Il 31 agosto, per tanti anni della mia vita, è stato il giorno del rientro a Genova dopo due mesi passati in Sicilia, a Bagheria, per le vacanze estive.
Mio padre, mia madre e io ripartivamo col Treno del Sole da Palermo, accompagnati alla Stazione Centrale in macchina da numerosi parenti che venivano a salutarci. Eravamo abbondantemente riforniti di provviste per il lunghissimo viaggio, un po’ tristi per il congedo da tante persone care e dalle vacanze, frastornati da saluti, consigli, auguri.
Il viaggio era interminabile. Si partiva la mattina, in genere verso le 9.30. Noi viaggiavamo, almeno dagli anni Sessanta, nelle carrozze a cuccette, che venivano montate la sera, quando si arrivava a Salerno.
La giornata passava giocando a carte, leggendo, affacciandosi al finestrino e facendo quattro passi nel corridoio, mentre il direttissimo sferragliava sulle rotaie il suo ritornello interminabile: tatàn tatàn, tatàn tatàn. Io leggevo e rileggevo la famigerata scritta in 4 lingue (“Non gettare alcun oggetto dal finestrino – Keine gegenstände aus dem Fenster werfen – Ne pas jeter aucun objet par la fenêtre – Do not throw anything out of the window), che fu forse il primo input alla mia futura carriera di presunto poliglotta.
A ora di pranzo si traghettava. Mia madre preferiva restare in treno (nel ventre del ferryboat) a controllare le valigie, mentre io e mio padre salivamo a prendere un po’ d’aria; vedevamo la Sicilia allontanarsi e salutavamo la Madonnina (“Vos et ipsam civitatem benedicimus”), guardavamo le montagne calabre che si avvicinavano, a volte mangiavamo un boccone nel ristorante (in inverno mi piacevano molto le pastine in brodo del traghetto). Dopo lo sbarco nel continente, il treno sostava a lungo a Villa San Giovanni, per poi scalare la penisola attraverso le infinite Calabrie (il plurale ci sta tutto). Tatàn tatàn tatàn tatàn.
A volte si trovava qualche compagno di viaggio simpatico e si fraternizzava, altre volte si incappava in mutàngheri scucìvoli e ci si limitava a frasette di circostanza.
Alla fine del lungo pomeriggio si vedeva finalmente la splendida costiera amalfitana. Prima di Salerno, verso le 19,30, un addetto montava le cuccette; a quel punto eravamo praticamente sfrattati e costretti o a migrare in corridoio o a stare seduti ingobbiti sotto la cuccetta più bassa.
A Napoli Centrale si arrivava verso le 21: ricordo le grida dei venditori (“Caffè caffè”), l’altoparlante (allora umano) che dava le informazioni, il frastuono della gente. Ripartendo, si aveva l’impressione di “cambiare direzione”, perché la stazione era “chiusa” e si doveva uscire in senso inverso.
Iniziava quindi la lunga notte (tatàn tatàn), coricati in quei loculi angusti (i primi anni viaggiavamo in II classe e di cuccette ce n’erano sei per ogni scompartimento), sballottati dal treno (tatàn tatàn), con soste inspiegabili in campagna che culminavano dopo alcuni minuti in un fischio liberatorio, che segnava la ripartenza del convoglio (ritatàn ritatàn).
A fine agosto da Roma in su c’era già fresco: e la copertina di lana paramilitare fornita dalle Ferrovie dello Stato era immancabilmente utilizzata.
La mattina era qualcosa di straordinario, che non ho dimenticato mai in tutta la mia vita. Mi svegliavo e vedevo dal finestrino lampi di paesaggio ligure fra una galleria e l’altra, squarci sublimi di rocce e mare, fulmini di pini marittimi, nanosecondi di spiagge incantevoli, epifanie effimere di borghi colorati e pulitissimi. Il treno sembrava volare: tatàn tatàn, a velocità folle per quella regione aspra e stupenda, stretta e lunga. Una folle corsa che terminava infine (supertatàn supertatàn) con lo sferragliare del moltiplicarsi dei binari, da uno a due a dieci a venti, con l’arrivo a Genova Brignole.
Si scendeva nell’aria pungente del primo mattino, verso le 6,30; il lungo viaggio, anche per quella volta, era finito. Prendevamo allora un taxi che in pochi minuti ci riportava nella nostra casa di corso Sardegna.
Ricordo i numerosi bagagli, l’apertura delle persiane, la riappropriazione della mia stanza, le valigie svuotate, le provviste, un clima suggestivo di ripresa, di ripartenza, di speranza.
Alle 8,30 mio padre scendeva e andava al vicino forno a comprare la focaccia.
Chi non è di Genova non sa, non può capire né immaginare che sublime invenzione sia la focaccia genovese (le “pizze bianche” malamente ribattezzate “focaccia” in tutta Italia non ne sono parenti nemmeno lontanamente). Io aspettavo con ansia il ritorno di papà; e quando entrava in casa si sentiva il profumo inebriante che emanava dall’involucro che portava. Allora, come in un rito sacro, tutti e tre ci mettevamo a tavola e assaporavamo quel ben di Dio. E anche se le vacanze erano finite, anche se eravamo soli e lontani dai parenti, anche se ci attendeva un nuovo anno scolastico ricco di impegni e fatiche, quel momento ce lo godevamo tutto ed era come se la focaccia, calda, fragrante, profumata, ci dicesse: “bentornati”.