Il termine “technopàignion” (τεχνοπαίγνιον, composto da τέχνη “arte” + παίγνιον “gioco, passatempo”) designa un carme figurato, che imita la forma di un oggetto con l’impiego di versi di lunghezza differente; se ne hanno esempi anche in prosa (ad es. in alcune epigrafi).
L’inventore di tale genere viene ritenuto il poeta elegiaco Simia (o Simmia) di Rodi, vissuto nel III sec. a.C., cui sono attribuiti tre componimenti figurati giunti fino a noi: L’uovo (Ὠιόν), La scure (Πέλεκυς) e Le ali (Πτέρυγες).
Il primo di essi, oltre ad avere il profilo di un uovo, va letto assecondandone la forma: alla prima riga del componimento segue l’ultima, poi la seconda e la penultima, la terza e la terzultima, fino ad arrivare al centro dell’uovo. Si procede dal monometro al decametro nella prima strofe, per tornare al monometro nella seconda; ai metri giambici se ne alternano altri (piedi cretici, peoni, coriambi, molossi, spondei, ecc.).
Eccone l’aspetto:
Nel carme il poeta si definisce “usignolo dorico” (Δωρία ἀηδών), con riferimento esplicito a Bacchilide, che nel suo Epinicio III si era definito “usignolo di Ceo”.
L’altro carme di Simia, le Ali, non è monostrofico, ma risulta articolato in due strofi di sei versi coriambici, appartenenti al genere che il metricologo Efestione chiama “antitetico”, dato che in essi il primo esametro della prima strofe corrisponde metricamente all’ultimo della seconda strofe, il secondo pentametro della prima strofe al penultimo della seconda strofe, e così via.
Quanto al terzo componimento di Simia, la Scure, “il πέλεκυς non è una bipenne a due lame. […] È invece una scure, un’ascia, un’accetta. Epèo non è infatti un soldato, ma un carpentiere. Le due strofi non rappresentano perciò le due lame di un’arma, ma si fingono incise sulle due facce di un’unica lama della scure, sicché […] è facile supporre che il poeta, con un pizzico di intellettualistico realismo, abbia voluto rappresentare la lama della scure – per così dire – nella sua tridimensionalità; insomma, che abbia costretto il lettore ad immaginarsi con l’attrezzo in mano, mentre legge il carme partendo dall’estremità della lama e procedendo verso il manico, ma girando l’oggetto alla fine di ogni verso, cosicché l’ultimo verso della seconda strofe, inciso sulla faccia posteriore della lama, segua del tutto naturalmente il primo verso della prima strofe, inciso sulla faccia anteriore” (P. D’Alessandro, Carmina figurata, carmi antitetici e il Pelecus di Simia in “Incontri di filologia classica” 11, 2011-2012, pp. 146-147).
Lo spunto di questo tipo di componimenti era sicuramente offerto da una pratica effettivamente diffusa in ambito cultuale o magico, però essi diventarono più che altro occasione per uno sfoggio di bravura tecnica, per un “divertissement” rivolto a συνετοί, cioè “intenditori” di poesia.
Come commentava il Perrotta, questi antichi τεχνοπαίγνια «sono soltanto esercitazioni poetiche, giochetti ingegnosi, che a noi moderni non piacciono più, ma piacevano molto ancora nel Rinascimento… gli imitatori introdussero in questi carmi veri e propri indovinelli eruditi, che in Simia non c’erano. Così il gioco diventava più difficile, se non proprio più divertente».
Un altro celebre esempio di carme figurato è la Zampogna (Σύριγξ) di Teocrito (nel XV libro dell’Antologia Palatina, fra gli “epigrammi miscellanei”). I suoi venti versi sono disposti a coppie, ognuna più corta di una sillaba rispetto alla precedente (il metro va da un esametro ad un dimetro catalettico).
Qualcuno ha notato che la forma della zampogna risultante dai versi non è quella rettangolare, che compare nei monumenti figurati contemporanei, per cui ha nutrito dubbi sull’autenticità del carme. In realtà, però, la syrinx o flauto di Pan aveva una forma diversa dalla nostra zampogna, essendo costituita, come rileva il Comotti, “da una serie di zufoli di intonazione decrescente legati tra loro”; nel carme dunque il poeta intende rendere il graduale digradare della lunghezza delle canne, inserendo versi sempre più brevi.
Eccone il testo:
Altri due componimenti del genere, entrambi intitolati L’altare (Βωμός), erano attribuiti ai poeti Dosiada (forse cretese, vissuto nella prima metà del III sec. a.C.) e Besantino (di età adrianea).
Il Βωμός di Dosiada (A.P. XV 26) è in dialetto dorico e in metri giambici di varia lunghezza (dimetri, trimetri e trimetri ipercatalettici) che riproducono le varie parti dell’altare.
Come nota Paolo D’Alessandro “sia l’autore della Σῦριγξ sia Dosiada concepirono i loro componimenti come iscrizioni dedicatorie: l’oggetto dedicato è, rispettivamente, un flauto di Pan e un altare. Come ricordava il Perrotta, inoltre, entrambi aggiunsero alla complessità del gioco metrico un altro tipo di artifizio: l’allusione erudita, che è quanto dire l’indovinello. Nella Σῦριγξ è Paride, ovvero Simícida (v. 12), ovvero Teocrito stesso, che dedica lo strumento al dio Pan: questi dovrà servirsene per modulare dolci canzoni alla sua Eco. Il dio non è però mai chiamato per nome, ma indicato con tutta una serie di circonlocuzioni. […]. Nel caso dell’Altare, invece, protagonista è Giasone, che consacra a Crise un altare nella omonima isola presso Lemno”. (art. cit., p. 137).
L’Altare di Besantino si compone invece di ventisei versi, le cui lettere iniziali, lette in sequenza verticale, formulano un augurio (ΟΛΥΜΠΙΕ ΠΟΛΛΟΙΣ ΕΤΕΣΙ ΘΟΣΕΙΑΣ).
L’unione della dimensione figurata e della struttura acrostica, attestata in Besantino, ebbe successo a Roma e culminò in età costantiniana nei complicati giochi verbali e metrici di Optaziano Porfirio, poeta e senatore romano del IV sec. d. C.).
Il genere del carmen figuratum era però arrivato a Roma molto prima di Optaziano Porfirio, giacché a quanto pare ne aveva già composti nel sec. I a.C. il preneoterico Levio.
In epoca moderna si usa la definizione di “calligramma”, sempre per indicare un tipo di componimento poetico fatto per essere “guardato” più che che per essere letto (“poesia visuale”). Tuttavia, mentre gli eruditi antichi si limitavano a ricercare in questi “giochi” un piacere intellettuale, sfidando i lettori nell’interpretazione del componimento, al fruitore moderno viene in genere richiesto un impegno intellettuale attivo e viene proposto anche un messaggio.
In particolare il procedimento fu adottato dalle avanguardie letterarie all’inizio del Novecento, ad es. dal poeta cubista francese Guillaume Apollinaire (1880-1918); nella rappresentazione dell’orologio in La cravate et la montre (La cravatta e l’orologio), Apollinaire propone una mutata concezione del tempo, contrapponendosi alla concezione tradizionale.
Il poeta creazionista cileno Vicente Huidobro incluse nel 1913 un calligramma, Triangolo armonico, nel suo libro Canzoni nella Notte (Canciones en la Noche). Secondo Huidobro, la poesia è un atto di creazione assoluta; in quanto tale, essa non ha bisogno di un significato esterno, dato che trova senso e bellezza nei suoi propri segni; è dunque “una poesia nella quale ogni parte che la costituisce, e tutto l’insieme, mostra un fatto nuovo, indipendente dal mondo esterno”. Ecco il calligramma di Huidobro:
Tra gli altri autori di calligrammi si possono ricordare gli spagnoli Guillermo de Torre, Juan Larrea e Gerardo Diego, il cubano Guillermo Cabrera Infante, l’argentino Oliverio Girondo, il messicano Juan José Tablada, l’uruguaiano Francisco Acuña de Figueroa, i catalani Joan Salvat-Papasseit e Joan Brossa. In Italia alcuni componimenti del futurista Filippo Tommaso Marinetti possono rientrare in questo genere.
Grazie professore per le sue spiegazioni! Mi piacerebbe trovare una traduzione in italiano de “L’uovo” di Simia. Esiste? Nel mio piccolo, decoro gusci di uova e mi stuzzica l’idea di trasferire il testo su un guscio vero.
Corradina Inca Carveni
Per ora non mi risulta. Mi informerò… Grazie della sua attenzione. Cordiali saluti MP