Giovedì 3 ottobre 1968 mio padre acquistò per 36.000 lire, nel negozio musicale “Ciglia” di Genova, un registratore portatile a cassetta della Philips.
Si trattava di una svolta epocale: prima infatti, dal 1959, per registrare quelli che oggi si chiamerebbero “audio”, avevamo a casa un magnetofono G 256 della ditta Geloso di Milano, costato all’epoca 38.000 lire (come si vede, i prezzi allora aumentavano ben poco a distanza di anni).
Questo precedente, storico registratore Geloso a nastro, che conservo ancora “gelosamente” (è il caso di dirlo), aveva quattro tasti rotondi di diverso colore: il verde per l’ascolto, il rosso per la registrazione (previo collegamento di un microfono), il giallo per il riavvolgimento e il nero per lo stop; per andare avanti rapidamente (il tasto “fast forward” di oggi) esisteva una levetta da spostare verso sinistra (con la scritta inequivocabile “avanti rapido”). Da bambino mi divertivo un mondo a schiacciare questi tasti, che facevano un sonoro “clak” quando erano pressati.
Come diceva il libretto d’istruzioni, il registratore Geloso poteva “registrare la voce di persone care e quanto avviene sotto forma di parole, suoni musicali o rumorio durante avvenimenti qualsiasi e cerimonie, consentendone il perfetto riascolto anche a distanza di molti anni”. Indicazione profetica, quest’ultima: mi rimangono infatti moltissime registrazioni realizzate con quel glorioso magnetofono, dal 1959 al 1968, quando fu spodestato – come dicevo all’inizio – dal moderno registratore “a cassetta”.
L’audiocassetta era un dispositivo a memoria magnetica, che memorizzava dati e informazioni in sequenza su nastro magnetico. Era composta da due bobine, racchiuse in un contenitore di materiale plastico, che raccoglievano il nastro magnetico utilizzabile su ambo i lati (lato “A” e lato “B”) per registrare o riprodurre materiale sonoro.
Ideata dalla Philips agli inizi degli anni Sessanta, ebbe grande diffusione fino agli anni Novanta, diventando, insieme ai dischi in vinile, il supporto più diffuso per l’ascolto di contenuti audio. La produzione massiccia delle audiocassette iniziò in Germania, ad Hannover, nel 1965; da allora le case discografiche pubblicarono album sia su disco in vinile che su musicassetta.
La diffusione fu enorme: le “cassette” erano maneggevoli, versatili, facili da usare ed economiche. Certo, a volte il nastro si aggrovigliava o si rompeva e la qualità del sonoro non era paragonabile a quella odierna; tuttavia le “audiocassette” furono sempre più comuni per la registrazione di brani musicali e per l’ascolto di musica nelle automobili.
Le audiocassette caddero in disuso agli inizi degli anni Duemila, con la diffusione di tecnologie digitali come i lettori mp3 e i masterizzatori DVD.
Da quel giorno di ottobre del 1968 io, che avevo allora 14 anni, fui preso da una specie di frenesia “registratoria”: registravo di tutto, portavo il registratorino ovunque (me lo portai in Grecia nel 1971, nel mio primo viaggio all’estero).
Fra l’altro, “riversai” su cassetta dai vecchi nastri Geloso le antiche registrazioni di epoca precedente; fu quello il primo step della mia futura carriera di “riversatore”, culminata di recente nel passaggio in mp3 di molte di quelle antiche registrazioni grazie a un apposito convertitore digitale.
Conservo ancora oltre 200 antiche audiocassette, numerate progressivamente: ne ho un ordinatissimo indice generale, realizzato da mio padre (e via via anche da me) ed ora digitalizzato. Le cassette sono delle marche più varie (Scotch, TDK, Emitape, Agfa, Kodak, Basf, GBC, ecc.) e di varia lunghezza (60’ o 90’ o persino 120’ di registrazione).
Per citare solo le prime audiocassette dell’elenco, vi si trovano scene registrate per le strade di Bagheria o di Genova, antichi programmi radiofonici (ad es. “Alto gradimento” di Arbore e Boncompagni, “Il gambero”, “Gran varietà”, radiogiornali, ecc.), trasmissioni televisive (una sorta di Raiplay senza immagini!), esecuzioni al pianoforte o al clarinetto da parte di mio padre, strimpellamenti miei al piano in alcune composizioni giovanili, scenette comiche, canzoncine surreali (in una canto “Pancreas”, una mia hit del tempo, con un testo surreale), imitazioni (ero bravissimo a imitare i campioni di ciclismo, specialmente Felice Gimondi ed Eddy Merckx), ecc.
Non si può dire, oggi, la commozione che desta in me l’ascolto della voce di tante persone che non ci sono più. E vedendo stipate nei cassetti del mio studio quelle vecchie gloriose “audiocassette”, sono contento di poter “rivivere” grazie ad esse situazioni, momenti e scene di tanti anni fa.
A proposito di questa mia ricorrente tendenza a rivangare aspetti e momenti del passato, oltre a invocare a mia difesa l’incalzare dell’età, mi piace ricordare una riflessione di Tomasi di Lampedusa, che ho ritenuto condivisibile fin da quando ero ragazzo: «Quello di tenere un diario o di scrivere a una certa età le proprie memorie dovrebbe essere un dovere “imposto dallo stato”: il materiale che si sarebbe accumulato dopo tre o quattro generazioni avrebbe un valore inestimabile: molti problemi psicologici e storici che assillano l’umanità sarebbero risolti. Non esistono memorie, per quanto scritte da personaggi insignificanti, che non racchiudano valori sociali e pittoreschi di prim’ordine» (dall’ Introduzione a “Ricordi d’infanzia”).