“Abbiamo un riff”

Per “musica yé-yé” si intendeva, negli anni Sessanta, uno stile musicale sempre più diffuso in alcuni Paesi dell’Europa meridionale (specialmente Francia, Spagna e Italia), molto ritmato e diffuso soprattutto fra i giovanissimi di allora.

L’interiezione “yé-yé” veniva spesso aggiunta negli sbrigativi adattamenti dei successi rock e twist provenienti dagli Stati Uniti; le due sillabe rilanciavano il ritmo e mascheravano le parole mancanti (il termine “yé-yé” derivava dall’inglese “yeah! yeah!”, reso popolare dalle band britanniche dalla fine degli anni ’50).

Per progressiva estensione, “yéyé” furono definiti prima lo stile musicale, poi i cantanti e infine un vero e proprio fenomeno di moda. [Ci fu persino un film americano del 1966, “The swinger” del regista George Sydney, che in Italia fu tradotto “La ragazza yè-yè”, con riferimento alla protagonista, che era una ragazza spregiudicata ed arrivista].

In Francia appartennero a questa tendenza giovani cantanti come France Gall, Claude François, Françoise Hardy, Serge Gainsbourg, Sylvie Vartan e Johnny Hallyday; in Italia principali esponenti ne furono Adriano Celentano, Little Tony, Carmen Villani, Anna Identici, Gianni Morandi, Caterina Caselli e – soprattutto – Rita Pavone.

In particolare infatti, come scrive la prof. Rossella Catanese, “l’interprete più celebre delle ragazze yé-yé italiane sarà Rita Pavone: onnipresente sulle pagine delle citate riviste giovanili, la Pavone sembra sempre sprigionare una spensieratezza ribelle, un cambiamento radicale  nell’immaginario  femminile  delle  celebrità: una sorta di Lolita torinese che, nonostante una certa androginia infantile, non si  preclude  l’eccentricità  di  minigonne  e  balli  scatenati,  testi di canzone connotati da passione e seduzione esplicita, nonché analoghi ruoli cinematografici” (“Vespa, Lambretta e Geghegé. Beat e Mods all’italiana”, in AA.VV., Cinema e identità italiana, Collana Spettacolo e Comunicazione, Roma 2019, p. 737).

La fase yé-yé seguiva quella di fine anni ’50 (ancora caratterizzata da una fase tradizionalmente melodica con interpreti come Nilla Pizzi, Claudio Villa, Luciano Tajoli, Gino Latilla), quella dei primi “urlatori” (come Tony Dallara, Adriano Celentano e Joe Sentieri) e dei primi “cantautori” (come Umberto Bindi e la nascente “scuola genovese” o come il grande Domenico Modugno), precedendo invece l’approdo (sulla scia del trionfale successo dei Beatles) alla musica “beat”.

Fu dunque una fase limitata a pochi anni, caratterizzata da un atteggiamento sbarazzino ed esuberante ma ancora non radicalmente contestatore, che comunque non mancava di suscitare scalpore e condanne: basti dire che nella cattolicissima Spagna, ancora sotto il regime franchista, la tendenza yé-yé fu fortemente avversata (e tuttavia nel 1968 una cantante spagnola yé-yé, Massiel, vinse a Londra l’Eurofestival con un tipico brano yè-yè, “La, la, la”).

Fra i brani yé-yé italiani, tutti tanto trascinanti e coinvolgenti quanto musicalmente elementari, ne ricordo qui uno che, al ritmo indiavolato, aggiungeva un testo quanto mai curioso; è “Il Geghegè”, sigla della fortunatissima trasmissione “Studio Uno”, interpretato nel 1966 da Rita Pavone e scritto da Bruno Canfora su testo della regista Lina Wertmüller (era stata lei a dirigere la Pavone nello sceneggiato televisivo “Il giornalino di Gianburrasca”).

La canzone, destinata a un successo travolgente nelle sale da ballo, nelle balere e nelle feste (la nascita delle discoteche risale a qualche anno dopo), aveva un testo sconclusionato ma non troppo. Lo cito qui di seguito (“O voi ch’avete gli intelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ‘l velame de li versi strani”):

«Abbiamo un riff (Geghe geghe geghegè) / che fa così (Geghe geghe geghegè) / e questo riff (Geghe geghe geghegè) / vuol dire che (Geghe geghe geghegè) / il mio saluto è geghegèe (Geghe geghe geghegè). / Forse voi pensate che (Geghe geghe geghegè) / questo geghe geghegè (ge ge ge ge) / voglia dire geghegè (ge ge ge ge) / ed invece questo riff / vuol dire “voglio bene a te!” / E così parliamone fra noi: col geghegè / tu mi puoi dire quello che vuoi ma che dire non sai! / Abbiamo un riff (Geghe geghe geghegè) / che fa così (Geghe geghe geghegè) / io dico a te (Geghe geghe geghegè) / e tu dici a me (Geghe geghe geghegè) / facciamo insieme il geghegeghe! (Geghe geghe geghegè) / E così parliamo tra noi: col geghegè / Tu mi puoi dire quello che vuoi ma che dire non sai! / Abbiamo un riff (Geghe geghe geghegè) / che fa così (Geghe geghe geghegè) / Io dico a te (Geghe geghe geghegè) / Tu dici a me (Geghe geghe geghegè) / Facciamo insieme il geghegè (Geghe geghe geghegè)».

Rita Pavone a “Studio Uno” (1966)

Il problema iniziale era l’interpretazione del termine “riff”; noi ragazzi di allora non lo sapevamo, ma in realtà era un preciso termine musicale: infatti il “riff” è una frase musicale (ossia una successione di note) che si ripete all’interno di una composizione e che in genere viene usato come accompagnamento (qualcuno ipotizza che derivi da un’abbreviazione/alterazione di “refrain”). Ad esempio un “riff” si trova nel brano “I can’t get no) satisfaction” dei Rolling Stones; e anche nella musica classica lo si riscontra nel celebre “Boléro” di Maurice Ravel; non manca poi un impiego frequente del “riff” nella musica jazz (laddove una breve frase musicale, semplice e facile da ricordare, viene utilizzata come sottofondo a improvvisazioni solistiche o come nucleo di un brano musicale).

Il “riff”, nella nostra canzoncina, era il “tormentone” “geghe geghe geghegè” (a me oggi ricorda il “brekekekekèx koàx koàx” che Aristofane faceva intonare al coro delle sue “Rane”). Ma se di “riff” abbiamo potuto trovare un significato, sul frenetico ritornello “geghe geghe geghegè” sembra inutile scervellarsi più di tanto: non vuol dire niente e mira solo ad accompagnare l’incalzante ritmo della danza.

E tuttavia, a voler essere esegeti per forza, c’è anche qualcos’altro. Come osserva ancora ottimamente Rossella Catanese, il testo intende creare “una sorta di linguaggio in codice, ulteriore elemento di consolidazione identitaria all’interno della comunità giovanile”.

Infatti all’incomprensione degli altri e soprattutto degli adulti (e fa sorridere il fatto che i “boomer” di allora se la stiano prendendo con i “pre-boomer” del loro tempo) i ragazzi opponevano la loro decifrazione del messaggio criptato: «forse voi pensate che … / questo geghe geghegè … / voglia dire geghegè … / ed invece questo riff / vuol dire “voglio bene a te!».

Slang e comunicazione cifrata: i giovani (di allora, di sempre) comunicano fra loro in modo che agli adulti appare banale, sibillino e incomprensibile; ma si capiscono perfettamente fra loro e riescono a trasmettersi tutti i messaggi reciprocamente («Io dico a te… / e tu dici a me»). Oltretutto, “geghegeghizzare” il linguaggio era/è molto utile a chi non riesce ad esprimersi come vorrebbe: «E così parliamone tra noi: col geghegè / tu mi puoi dire quello che vuoi ma che dire non sai!».

Su questa linea, è ovvio, il rischio era quello di arrivare al non-sense assoluto, come avvenne con il “Prisencolinensinainciusol” di Celentano del 1972; ma questa fu semmai una scelta di contestazione: contro testi e musiche che proclamavano esplicitamente l’avvento di aria nuova (“Vediamo un mondo vecchio che / ci sta crollando addosso ormai… / ma che colpa abbiamo noi?”, cantavano i Rokes) Celentano, avverso al trionfo del beat, si rifugiava nel non-messaggio, sperando in un ritorno rassicurante al suo rock tradizionale: “Tre passi avanti / e crolla il mondo beat: / una meteora che fila e se ne va” (ma tanto “meteora” il “beat” non fu).

In definitiva, l’effetto travolgente del “Geghegè” si può rivivere su Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=kGrgquI8OVg), guardando la scatenata piccola e giovanissima Rita Pavone che balla ripetendo all’infinito gli stessi frenetici passi (e lanciando così lo “shake” che andava a sostituire il twist degli anni precedenti), accompagnata da un gruppo esuberante di ballerini in giacca e cravatta e da ragazzine con corti abiti a strisce zebrate.

Una ventata di giovinezza, energia e spensieratezza che non a caso riscuote ancora oggi l’approvazione di moltissimi “visitatori” e che non si può rivedere senza un sorriso un po’ nostalgico.

Di Mario Pintacuda

Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico "Andrea D'Oria" e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all'Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E' sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.

1 commento

  1. Molto interessante la ricostruzione di un momento storico/sociale che ho vissuto parzialmente (sono nato nel 1959) ma ricordo come un’epoca sostanzialmente spensierata, rispetto agli orrori odierni…
    Complimenti anche per il livello della scrittura: in un mondo pieno di analfabeti di ritorno è sempre più raro.

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