Negli anni Sessanta, quando passavo l’estate a Bagheria dai parenti, le estati erano forse meno roventi e inclementi di oggi, ma il caldo siciliano non faceva certo difetto.
Non esisteva l’aria condizionata nelle case e anche i ventilatori elettrici erano rari (se c’erano, erano rumorosi e spesso si inceppavano); unico conforto nei giorni più afosi erano allora, per chi stava in paese, i ventagli (quelli spagnoleggianti delle signore e quelli tondeggianti di cartone degli uomini) o… i gelati.
Qui c’era però un altro problema: non esisteva il freezer, anzi era già assai avere un frigorifero (elettrodomestico arrivato in molte case siciliane alla fine degli anni ’50). A Bagheria c’era la cosiddetta “Via del Ghiaccio” (fra la Madrice e il Sepolcro), dove si vendevano blocchi di ghiaccio che servivano a tenere al fresco alcune vivande (es. le angurie – i “muluna” – e la frutta; ma con i gelati non c’era niente da fare. Niente, se non andare a comprarli quando se ne sentiva il bisogno e consumarli immediatamente.
Ricordo bene, allora, che quando la famiglia si riuniva e ci si sedeva nello stretto e lungo balcone dei miei nonni materni in via Ciro Scianna, immancabilmente qualcuno invitava i ragazzi ad andare a comprare i gelati: “Va’ accatta i gelati”. Allora io o qualche mio cugino scendevamo, andavamo nel vicino corso Umberto (“‘u stratunieddu”) e compravamo i coni per tutti “da Carmelo”, in un piccolo chiosco posto proprio di fronte alla strada dei nonni. Ovviamente noi emissari procedevamo a casaccio, prendendo coni dei gusti più vari (cioccolato, caffè, nocciola, fragola, limone erano i più gettonati e quasi gli unici), facendo mettere il tutto in un grande vassoio e portando poi sollecitamente i gelati a casa.
C’erano coni più piccoli, da 10 lire, per i “picciriddi” (che – forse per forgiarli alle difficoltà dell’esistenza – avevano diritto a porzioni ridotte) e altri coni da 20 lire per i grandi. La panna era un optional inesistente e comunque non previsto dal budget dato agli incaricati.
A casa, il ghiotto incartamento veniva depositato sul tavolo del soggiorno e tutti allora si precipitavano a prendere il proprio gusto preferito, non senza alcune immancabili rimostranze (“’Un cinn’è cchiù cioccolatto?”, con 2 T…). Conquistato il cono, si andava a riconquistare il posto sulla “seggia” nel balconcino e ci si rinfrescava per qualche minuto.
A volte si faceva “sfrazzo” e si compravano le brioches farcite di gelato; ma lo si faceva quando c’era qualche ospite o quando c’era qualcosa o qualcuno da festeggiare.
Alla domenica era riservata la “torta gelato”, rigorosamente acquistata nel celebre bar Aurora in corso Umberto, che veniva ritirata all’orario di chiusura delle ricche imbandigioni domenicali. Per chi abitava vicino a Villa Palagonia la gelateria più frequentata era però quella (eccezionale) di don Gino Codogno, amico di mio padre (e come lui un tempo suonatore nella banda di Bagheria).
Oggi che i nostri freezer sono ricchi di gelati di ogni tipologia (come ad esempio, a casa mia, le leggendarie “bombette” e il tronchetto “giardinetto” prodotti da una piccola e ottima pasticceria dei dintorni), il ricordo di quell’assalto al vassoio ricolmo di coni (a volte semi-incollati fra loro nel trasporto) risulta forse un po’ patetico. Eppure a volte mi capita di ricordare con una punta di nostalgia quei coni da 10 lire che noi ragazzini divoravamo avidamente in pochi secondi, senza mai chiedere il bis (tanto non ci sarebbe stato) e senza fare mai gli schifiltosi se ci capitava un gusto non graditissimo (per me la fragola, che ho sempre considerato un ripiego…).