque un anno perso (anche perché all’epoca i concorsi a cattedre erano bloccati e lo sarebbero rimasti per altri 3-4 anni); mi rammarico semmai di non aver fatto il corso per allievi ufficiali, che come laureato mi sarebbe toccato di diritto e mi avrebbe consentito di vivere un’esperienza ancora migliore.

17.09.78: foto con i miei compagni della XI camerata: in alto, da sinistra, Occhioni, Comite, Patricelli, Scarcia, Borrelli; al centro, sempre da sinistra, io (l’unico occhialuto), Stabile, Nicita, Placido, Nocco e Nappi; in prma fila Sannìo, Lorenzoni, Brundo e Sassu
Una mia foto bellicosa: ottobre 1978

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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