Sabato 31 luglio 1971 con i miei familiari partii nel pomeriggio dall’aeroporto di Palermo con un volo per Roma; da Fiumicino proseguimmo alle 19,30 con il volo BEA 426 per Atene.
Per me era un doppio “battesimo”: battesimo dell’aria (prima volta che prendevo un aereo) e prima volta che uscivo dall’Italia. Avevo diciassette anni ed ero molto emozionato da questo viaggio: allora non esisteva il turismo di massa, non c’erano voli low cost, non c’erano per i giovani le opportunità che esistono oggi per viaggiare, soprattutto all’estero.
La Grecia era allora, da quattro anni, sotto la feroce dittatura dei “colonnelli”: e ricordo che all’arrivo al vecchio aeroporto Hellinikòn di Atene, verso le 21,30 locali, i controlli dei bagagli furono molto minuziosi. Sulle pareti si vedevano molti poster con l’immagine minacciosa di un soldato armato di fucile, con la data “21 ΑΠΡΙΛΙΟΥ” (quella del sanguinoso “golpe” del 1967).
Il viaggio era organizzato: ci venne a prendere all’aeroporto un certo Yannis, che parlava solo inglese.
All’epoca io non conoscevo minimamente il greco moderno, mentre dell’inglese avevo solo una preparazione scolastica prevalentemente letteraria; ma neanche gli altri erano messi meglio: i miei avevano studiato francese, mia zia faceva scherzosamente ricorso a colorite espressioni “baariote” nell’improbabile tentativo di farsi capire e mio cugino sorrideva divertito, riprendendo tutto con la sua attrezzatura fotografica.
Arrivammo verso le 22,30 al centro di Atene, all’Hotel Omonia nella piazza omonima. Ricordo che fui colpito dalle fantasmagoriche luci multicolori che sfavillavano in città: immagini gigantesche delle sigarette Papastratos (ΠΑΠΑΣΤΡΑΤΟΣ) e del brandy Metaxa si accendevano e si spegnevano in continuazione.
Il traffico automobilistico era intenso ma velocissimo. La fontana della piazza era illuminata con diversi colori e sciabordava acqua a fiotti.
Prendemmo possesso delle nostre camere, ma nessuno di noi aveva sonno; così uscimmo subito per vedere con i nostri occhi quella bella piazza, sfavillante di luci e di colori e affollatissima di gente.
Immediatamente però due elementi vennero a contraddire il quadro idilliaco precedente: l’aria era infuocata (c’erano almeno 32° alle undici di sera) e le nostre narici furono colpite da un forte e acre odore di arrosto; proveniva da un chiosco che somigliava a una nostra rosticceria: ma sugli spiedi, all’aperto nella pubblica piazza, non giravano polli bensì teste di capretto, che erano avidamente azzannate da clienti accaldati.
Il look tipico dei greci di allora era quello che da noi si era usato dieci anni prima: quasi tutti maschi, quasi tutti con camicie bianche con le maniche corte, molti con baffetti neri, tutti con i capelli corti (il regime aveva proibito tutte le manifestazioni “sessantottine” che allora dilagavano ovunque).
Non volendo “aggangare” i crani ovini, comprammo un’anguria e delle bibite. Intorno a noi risuonavano le voci dei venditori ambulanti di “propò” (biglietti, credo, del Totocalcio locale) o di “patatàkia” (patatine); la gente chiacchierava a voce alta, incomprensibile. Le scritte fosforescenti, in caratteri greci maiuscoli, accentuavano in me il senso di estraneità (a scuola le maiuscole erano ovviamente in minoranza nei nostri esercizi di lettura).
Quando ci ritirammo in camera verso l’una, il caldo soffocante ci impedì a lungo di riposare (all’epoca gli alberghi, tranne quelli di prima categoria, non avevano aria condizionata né ventilatori).
Nei giorni successivi, dopo aver visitato Atene e l’acropoli, andammo l’1 a Capo Sounion, il 2 in minicrociera alle isole di Hydra, Poros ed Egina, il 4 nel Peloponneso (a Corinto, Micene, Nauplia ed Epidauro), il 6 a Delfi e al monastero di Ossios Loukàs (Ὅσιος Λουκᾶς, oggi patrimonio dell’umanità).
Non ci lasciammo sfuggire un fantastico spettacolo “sound and light” di fronte all’acropoli il 3 sera e le bellissime danze del gruppo folkloristico di Dora Stratou.
Come si può capire, quello fu per me un viaggio “importante”: a distanza di tanti anni lo ricordo ancora con molto piacere, a volte rivedendo le foto e i filmini di mio padre.
Qualche anno dopo, all’università di Genova, ebbi modo di conoscere dei ragazzi greci che erano scappati dal loro Paese per sfuggire alla dittatura; fra loro, uno fu scelto dal Preside di Facoltà, Umberto Albini, per tenere un corso informale di neogreco, che frequentai con molto interesse, imparandone così i primi rudimenti e riuscendo poi nel giro di due anni a “cavarmela” adeguatamente in questa lingua. Solo allora cominciai a capire tante cose che nel primo viaggio mi erano rimaste oscure o mi erano sembrate strane; e con il senno di poi compresi meglio molti dettagli che mi erano sfuggiti per ignoranza.
In seguito sono tornato altre volte in Grecia; vi sarei dovuto tornare anche l’anno scorso, se il Covid non avesse deciso diversamente. Tuttavia ancora oggi, se devo citare un mio ricordo ellenico, penso a quel primo impatto con quell’Atene un po’ Las Vegas e un po’ Ballarò, a quel caldo soffocante, a quelle giornate in giro per quella terra dal fascino millenario, con quelle scritte in tutte maiuscole, così ostiche alla mia pseudocultura di liceale.
E forse quel viaggio fu corresponsabile e “galeotto” della mia scelta, l’anno dopo, di iscrivermi in Lettere classiche: ahimè, quante generazioni future di alunne e alunni avrebbero forse preferito che io quell’estate me ne fossi restato a Baarìa, magari tuffandomi nel verde mare dell’Olivella!