Tre racconti di Palma Civello

La mia cara amica Palma Civello (per noi “Mirella”), poetessa, scrittrice, pittrice, docente, fotografa, versatile mente creatrice e immaginifica, ha già pubblicato diverse opere di narrativa (come “Volti e svolte al telefono” nel 2008 e “Nodi di donne” nel 2011) e raccolte di poesia (“Ho liberato le parole” nel 2011 e “Come tela di Penelope” nel 2018). Una sua “Intervista ad Arianna” è stata inserita nel vol. III di “Grecità – Storia della letteratura greca”, che ho pubblicato con Michela Venuto per l’editore Palumbo (Palermo 2014). Ha ottenuto e continua ad ottenere numerosi premi letterari, che premiano la sua produzione mai banale, frutto di una riflessione profonda e originale.

Palma Civello

Palma mi ha fatto avere tre suoi racconti inediti che però hanno già ottenuto dei riconoscimenti in diverse occasioni. L’idea che li accomuna è quella di utilizzare come narratori… tre oggetti: oggetti materiali, incapaci quindi di parlare, di muoversi autonomamente, di interagire con l’ambiente circostante, ma – prodigiosamente – dotati di intelletto e di cuore, ricchi di sentimento, partecipi delle vicende degli “umani” e a loro intimamente connessi.

L’idea di “far narrare” a degli oggetti la propria storia non è, ovviamente, nuova; tanto per fare qualche esempio recente, nel 2005 la scrittrice carrarese Silvia Tamberi (pedagogista specializzata in narrativa per ragazzi) ha pubblicato “Gli oggetti raccontano. Storie straordinarie di oggetti comuni” (ed. Erickson): in questo libro, come dice la presentazione, «quelli che raccontano […] sono alcuni dei tanti oggetti che popolano la quotidianità nostra e dei bambini: ci sono uno scatolone, una pagina, una bottiglia di plastica, un berretto, una strada e altri ancora. Narrano di sé, delle proprie origini, delle vicende che hanno vissuto e che li hanno trasformati, delle persone che hanno incontrato nella loro vita e delle loro speranze, facendoci scoprire un intero mondo nascosto dietro la superficie apparentemente scontata della realtà di ogni giorno».

Del resto, gli oggetti fanno parte della nostra esistenza: alcuni di essi ci stanno accanto per decenni, accumulando su di sé la forza evocativa dei nostri ricordi, materializzando nella nostra mente persone, luoghi, situazioni; e ci commuovono, ci consolano, ci fanno – sempre – compagnia. Lo scriveva bene Bertolt Brecht in una sua poesia, intitolata “Oggetti felici” (1932): “Fra tutti gli oggetti, i più cari / sono per me quelli usati. / Storti agli orli e ammaccati, / i recipienti di rame, / i coltelli e le forchette / che hanno di legno i manici, / lucidi per tante mani: / simili forme mi paiono / fra tutte le più nobili”.

Si può aggiungere che, nello “storytelling”, uno degli esercizi più utili è quello di “proiettare” il proprio punto di vista fuori di sé, e quindi anche in un oggetto, che può essere assunto come “narratore” di una vicenda, di una sensazione, di un momento particolare.

Al netto della “originalità” dell’idea, l’esperimento di Palma Civello è condotto però su un piano di scrittura che, dietro l’apparente linearità e semplicità, si carica di significati, affronta tematiche scottanti (per dirne solo alcune, la violenza sulle donne, la xenofobia, la disumanizzazione, la condizione degli anziani, le malattie). L’autrice legge – insomma – la realtà in modo penetrante e intrigante al tempo stesso, non senza concessioni salutari a una liberatoria ironia e non senza coinvolgere e “dilettare” il lettore “ammaestrandolo” al tempo stesso (“miscere utile dulci”, diceva Orazio…).

Esaminiamo dunque i tre racconti e vediamo di coglierne i principali spunti di riflessione.

1) “NON SOLO UN CORVO”

Il racconto ha per narratore, per l’appunto, un corvo; a vederlo da lontano, «appollaiato alla ringhiera di un sesto piano» di un palazzo, sembrerebbe «un normalissimo corvo che si sta riposando dopo aver volato, come è giusto e naturale nella natura dei corvi»; ma così non è: si tratta infatti, in realtà, di «un corvo in plastica: banale, innocua, semplice plastica», utilizzato per spaventare i suoi «colleghi di volo». Questo compito, in realtà, gli risulta sgradito: «Ma io non sono fatto per questo. Io sento di amare tutti e l’ultima cosa che vorrei è proprio spaventare qualcuno».

Il corvo di «banale, innocua, semplice plastica» è stato realizzato abilmente, con le sue piume dal «bel colore nero che sfuma nel blu intenso», con il becco «lungo e ben appuntito» e con l’occhio “vitreo” che sembra mostrare un’effettiva attitudine predatoria. L’illusione, insomma, è perfetta; tuttavia il corvo di plastica deve ammettere amaramente che le sue «belle e lunghe ali» non si aprono: «sono state costruite in un unico blocco e non potranno allargarsi mai».

Tuttavia il corvo fasullo ha in sé qualcosa di straordinariamente vero: «nessuno sa che io, a dispetto di quello che posso sembrare, ho un cuore, ho i pensieri, ho le emozioni come i miei altri fratelli corvi. Le uniche differenze sono che non posso volare e non ho mai né fame né sete».

Tanto vivo e pensante è il nostro finto volatile che si sente strettamente imparentato con i “colleghi corvi” reali, di cui ricorda l’origine mitica, cioè l’ira di Apollo che aveva punito il loro progenitore, colpevole di avergli rivelato il tradimento della sua amata Coronide con un mortale, «tramutando in nero tutto il piumaggio, condannandolo per sempre a gracchiare e a cercare cibo anche di carogne».

Il corvo, come una sorta di sindacalista appassionato, difende la causa dei corvi, respinge le notizie malevole su di essi, esalta l’utilità della sua… categoria. Tuttavia si rammarica per la sua esistenza “immobile” e per la sua solitudine, a stento attenuata dalle attenzioni della colf di casa: «Al massimo mi toccano le carezze della donna delle pulizie che settimanalmente viene con un panno umido e mi strofina: quello è per me il momento più dolce e lo aspetto con ansia»; ed è stufo della sua perenne e passiva collocazione sulla ringhiera arrugginita di quel balcone.

Una svolta nella vita immutabile del “narratore” avviene quando si innamora; a primavera ha adocchiato una “femmina di corvo” intenta a preparare il nido sul platano che sta di fronte: «quella bellissima femmina si dava da fare per far trovare pronta la casetta per le uova dalle quali sarebbero nati i suoi meravigliosi figli. Ma… chi sarebbe stato il padre? Lei era davvero una femmina da schianto e chissà quanti corteggiatori poteva avere. In cuor mio, speravo che si accorgesse di me e che in qualche modo, non so nemmeno come – forse per un miracolo – potesse innamorarsi e scegliermi come suo sposo».

Il nostro corvo osserva la sua amata «per giorni e giorni», aspettando pazientemente di essere notato; ma quando la femmina, ingannata anche lei dalle apparenze, si avvicina al povero corvo inanimato, lui non può ricambiare in alcun modo le sue attenzioni: «Era chiaro che lei mi faceva la corte e ovviamente si aspettava di essere ricambiata, come è usanza tra di noi corvi. Ma io, incollato a questa maledetta ringhiera, incapace di emettere qualsiasi suono o di rivolgere uno sguardo languido capace di dimostrare il mio folle amore, mi struggevo e avrei dato tutte le mie piume di plastica pur di farle capire che l’amavo; ma purtroppo non potevo far altro che starla ad adorare immobile, perennemente statico e incapace di fare tutto ciò che invece lei avrebbe voluto che io facessi».

Inevitabilmente, vedendosi trascurata, la “corvessa” si allontana, guardando il mancato partner «con aria compassionevole» e lasciandolo in preda a un “inimmaginabile” strazio; poco dopo il corvo di plastica deve constatare amaramente che «un altro corvo, fiero e impettito, le teneva compagnia durante i giri nelle fresche ore del mattino; e poi li vedevo tornare insieme nel loro nido e sicuramente c’erano ad aspettarli i loro piccoli».

Questa è la goccia che fa traboccare il vaso: il corvo decide di non restare più su quella “banale e odiosa ringhiera”. Le sue zampe, ormai usurate dal tempo, hanno cominciato a poco a poco a staccarsi; e un giorno «una folata di un vento amico» lo trascina giù dal sesto piano, in picchiata.

L’ultimo suo pensiero è per la sua amata: «E scendo, precipito, mi arrotolo. So che sto per schiantarmi e non ho più il tempo neanche di pensare. Eppure… giurerei che accanto a me, in questo meraviglioso primo/ultimo volo, c’è lei, la mia amata, che gracchia disperatamente il suo canto d’amore».

In questo delizioso racconto, la prospettiva insolita e straniante della narrazione intriga il lettore, che inevitabilmente e paradossalmente si immedesima nella vicenda tutta interiore del corvo; questi poi, in modo surreale e reale al tempo stesso, assume quasi le connotazioni dell’immobile e ingessato James Stewart nel film di Hitchcock “La finestra sul cortile” (“Rear window”, 1954), osservando il mondo circostante con la sua “curiositas” inesausta e con la sua intelligenza attenta e partecipe.

In questa prospettiva, il mondo degli uomini è presente solo di straforo, attraverso la figura della donna delle pulizie che settimanalmente strofina il corvo con un panno umido e che, a un certo punto, viene vista dal protagonista come possibile “aiutante” nel suo proposito suicida.

Degli “umani”, però, il corvo di plastica ha un preciso e poco lusinghiero giudizio: «Sono capricciosi, volubili, superstiziosi e credono che basti la presenza di un gatto nero o di un corvo per cambiare la loro sorte! Quanta stupidaggine! Non capiscono che il più delle volte sono proprio loro la causa delle sventure che capitano e che invece noi animali portiamo soltanto allegria, amore, compagnia». Una prospettiva zoocentrica ed animalista che dovrebbe far riflettere, per contrasto, sulla “disumanità” di molti esseri ben poco “umani”.

“Non solo un corvo” ha ottenuto un primo posto in un concorso letterario a Messina nel maggio 2023; quanto al corvo descritto nel racconto, esiste davvero e ne allego la foto inviatami dall’autrice, che mi scrive così: «Il corvo è una presenza costante; è proprio di fronte al mio balcone da tantissimi anni e sembra vero…».

Il finto corvo che da tanti anni si trova di fronte al balcone dell’autrice
e che ha ispirato il racconto

2) “PERSIA”

Il secondo racconto si intitola “Persia” e ha ottenuto il premio speciale “I percorsi delle Muse” a Roma nell’ottobre 2022.

A scansare subito ogni equivoco (magari per chi immaginasse qualche riferimento all’attuale situazione iraniana), la voce narrante precisa subito la situazione: «Mi chiamo Persia. Sentendo il mio nome adesso non pensate che ho origini orientali e che mi metterò a fare per voi la danza del ventre! No: sono, anzi lo sono stata, una semplice persiana, una di quelle come tante, in legno verde, costruita dalle abili mani del falegname del quartiere».

La persiana, realizzata a regola d’arte, era stata collocata «nella camera da letto di una giovane coppia di sposi», in una camera bella ed elegante; “Persia” è felice della sua collocazione: la disposizione logistica, che avrà un ruolo importante nel racconto, viene chiarita accuratamente: «Ero stata collocata per essere anche l’accesso a un piccolissimo balcone che aveva però una ringhiera molto bassa e di un colore blu scolorito che faceva a pugni col mio bel verde lucido: ma ci ignorammo, tanto avevamo ruoli diversi!».

Al ritorno dal viaggio di nozze, la padrona di casa (Aurora) si prende cura della persiana, ne valorizza il ruolo e le fa compagnia: «Amavo quella donna! Lei aveva mille attenzioni per me, infatti quando pioveva mi chiudeva immediatamente perché sapeva che odiavo bagnarmi e che gonfiandomi d’acqua mi sarei imbruttita!».

Col tempo, però, la situazione in casa diventa sempre più tesa: Persia vede Aurora in lacrime, riversa sul letto; la sua evidente gravidanza è la causa dei furiosi litigi col marito Ugo, che assurdamente incolpa la donna di averlo tradito con un altro uomo.

Le scenate fra i due si fanno sempre più frequenti e l’uomo diventa sempre più violento. Una sera i maltrattamenti del marito si fanno più brutali e umilianti; nessuno però può aiutare la povera Aurora: «nessuno poteva sentirla, soltanto io che avrei dato tutte le mie alette di legno lucido pur di aiutarla».

Una sera però, le violenze di Ugo diventano ancora più inimmaginabili ed estreme; per un caso fortuito, però, mentre spinge la moglie, Ugo inciampa malamente e, urtando contro la persiana (che non era stata ben chiusa), vola al di là della bassa ringhiera del balcone.

Nella parte finale Aurora, «due mesi dopo quella terribile sera», torna a casa per recuperare le sue cose prima di iniziare una nuova vita in una casa più piccola, con un nuovo compagno; prima di andarsene, però, rivolge alla persiana un ultimo saluto: «inaspettatamente, ha allungato una mano e mi ha accarezzata con un tocco lieve e io avrei voluto dirle che ero felice di essere riuscita a non farle del male e che le auguravo tutto il bene che si meritava, ma mi sono limitata a ondeggiare lievemente con leggeri scricchiolii di compiacimento».

Il racconto, a differenza del precedente che insisteva di più sui toni intimisti, presenta una storia triste e drammaticamente attuale, che solo per un caso fortuito non sfocia in uno dei troppi “femminicidi” dei nostri giorni.

La triste vicenda di Aurora viene osservata dalla persiana con un’empatia che, anche in questo caso, non può giovare in alcun modo alla povera donna. Tuttavia l’oggetto assume un ruolo paradossalmente attivo diventando in qualche modo corresponsabile della fine di Ugo e assumendo così (applichiamo le norme della narratologia) il ruolo di “aiutante” della “protagonista” nei confronti del malvagio “antagonista”: «fu lui a sbattere di spalle contro di me. E io, che proprio quel giorno non ero stata chiusa bene perché Aurora non riusciva più ad essere attenta come prima, mi aprii così violentemente che ho sbattuto contro il muro a cui ero attaccata con i miei cardini e miriadi di pezzetti del mio legno sono volati da tutte le parti insieme all’intonaco del muro. Ma insieme ai pezzi, ho visto volare al di là della ringhiera anche Ugo».

Il finale è lieto e triste al tempo stesso: alla nuova vita – si spera più felice – che si prospetta per Aurora corrisponde la sostituzione di Persia, da parte dei nuovi affittuari dell’appartamento, con “una bella porta-finestra in alluminio”. Ma nel momento in cui la vecchia persiana sta per finire a pezzi nel fuoco di un camino, c’è per lei un ultimo motivo di contentezza: «sono contenta. Avrò nel mio ultimo sguardo la dolce carezza di Aurora».

3) L’ABAT-JOUR

Nel terzo racconto, “L’abat-jour”, datato 12.06.2023, la voce narrante è, per l’appunto, quella di un’elegante abat-jour, una lampada con paralume, da comodino; è un «vero oggetto d’arte» acquistato da «una donna meravigliosa». L’acquirente, Lucia, è una maestra di scuola elementare, che vive in una casa «piccola ma arredata con cura quasi maniacale». L’insegnante avrebbe potuto anche insegnare alle scuole superiori, ma aveva preferito restare fra i bambini, soprattutto per aver modo di parlar loro della sua materia preferita, la geografia: «parlandone con i suoi alunni, aveva modo di fantasticare su quei posti lontani e meravigliosi che sapeva non avrebbe mai conosciuto».

Lucia, come l’abat-jour non manca di testimoniare, è donna dalle idee molto aperte; e qui l’autrice, nel presentare il personaggio, coglie l’occasione per affondare il coltello nella piaga della nostra epoca, che è epoca di accoglienza negata, di disumano razzismo, di ottusa xenofobia. Questa prospettiva emerge soprattutto quando la maestra parla ai suoi piccoli alunni del concetto di “confine”: «Ma se le chiedevano di approfondire la parola “confine” lei si appassionava ancora di più spiegando che il confine è solo una separazione fittizia voluta dall’uomo che ha paura dei suoi simili, ma che i confini in realtà non esistono perché la terra è di tutti. Insomma, Lucia aveva le sue idee e nessuno poteva distoglierla dall’immaginare che sarebbe stato bello un mondo senza confini, un mondo dove tutta la terra appartiene a tutti gli abitanti e dove nessuno potrebbe impedire all’altro di varcare un territorio solo perché c’è un confine invalicabile».

Un po’ come il Belluca protagonista della novella pirandelliana “Il treno ha fischiato”, Lucia “immagina” con la fantasia Paesi lontani, sogna viaggi mai fatti, acquista guide turistiche leggendole incuriosita, «appassionandosi come se leggesse grandi storie d’amore».

Nella vita quotidiana, l’abat-jour è testimone e complice della tranquilla esistenza della maestra: «Aveva l’abitudine di coricarsi presto e con la mia complicità, spesso correggeva a letto i compiti dei suoi amati alunni. Poi, quando aveva terminato il “dovere”, passava al “piacere”, che consisteva nel prendere un atlante geografico e guardare quei Paesi così lontani dal suo con occhi stupiti, e si diceva che appena avrebbe smesso di lavorare sicuramente si sarebbe concessa qualche viaggio in luoghi agli antipodi dalla sua città, perché aveva sete di conoscere le diversità».

Quando però arriva il giorno del suo pensionamento, Lucia ha un momento di “vuoto mentale” e dimentica ora e luogo della festa organizzata per lei dai colleghi; è questo il primo sintomo della malattia di Alzheimer, la micidiale patologia neurodegenerativa a decorso progressivo che, dopo altri episodi sempre più eclatanti, le viene chiaramente diagnosticata dal suo medico.

Lucia allora, finché riesce ad essere accettabilmente lucida, chiede alla sua più cara amica, Maria, di fare con lei una crociera (ovviamente promettendo di pagarne le spese); in questa occasione la fedele abat-jour si mostra contenta di questa decisione: «ero davvero felice che Lucia potesse realizzare il suo grande desiderio e avrei dato non so cosa per poter viaggiare con lei, ma ovviamente non ero un accessorio indispensabile, quindi ho aspettato pazientemente il suo ritorno».

Al ritorno, Lucia è esultante, non sembra più lei: «gli occhi brillavano, la casa era piena di tutti i souvenirs che aveva comprato, c’erano guide e dépliant di viaggio ovunque e non smetteva di raccontare quanto si era entusiasmata e quanto aveva camminato per assaporare tutte le meraviglie che incontrava, continuando a ripetere che alla fine gli uomini sono tutti uguali e che non ci vorrebbero confini e barriere a separarli». Solo chi viaggia (o almeno chi vorrebbe viaggiare) sfugge alle paralizzanti catene dell’immobilismo, del pregiudizio, del ripetitivo tran-tran; solo chi conosce altri Paesi, altre usanze, altre culture, riesce a comprendere che tutti i Paesi, tutte le usanze e tutte le culture devono essere conosciute e rispettate.

La malattia di Lucia purtroppo avanza; le viene affiancata una scostante badante, che la tratta in modo burocraticamente sbrigativo impedendole anche le consuete care letture alla luce dell’abat-jour: «La badante era ferrea: la metteva a dormire subito dopo cena imbottendola di pillole e mi spegneva inesorabilmente. Io, che ero abituata a restare accesa anche tutta la notte, mi sentivo inutile e avrei voluto aiutare Lucia assecondando i suoi desideri. Ma nonostante tutti i miei sforzi, non riuscivo ad accendere la mia lampadina da sola».

Una notte, però, l’abat-jour viene accesa per l’ultima volta da Lucia: «io riconobbi subito il tocco delicato della mia amata Lucia che mi fece anche una carezza e io ebbi un tremolio per il piacere e l’emozione»; subito dopo avviene una tragica fatalità: «io riconobbi subito il tocco delicato della mia amata Lucia che mi fece anche una carezza e io ebbi un tremolio per il piacere e l’emozione. Poi prese da terra quella che era la sua cartina geografica preferita: un planisfero molto dettagliato, usurato ai bordi per quanto era stato tenuto nelle sue mani. Lentamente Lucia lo aprì e sorridendo cominciò a ripetere come un mantra “non ci sono confini, non ci sono confini”, e mentre ripeteva queste parole si dirigeva verso la finestra che incautamente non era stata chiusa adeguatamente. Lucia aprì la finestra sorridendo felice, con una luce speciale negli occhi. E io non la vidi più». La tragedia viene narrata dall’autrice con una leggerezza che riesce ad attenuarne l’amarezza: e la fine di Lucia diventa quasi un “passaggio” auspicato verso una dimensione migliore.

Alla fine l’abat-jour viene “ereditata” dalla fedele Maria, che sa quanto la sua amica fosse legata a quel lume così importante per le sue appassionanti letture geografiche.

Un’antica canzone del 1920, tratta dal motivo austriaco “Salomè” di Robert Stolz (un foxtrot “orientale”) e tradotta in italiano su testo di Ennio Neri, diceva: «Abat-jour / che soffondi la luce blu, / di lassù / tu sospiri, chissà perché. / Abat-jour / mentre spandi la luce blu, / anche tu / cerchi forse chi non c’è più». La canzone, che fu cantata fra gli altri da Achille Togliani e Johnny Dorelli, “personalizza” il lume come fa anche Palma Civello, umanizzandolo, assegnandogli sospiri e rimpianti.

Ma l’abat-jour del nostro racconto è più intimamente unita alla sua Lucia, ne condivide i momenti più belli e i sogni più ambiti, ne comprende ogni sentimento ed è partecipe del suo lento e dignitosissimo declino. Un’abat-jour, insomma, decisamente “vissuta”: non a caso, nasce anch’essa (come il corvo del primo racconto) da un’esperienza concreta dell’autrice, che mi scrive così: «L’abat-jour è una costante della mia vita; l’ho sempre avuta e chi meglio di lei può raccontare ciò che accade nella vita di una donna?».

Fortunate, forse, sono le donne come Palma o come la sua Lucia, che hanno accanto a sé questa compagna discreta che “soffonde la luce blu”; in questa nostra epoca che ignora ogni forma di riservatezza, che maltratta gli animi sensibili e che mira solo alla grassa ostentazione del peggio, queste donne riescono ancora a trovare, nella “luce preziosa” del loro comodino, un momento di serenità che consente loro di tener desta la parte più bella e ricca delle loro anime.

La figura di Lucia, poi, la maestra dalle idee aperte e progressiste, assume ancor di più un valore esemplare opponendosi radicalmente a quella di altre donne di oggi, molto meno illuminate e molto meno tolleranti nei confronti del “diverso da noi”: e qui il racconto di Palma Civello diventa testimonianza civile importante, da accogliere come un invito indispensabile a ritrovare la giusta misura e l’equilibrio che possano consentire di vivere meglio la nostra epoca così difficile.

Palermo, 24 ottobre 2023

Fra i tre racconti, propongo qui la versione integrale di “Persia”, per consentire ai lettori di apprezzare al meglio l’avvincente narrazione di Palma Civello.

PERSIA

Mi chiamo Persia. Sentendo il mio nome adesso non pensate che ho origini orientali e che mi metterò a fare per voi la danza del ventre! No: sono, anzi lo sono stata, una semplice persiana, una di quelle come tante, in legno verde, costruita dalle abili mani del falegname del quartiere, un uomo dalle mani nodose, incallite e color marrone per le troppe vernici usate, ma da quelle stesse mani uscivano dei veri e propri capolavori: era il mago degli intagli! Ricordo come se fosse oggi quando cominciò a lavorare su di me: ogni piallatura, ogni colpo di martello, ogni segatura era per me una delizia: e alla fine ero davvero bellissima e pronta per essere collocata presso una famiglia che sicuramente avrebbe apprezzato le mie qualità. Io infatti ero velocissima nell’aprire e chiudere le mie alette e sapevo ben dosare la luce del sole.

Fui collocata nella camera da letto di una giovane coppia di sposi, anzi io arrivai mentre loro erano ancora in viaggio di nozze: ricordo perfettamente come la madre della sposa mi lustrò ben bene perché voleva che tutto fosse perfetto! La camera era davvero molto bella, elegante e io ero felice di trovarmi lì, anche se una tenda anch’essa verde a volte mi copriva e questo in verità mi dava un po’ di fastidio e per qualche giorno tenni il broncio alla tenda; ma poi decidemmo che era meglio essere amiche e accettare di alternarci nell’essere più o meno visibili; anzi col passare del tempo diventammo proprio complici!

Ero stata collocata per essere anche l’accesso a un piccolissimo balcone che aveva però una ringhiera molto bassa e di un colore blu scolorito che faceva a pugni col mio bel verde lucido: ma ci ignorammo, tanto avevamo ruoli diversi!

Finalmente la giovane coppia tornò dal viaggio e io cominciai a essere usata ogni giorno: al mattino la mia padrona, Aurora, mi spalancava e permetteva che io facessi entrare tutta l’aria e tutta la luce possibile… a volte osavo anche far entrare qualche foglia che aveva bisogno di riposare e una volta ho fatto entrare pure un uccellino che aveva perso la rotta! Ma Aurora non si spazientiva mai, anzi raccoglieva le foglie e le più belle le conservava, mentre all’uccellino portò del miglio da mangiare e poi lo aiutò a ritornare libero nel suo cielo.

La sera Aurora voleva invece che io chiudessi ben bene le mie alette perché per dormire aveva bisogno del buio più completo e io stavo attenta a non muovermi mai per tutta la notte! Amavo quella donna! Lei aveva mille attenzioni per me, infatti quando pioveva mi chiudeva immediatamente perché sapeva che odiavo bagnarmi e che gonfiandomi d’acqua mi sarei imbruttita!

Mi piaceva ascoltare la voce di Aurora che spesso canticchiava: lei stava quasi tutto il giorno a casa e usciva davvero di rado; invece suo marito stava tutto il giorno fuori e ritornava la sera per cena.

Tutto era perfetto. Ma dopo qualche mese cominciai ad accorgermi che qualcosa stava cambiando: Aurora non canticchiava più come prima e tutte le sere sentivo solo le urla di suo marito, Ugo, che la sgridava non so per quali motivi.

Invece udivo spesso i singhiozzi di Aurora e la vedevo riversata sul letto a piangere! Davvero non capivo cosa stesse succedendo, anzi pensavo che la pancia arrotondata di Aurora avrebbe portato ancor  più gioia in quella casa. Ma mi sbagliavo.

Ho capito ben presto che quella pancia era il motivo dei continui litigi tra Ugo e Aurora e ogni sera le discussioni tra loro erano sempre più animate: sentivo a volte che qualcosa veniva scagliata a terra facendo un grosso fragore. Ma una sera ho sentito chiaramente uno schiocco come se fosse un frustino e poi un urlo. Aurora entrò di corsa in camera da letto e chiuse la porta a chiave, riversandosi sul letto pesantemente, cercando di soffocare il pianto e i singhiozzi. Io non avevo il coraggio di guardarla: provavo per lei una gran pena e non sapevo davvero come poterla aiutare. Ugo intanto dava forti pugni alla porta e temevo che riuscisse a sfondarla, ma finalmente piombò il silenzio e anche io riuscii a prendere sonno.

I giorni seguenti furono più o meno tranquilli, quando una sera entrarono entrambi nella camera da letto. No, mi sto sbagliando, in realtà non entrarono entrambi, perché Aurora fu letteralmente trascinata per i capelli e scaraventata a terra ai piedi dell’armadio.

Le urla di Aurora erano strazianti ma Ugo sembrava che non le sentisse e continuava a percuoterla e a insultarla. Ricordo che le diceva: “Puttana, come puoi pensare che mi terrò un figlio che non è il mio?”. Aurora giurava che quella creatura che aveva in grembo era sua e non capiva come mai potesse accusarla di averlo tradito! Era sempre a casa e usciva solo per fare la spesa… Ugo le aveva vietato pure di andare a trovare sua madre.

Ma lui non la stava a sentire. Io non avrei voluto guardare questa scena così terribile perché mi faceva troppo male, ma era purtroppo il mio destino di persiana: assistere impotente a tutto quello che succedeva intorno a me.

Quello che successe dopo fu ancora peggio e fatico anche a raccontarlo, tanto è il disgusto che ho provato.

Ugo sollevò Aurora sempre prendendola dai capelli e la scaraventò sulla sedia messa proprio accanto al letto, dove Aurora poggiava solitamente i suoi vestiti e dove teneva una bambola che le ricordava la sua infanzia felice. La bambola cadde a terra ma sembrava che anche lei avesse il volto triste.

Poi Ugo prese la cintura dei suoi pantaloni e legò Aurora alla sedia. Quindi le urlò:

– Adesso devi dire “Io sono una puttana” – e le mollò un ceffone.

– Ti prego smettila! Io non ti ho mai tradito! –

– Bugiarda! Dillo che sei una puttana! –  e giù un altro ceffone.

Aurora era stremata e con un filo di voce cominciò a ripetere come una litania biascicata “io sono una puttana” per un’infinità di tempo, fino a quando quell’essere ignobile non la slegò e la prese per le spalle cercando di spingerla verso di me.

Intanto vedevo che a terra si era formata una pozzanghera di sangue e la bambola di Aurora era diventata una macchia rossa.

“Sto male! Sto male! Aiuto!” continuava a ripetere Aurora, ma nessuna poteva sentirla, soltanto io che avrei dato tutte le mie alette di legno lucido pur di aiutarla.

Lei tentava inutilmente di divincolarsi, ma aveva perso tutte le forze, il suo volto era una maschera di sofferenza, deturpato da graffi sanguinanti e lividi, mentre veniva trascinata verso di me.

No! pregai in cuor mio! Non verso di me! Non volevo essere io la causa di ulteriore dolore per Aurora, ma avevo capito che presto Ugo l’avrebbe schiantata contro di me e io in quel momento ho maledetto il giorno che ero stata costruita. La tenda, vedendo la tragedia che si stava consumando, si ritrasse, come se un colpo di vento l’avesse fatta aggrovigliare su se stessa, lasciando me completamente scoperta.

Ma mentre Ugo stava per spingerla pesantemente contro di me, inciampò sulla scarpa che era scappata dal piede di Aurora e fu costretto a fare un mezzo giro su se stesso per non perdere l’equilibrio.

E così fu lui a sbattere di spalle contro di me. E io, che proprio quel giorno non ero stata chiusa bene perché Aurora non riusciva più ad essere attenta come prima, mi aprii così violentemente che ho sbattuto contro il muro a cui ero attaccata con i miei cardini e miriadi di pezzetti del mio legno sono volati da tutte le parti insieme all’intonaco del muro.

Ma insieme ai pezzi, ho visto volare al di là della ringhiera anche Ugo: la ringhiera era davvero troppo bassa e non era riuscita a proteggere Ugo che era caduto all’indietro dal quinto piano.

Io ero letteralmente a pezzi e non riuscivo più a capire nulla di quello che stava succedendo: la paura ha offuscato la mia mente, ricordo soltanto il suono di una sirena e qualcuno che dice di far presto a portar via da lì Aurora perché rischiava il dissanguamento.

Non so che fine abbia fatto Ugo e a dire il vero neanche mi interessa saperlo. So soltanto che circa due mesi dopo quella terribile sera, Aurora è ritornata a casa, è entrata in camera con un grande trolley e dei sacchetti vuoti e ha preso tutto quello che c’era nell’armadio e nei cassetti. Il volto era smagrito ma sereno e non c’era più nessuna traccia della rotondità alla pancia. Ha raccolto da terra anche la sua adorata bambola, benché fosse macchiata, l’ha stretta forte al petto e poi l’ha messa in un sacchetto.

Intanto ha ricevuto una telefonata: era una sua amica che voleva notizie perché era preoccupata per lei; ma Aurora l’ha rassicurata dicendo che ormai era libera e al sicuro e che aveva anche trovato un lavoro; aveva anche preso in affitto una casa più piccola per ricominciare una nuova vita e ritrovare un nuovo equilibrio. E poi… c’era l’infermiere che l’aveva soccorsa quella dannata sera e che le aveva mostrato più che una premurosa professionalità; inoltre, con molta discrezione, le stava dando una mano per risolvere i vari problemi pratici. Sì, tutto sommato Aurora poteva ritenersi fortunata e sentiva in cuor suo che poteva fidarsi di lui… aveva solo bisogno di tempo.

Dopo aver raccolto tutto, Aurora lanciò un ultimo sguardo a quella stanza e poi, lentamente, si è avvicinata a me.

Ricordo benissimo il suo sguardo sorpreso: forse non si aspettava di vedermi così malconcia, così rovinata e pressoché inservibile. Ma, inaspettatamente, ha allungato una mano e mi ha accarezzata con un tocco lieve e io avrei voluto dirle che ero felice di essere riuscita a non farle del male e che le auguravo tutto il bene che si meritava, ma mi sono limitata a ondeggiare lievemente con leggeri scricchiolii di compiacimento.

La casa ha trovato nuovi affittuari che mi hanno sostituita con una bella porta-finestra in alluminio e io adesso mi trovo qui, fatta a pezzi, in un camino che sta per divorarmi. Ma sono contenta. Avrò nel mio ultimo sguardo la dolce carezza di Aurora.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

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