Nella mia collezione di giornali, che – iniziata da mio nonno e mio padre – copre ormai più di cent’anni di storia italiana, non mancano ovviamente due quotidiani di domenica 24 maggio 1992, che a nove colonne annunciavano la strage di Capaci. Sono il “Corriere della Sera” (che titolava “Orrore, ucciso Falcone”) e il “Giornale di Sicilia” (“Strage a Palermo – Assassinato Falcone”).
Nella prima pagina del quotidiano milanese spiccava a sinistra l’editoriale di Saverio Vertone (1927-2011), intitolato “Il palazzo senza alibi”. L’inizio era desolante: «Non si sa chi abbia ucciso Giovanni Falcone. Non si sa perché sia stato ucciso. Non si sa a che serva averlo ucciso. Si sa soltanto dove, come e quando sono stati assassinati lui, la moglie e le altre vittime di questa ennesima strage. Importante è che sia avvenuta mentre i partiti tentavano faticosamente di riannodare le fila spezzate dei loro rapporti, dopo 11 giorni di inutili manovre al Parlamento. È perfino troppo facile collegare la nuova ecatombe siciliana con il vuoto istituzionale scavato a Roma dalla protratta impotenza delle Camere che, dopo veti multipli e incrociati, non sono ancora riuscite ad eleggere un presidente della Repubblica».
[Va ricordato che il precedente 25 aprile il presidente della Repubblica Francesco Cossiga aveva rassegnato le dimissioni e il Parlamento in seduta comune era stato convocato dal presidente della Camera Scalfaro il 13 maggio per l’elezione del nuovo capo dello stato. Per giorni e giorni si susseguirono scrutini inutili (vi ricorda qualcosa?). Ci volle la strage di Capaci per indurre i parlamentari, il 25 maggio, ad eleggere Scalfaro al XVI scrutinio, con 672 voti].
Nell’editoriale Vertone parlava poi di “un Paese disorientato e forse ammalato”, di “un debito pubblico enorme”, di “tre regioni al Sud che stanno uscendo dallo Stato per entrare nella malavita sudamericana”. La conclusione era drastica: «Dopo l’assassinio di Falcone nessuna inerzia, nessun calcolo, nessun ragionamento, nessuna vana geometria della politica potrebbero ancora giustificare lo scempio di un Paese che non è certo il migliore del mondo ma non merita quel che gli sta succedendo. In assenza di previsioni possibili e di giudizi plausibili, resta il nudo confronto dei fatti. Nello stesso Stato e nelle stesse ore, c’è chi può scoperchiare indisturbato una strada, minarla, con mille chili di tritolo, lavorando come l’Anas alla luce del sole e far saltare un alto funzionario della giustizia; e c’è un Parlamento frantumato in cento schegge che non riesce a ricomporsi per adempiere un suo compito elementare ed eleggere la massima autorità dello Stato. Ancora una volta la potenza del terrorismo cresce in corrispondenza dell’impotenza politica dei governi e dei partiti».
A pag. 2, nello stesso numero del “Corriere”, Felice Cavallaro dava i dettagli dell’attentato, mentre nella parte inferiore della pagina Enzo Mignosi descriveva la terribile serata vissuta la sera prima da Palermo. Quest’ultimo resoconto merita di essere citato, almeno nella sua parte iniziale: «Una città attonita, sgomenta, impietrita di fronte al più feroce attentato mai compiuto dai giustizieri della mafia in tanti anni di guerra contro lo Stato e i suoi rappresentanti. Non si sa, in questi momenti di smarrimento, se nel cocktail di emozioni prevalgano il dolore o lo sconforto, la rabbia o la rassegnazione. La notizia dell’eccidio cala come una pesantissima cappa su questa vischiosissima Palermo condannata alle stragi, alle mattanze, ai veleni. C’è una strana atmosfera per le vie del centro e nelle borgate della periferia quando alle 18.20 comincia il sinistro ululare delle sirene. Per un’ora la città è attraversata da ambulanze e da volanti, sfrecciano auto di polizia e carabinieri in una cantilena sinistra che lascia presagire qualcosa di molto grave. E perfino questa città capace di digerire senza fatica cadaveri eccellenti e polemiche scivola nell’incubo di un nuovo evento destabilizzante, dopo l’ultima offensiva criminale lanciata poco più di due mesi fa, con l’uccisione dell’eurodeputato Salvo Lima. Cosa sarà successo? Ad appesantire l’aria ecco sbucare gli elicotteri dei carabinieri. Volteggiano sui tetti, a non più di cento metri dalla selva di auto che paralizza la circolazione. Volano bassi, sembrano uccelli impazziti. Tagliano la città in lungo e in largo. Chi cercano? Chi inseguono? La concentrazione di forze dell’ordine è senza precedenti. Il canto delle sirene non ha tregua, si respira il clima della guerra. Le finestre e i balconi si affollano, da una sponda all’altra rimbalzano le domande ma nessuno è in grado di rispondere, di spiegare, perché radio e tv non hanno ancora cominciato il bombardamento di notizie che di lì a poco inonderanno le case. C’è solo spazio per le ipotesi, per le supposizioni. Ma siamo ben lontani dalla realtà. Il primo flash è delle 19 e parla con toni sfumati di “attentato a una nota personalità”. Si intrecciano le ipotesi più fantasiose, qualcuno telefona nelle redazioni dei giornali. Si diffonde il nome di Giovanni Falcone. “È ferito, ma si salverà». È ormai un sabato diverso e per le strade è scomparsa l’atmosfera festaiola che precede gli “sballi” della serata in discoteca».
Molto interessante, a pag. 3, è un breve ricordo dell’ultima lezione tenuta da Falcone all’università di Pavia: ai giovani studenti aveva dato, in tono pacato e a bassa voce, un messaggio di speranza («Le famiglie mafiose di Castelvetrano messe con le spalle al muro dalla procura distrettuale di Palermo sono la prova che il nuovo codice e le nuove strutture investigative consentono azioni complesse ed efficaci contro la criminalità»).
A pag. 4 emergevano le prime polemiche: Vittorio Grevi titolava il suo commento: «L’ora della vergogna per chi lo ha tradito», mentre Maria Antonietta Calabrò ricostruiva le ultime tormentate fasi della vita di Falcone, denunciando “invidie, gelosie e giochi di potere” di cui era stato oggetto; viene riferita una sua conversazione di poche settimane prima con un “magistrato amico” in cui Falcone aveva fatto una previsione disincantata e atroce: «Cosa Nostra fa sempre così: prima insozza la vittima e poi la fa fuori. Questa volta mi ammazzano davvero».
Il nome del “magistrato amico” viene taciuto. Mi colpisce il fatto che in tutte queste pagine non sia mai ricordato Paolo Borsellino; va detto invece che a pag. 4 il “Giornale di Sicilia” riportava in grande formato la celebre foto che unisce Falcone e Borsellino, in un simile contesto di denuncia del “fuoco di polemiche” che aveva creato le premesse per l’eliminazione di Falcone.
Sui giornali del 24 maggio nella ricostruzione della strage venivano riferite le tragiche modalità dell’attentato; così, ad es. sul “Sicilia” ne parlava Umberto Lucentini: «La morte questa volta ha il ghigno di un’eruzione. Di un’esplosione tremenda, venuta da sotto l’asfalto, da un cunicolo imbottito di dinamite che trasforma quei cinquecento metri della Punta Raisi-Palermo in un inferno di massi, cumuli di detriti, blocchi di cemento. Il cratere dell’esplosione è profondo dieci metri e largo trenta. La dinamite ha scoperchiato quel tratto di autostrada, l’ha sbriciolata. L’asfalto è raggrinzito, non c’è più».
Ebbene, come abbiamo letto prima, già il giorno dopo l’attentato Saverio Vertone si meravigliava del fatto che nel nostro Paese «c’è chi può scoperchiare indisturbato una strada, minarla, con mille chili di tritolo, lavorando come l’Anas alla luce del sole e far saltare un alto funzionario della giustizia».
E se oggi, persino su Wikipedia, si leggono nomi e cognomi di coloro che misero l’esplosivo sotto l’autostrada e i loro minuziosi preparativi (prove del funzionamento dei congegni elettrici, test di velocità, taglio dei rami degli alberi, sistemazione di tredici bidoncini caricati con circa 400 kg di miscela esplosiva nel cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada, collocazione di “sentinelle”, ecc.), nessuno dice come sia stato possibile che questi criminali abbiano potuto agire indisturbati in spazi pubblici e dai quali transitano continuamente migliaia di persone; e soprattutto con quale corso accelerato di tecnologia e di strategia militare (e tenuto da chi) alcuni rozzi assassini si siano trasformati in esecutori infallibili di un disegno criminoso di tale livello.
Come scrive oggi Salvo Palazzolo su “Repubblica”, «Trent’anni dopo, quel cratere sull’autostrada di Capaci è ancora una voragine piena di misteri. Ecco l’ultimo. La sera del 23 maggio 1992, un camionista telefonò al numero verde dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia: “Ieri, c’erano tre operai che stavano lavorando proprio lì dove hanno ammazzato il giudice Falcone – disse – e mi è sembrato strano, perché erano le 19.30, e poi avevano una tuta giallina troppo pulita per essere un fine settimana”. Una testimonianza importante, la telefonata fu inviata subito alla procura di Caltanissetta, che la fece trascrivere, ma non venne fatto nessun altro approfondimento: il verbale è rimasto per trent’anni in un archivio, dove “Repubblica” l’ha ritrovato. […] Trent’anni dopo, sono ancora tanti i punti oscuri di una strage che ha segnato la storia d’Italia. Nonostante tre degli esecutori materiali, diventati collaboratori di giustizia – Giovanni Brusca, Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo – abbiano assicurato che non c’erano presenze esterne nel commando messo in campo dalla Cupola mafiosa diretta da Salvatore Riina».
Non a caso nel 2013 la Procura di Caltanissetta archiviò l’inchiesta sui “mandanti occulti” poiché le indagini non avevano trovato riscontri investigativi; e il procuratore Sergio Lari, in un’intervista al “Giornale di Sicilia”, dichiarò: «Da questa indagine non emerge la partecipazione alla strage di Capaci di soggetti esterni a Cosa nostra. La mafia non prende ordini e dall’inchiesta non vengono fuori mandanti esterni. Possono esserci soggetti che hanno stretto alleanze con Cosa nostra ed alcune presenze inquietanti sono emerse nell’inchiesta sull’eccidio di Via D’Amelio: ma in questa indagine non posso parlare di mandanti esterni». [Pericoloso autogol, con cui Lari di fatto faceva un distinguo fra le due stragi del 1992… ma chi se ne è accorto?]
Sono passati trent’anni: sarebbe l’ora che lo Stato (a costo di denunciare l’indenunciabile) facesse chiarezza assoluta su questo e su tanti altri misteri della sua storia, anche perché – come scriveva Claudio Magris già sul “Corriere” del 25 maggio 1992 – «Falcone doveva essere protetto più di ogni altra personalità del nostro Paese, perché nessuno come lui incarnava lo Stato: se non si è saputo o voluto difenderlo, ciò significa che lo Stato non esiste».
Non a caso, alle 19 di trent’anni fa, nelle celle del carcere dell’Ucciardone si alzarono grida di giubilo e molti detenuti brindarono con vino e champagne alla morte di Falcone (la direzione del carcere si limitò a dire: “Non potevamo tappargli la bocca”). La disfatta dello Stato doveva essere festeggiata da chi aveva sempre sperato di sostituirsi illegalmente ad esso o di trasformarlo a propria immagine.