L’Achilleide fu l’ultima opera del poeta napoletano Publio Papinio Stazio, che visse in epoca flavia e fu attivo soprattutto al tempo dell’imperatore Domiziano (81-96). Di questo poema incompiuto (dovremmo forse dire, “progetto di poema”), restano due libri: il I di 960 versi, il II di soli 167.
Come è noto, Dante immagina un incontro con Stazio nel XXI canto del Purgatorio: il poeta latino, punito tra i prodighi, appare sul punto di salire in Paradiso, in ossequio alla leggenda che voleva che si fosse segretamente convertito al cristianesimo. In questo episodio, Stazio afferma: “cantai di Tebe, e poi del buon Achille, / ma caddi in via con la seconda soma” (Purg. XXI 92-93); l’opera restò dunque incompiuta per la morte dell’autore.
L’intenzione (ambiziosissima) di Stazio era quella di cantare le gesta di Achille, dalla nascita alla morte (e forse anche oltre, con riferimento alle nozze oltremondane di Achille ed Elena); il poeta voleva entrare in diretta competizione con Omero, trattando anche le parti della vita del Pelìde che erano rimaste fuori dalla trattazione dell’Iliade.
Nel I libro vengono narrate le vicende della giovinezza di Achille, e principalmente il suo occultamento in vesti femminili presso la reggia di Licomede a Sciro; tale espediente è ideato dalla madre Teti, che vuole così sottrarre il figlio alla spedizione dei Greci contro Troia, sapendo che Achille dovrà morire in quell’impresa. Viene quindi narrato l’amore di Achille per Deidamia (da cui nascerà il figlio Pirro); infine l’eroe viene riconosciuto da Ulisse e deve partire per la guerra. Nel II libro, avvenuta la partenza della spedizione, Achille racconta ai compagni gli anni da lui trascorsi col suo precettore Chirone.
Aristotele, nella Poetica (1454 b 14), aveva affermato che per Omero Achille rappresentava un παράδειγμα σκληρότητος, un “esempio di durezza”; e anche Orazio, nella sua Ars poetica, aveva indicato i caratteri “tradizionali” della figura di Achille: “Un Achille che si rispetti sarà sempre pronto, irascibile, spietato, aggressivo, al di sopra di ogni legge, senza altra legge che le armi” (Epist. II 3, 120-122). Stazio intende invece presentare un Achille diverso, inedito, più “umano”; in questo si ispirava al precedente costituito dall’elegia latina, soprattutto da Ovidio: in quel contesto il personaggio-simbolo del mondo eroico aveva subìto una mutazione, assumendo tratti inediti e alternativi rispetto al modello omerico.
Il poeta napoletano dunque presenta un Achille puer, travestito da donna, costretto a mimetizzare e mortificare la sua natura maschile; e anziché la “vestizione” tipica degli eroi omerici, che indossavano le loro splendide armi per affrontare le battaglie, si ha in Stazio una ben diversa “vestizione” del giovane Pelìde: “lo vede incerto la madre, e voglioso di esser costretto, e gli mette i vestiti; poi gli fa tener meno rigido il collo, gli abbassa le spalle spaziose, gli rilassa le braccia robuste, gli assetta i capelli scomposti e i propri gioielli li affida a quel collo a lei tanto caro; e mentre la veste dal lembo ricamato gli rende il passo impedito, gl’insegna come camminare e come muoversi, e il ritegno nel parlare” (I 325-331, trad. Rosati).
È poi l’amore per Deidamia a vincere le rimostranze di Achille, dapprima poco propenso a questo inglorioso travestimento. Diversi momenti del poema sono costruiti su un sottile gioco ambiguo (ricordiamo che Achille è “travestito” da donna), per cui si crea un clima da “commedia degli errori” quanto mai lontano dal mondo omerico; il poeta assume un atteggiamento divertito, che ricorda da vicino quello dell’Ovidio delle Metamorfosi.
Altro tema importante nell’Achilleide è quello del furtum, dell’“astuzia” di Teti, che escogita l’inganno che dovrebbe salvare il figlio; ma sarà un eroe callidus quanto Teti, cioè Ulisse, a smascherare Achille. Il Laerziade e Diomede portano dei doni alle figlie di Licomede e tra questi doni è uno splendido scudo, alla cui vista Achille ingenuamente si tradisce (I 852-857). Achille viene scoperto; deve quindi lasciare Sciro e abbandonare Deidamia; prima però le giura solennemente di restarle fedele. Stazio nell’ultimo verso del I libro commenta maliziosamente l’inconsistenza delle promesse del Pelìde: “inrita ventosae rapiebant verba procellae” (“parole vane, che la tempesta dei venti disperde”, I 960; l’espressione riecheggia un verso di Catullo, relativo all’abbandono di Arianna da parte di Teseo: cfr. LXIV 58 ss.). È implicito qui il riferimento al futuro amore di Achille per Briseide (se non all’amore omoerotico per Patroclo), che lo indurrà a scordare il suo primo amore.
Tuttavia, al momento della partenza, Achille ha un nuovo momento di passionale debolezza nei confronti di Deidamia: “volge indietro furtivo lo sguardo alle mura dilette e pensa alla vedova casa e al pianto di lei abbandonata: gli rinasce in cuore segreta la fiamma e il valore vien meno” (II 27-30). La scelta “eroica” di Achille non è dunque priva di tentennamenti, rivelando una sorta di rimpianto per un’esistenza “borghese”.
In definitiva, l’Achilleide è un poema epico soltanto di nome; mancano i meccanismi tradizionali, i topoi del genere letterario; prevalgono gli influssi elegiaci, i riferimenti alla vita quotidiana e privata (sembra di tornare all’atmosfera delle Silvae). Non a caso si è parlato di un gusto “neoclassico” (tra gli estimatori del poema vi fu Goethe) e l’Achilleide è stata da molti critici anteposta alla Tebaide.
Come esempio di questa prospettiva, cito, nella traduzione di Gianpiero Rosati, un brano dell’Achilleide (I 560-587) che mostra Achille impegnato in una corte assidua nei confronti di Deidamia; la fanciulla ormai ha scoperto l’identità del Pelìde e diventa sua complice nel travestimento, conscia culpae (v. 562), atteggiandosi addirittura a sua maestra di… femminilità. L’amore clandestino è descritto con un’alternanza di momenti idilliaci e maliziosi, in un contesto che non ha nulla di epico, ma presenta invece risvolti “comici”.
«Ma lontano da lì Deidamia, ella sola, aveva intanto scoperto, in un amore furtivo, che sotto le sembianze di un sesso non suo l’Eacìde era un uomo. Ma ha coscienza della sua colpa segreta, e ha paura di tutto, pensa che nel loro silenzio le sorelle abbiano capito. Come infatti il rude Achille si ritrovò in quel gruppo di fanciulle e la partenza della madre lo liberò dalla sua primitiva vergogna, subito la sceglie come compagna, sebbene l’intero stuolo gli sia d’intorno, e senza che lei tema nulla di simile la lusinga tendendole nuove insidie: la segue e le sta sempre dappresso, sfrontato, e sempre su lei torna a fissare lo sguardo. Ora, senza che lei cerchi di evitarlo, si accosta troppo al suo fianco, ora la colpisce con ghirlande leggere, ora con ceste che le si rovesciano addosso, ora con lievi colpi di tirso, ora le mostra le corde armoniose dell’usata lira e i ritmi delicati e i canti di Chirone, e le guida la mano forzandone le dita sulla cetra sonora, ora, mentre lei canta, le prende le labbra e la stringe nelle sue braccia e la loda fra mille baci. E lei apprende contenta quanto sia alto il Pelio, e chi sia l’Eàcide, e al sentire il nome del fanciullo e le sue imprese resta ogni volta stupita e canta di Achille davanti a lui stesso. Anche lei gli insegna sia a muovere con più contegno il corpo robusto sia ad affinare, con il movimento del pollice, la lana grezza, e gli riassesta la conocchia e le matasse scomposte dalla sua mano rude. Ma resta stupita anche dal suono della voce e dalla forza delle sue strette e – cosa che sfugge alle sue compagne – che la fissi con occhio troppo insistente e che sospiri senza motivo mentre lei parla; e quand’ecco che sta per svelarle l’inganno lei scappa, con la sua leggerezza di fanciulla, e gli impedisce di rivelarsi».