Sto rileggendo l’“Agamennone” di Eschilo, in vista di una mia imminente conversazione (in occasione della riproposizione di questo dramma negli spettacoli di Siracusa).
Questo testo non smette mai di sorprendere per la sua sconcertante attualità.
Nel I stasimo il coro dei vecchi argivi, con riferimento alla recente notizia della conquista di Troia, demistifica ogni trionfalismo e chiarisce l’alto prezzo che ha la vittoria: «Al posto di uomini tornano adesso alla casa di ognuno / ceneri e urne» (vv. 434-436).
Con un’immagine audace (tipica del visionario linguaggio eschileo) Ares, il dio della guerra, viene definito «cambiavalute che scambia corpi umani»: infatti «da Ilio rimanda ai parenti / una polvere greve, bruciata sul rogo, / che suscita amaro pianto, / riempiendo di cenere in cambio d’uomini / i vasi, carico leggero» (vv. 440-444).
In altre parole, sono partite per la guerra delle persone, ma ora torna il loro “cenere muto” (per dirla con Foscolo).
Intanto, continua il coro, va crescendo il malcontento popolare: «Grave è la voce dei cittadini accompagnata dall’ira, / e (?) paga il debito di una maledizione scagliata dal popolo» (vv. 456-457). Nel testo manca il soggetto di “paga” (τίνει): l’accusa a chi comanda è larvata, deve fare i conti con la censura, con la punizione per chi usa un linguaggio “proibito”.
I vecchi comunque non hanno dubbi: chi provoca stragi pagherà. Infatti, «su chi causa la morte di molti / gli dèi non mancano di volgere lo sguardo, / e le nere Erinni oscurano col tempo / colui che ha fortuna senza giustizia, / logorandone la vita e rovesciandone la sorte» (vv. 461-465). Chi si macchia le mani di sangue, prima o poi viene “visto” dagli dèi, che lo puniscono inesorabilmente e “capovolgono” il suo destino.
Di fronte a ciò, il coro preferisce per sé «una prosperità che non susciti invidia» e formula un augurio: «Ch’io non sia distruttore di città (πτολιπόρθης)».
Nel successivo II episodio entra in scena un araldo (κῆρυξ), che annuncia il ritorno di Agamennone e conferma la conquista di Troia. Ma questo reduce non ha un atteggiamento trionfalistico: rievoca infatti i disagi e i tormenti che i soldati hanno provato durante la guerra: «C’era forse qualcosa di cui non ci lamentavamo, o che non ricevevamo come razione giornaliera di sofferenza?» (vv. 556-557).
Il messo parla di fatiche, di notti angoscianti sotto le intemperie, di pidocchi, di gelo, di fame, di sete: questa, al di là di ogni retorica, di ogni copertura ideologica, di ogni fiducia “radiosa”, di ogni mistificazione o mimetizzazione lessicale, è la guerra. Lo sapeva bene Eschilo, che – come il pubblico ateniese – aveva combattuto varie volte.
Solo chi non ha provato nella sua carne e nel suo sangue la guerra può idealizzarla o giustificarla.
Andrà ancora oltre Euripide, che nella sua “Elena” arriverà a dire che la guerra di Troia si era fatta per un “fantasma”, per un’immagine di sogno. Infatti la vera Elena non era mai andata a Troia, ma gli dèi avevano inviato al suo posto un “èidolon” fasullo, un “doppio” illusorio, in nome del quale migliaia di uomini avevano combattuto e si erano ammazzati per dieci anni.
Ogni guerra, allora, è – come quella condotta dai Greci a Troia – l’inseguimento di un vano “fantasma”, è uno scannarsi per niente, è un soffrire dolori inutili ed evitabili.
Nel dramma euripideo è un messaggero, persona semplice e spontanea, a prender atto con costernazione di questa incredibile realtà: «Che dici, abbiamo sofferto invano per una nuvola?» (v. 707).
Speriamo ardentemente che, anche nel nostro tormentato tempo, si smetta di assassinare i propri simili in nome della nuvola di turno.