Ho trovato fra le mille carte di mio padre una copia della rivista “La Sicile illustrée” (sicuramente ereditata da mio nonno), risalente al 1910. Si tratta di un periodico elegantissimo, dal formato molto grande (32×24), con la carta patinata e una veste tipografica raffinatissima: presenta una doppia copertina, la prima più “grafica” con disegni di alto livello artistico, la seconda più informativa, con tutte le informazioni redazionali. La copertina presenta un volto femminile dipinto da Giovanni Battista Carpanetto, insigne pittore e pubblicitario torinese.
Il corredo d’immagini era ricchissimo: riproduzioni di stampe antiche, fotografie, disegni di artisti insigni, ecc.
Nel panorama della stampa periodica siciliana, che tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 mostrava innumerevoli iniziative culturali, “La Sicile illustrée” occupava un posto di rilievo; era l’organo ufficiale dell’Associazione Nazionale per il movimento dei forestieri e dell’Associazione Siciliana per il Bene Economico (quest’ultima fondata nel 1895 con uno statuto che fissava quale primo scopo il “contribuire al miglioramento delle condizioni morali ed economiche dell’Isola”).
“La Sicile illustrée” si incaricava dichiaratamente di “far conoscere all’Estero e anche nell’Italia Continentale le non comuni bellezze naturali ed artistiche dell’isola nostra e le vive nostre produzioni commerciali e industriali”. Fra i principali azionisti c’erano Ignazio e Vincenzo Florio, il conte di Francavilla, il duca della Verdura e i due direttori, cioè la duchessa Mara di Villa Gloria e il deputato principe Pietro Lanza di Scalea. L’editore era Salvatore Marraffa Abate di Palermo, un brillante imprenditore che vendeva di tutto (dai vini agli strumenti chirurgici alle stoffe) e dirigeva il Sicilian Information Office (S.I.O.), che forniva servizi di guide turistiche, pacchetti di viaggio e souvenir.
“La Sicile Illustrée” era indirizzata a un turismo d’élite; sin dal primo numero del 1904 vi comparivano articoli e inserzioni in varie lingue (francese, inglese e tedesco). Tra le rubriche si trovavano “Sicilia elegantissima”, “Le nostre dame” e “Carnet mondain”, che presentavano una rassegna di abiti e acconciature delle nobildonne più in vista (ad es. Giuseppina Lanza di Castelreale, Giulia Trigona di Sant’Elia, Franca Iacona di San Giuliano e altre dame d’onore della regina Margherita di Savoia) o interessanti resoconti di feste aristocratiche nelle varie case nobiliari o al Palazzo reale di Palermo (qui, tra le invitate elencate, la terza è “donna Franca Florio”).
Un mondo “alto”, indubbiamente, che però non ignorava il mondo del lavoro, magari con un po’ di paternalismo pietistico, ma spesso con un senso pratico che smentisce molti pregiudizi su una scarsa capacità imprenditoriale o su un tomasiano immobilismo della mentalità isolana.
Ho sfogliato la rivista, incuriosito. Il numero che ho trovato, il II del VII anno, è dedicato in modo preponderante al terribile terremoto che aveva colpito Messina il 28 dicembre 1908.
Particolarmente rilevante mi è sembrato immediatamente un editoriale della famosa giornalista e scrittrice Matilde Serao (che nel 1892 aveva fondato “Il Mattino” di Napoli con Edoardo Scarfoglio). La Serao nell’articolo “Le due Sicilie” sottolinea la vicinanza dei napoletani alla Sicilia in questa tragica occasione: «Noi, quaggiù, siamo sempre le due Sicilie: intorno a Napoli, intorno a Palermo, le due Sicilie, attraversate di monti, bagnate da due mari, minacciate da due vulcani, sono congiunte e strette in un nodo così saldo, che è impossibile sfiorare l’una senza far fremere l’altra, che è impossibile ferire l’una senza far sanguinare l’altra».
Proseguendo la lettura sono passato di sorpresa in sorpresa, perché quasi ogni pagina di questa preziosa reliquia ha un enorme interesse storico, letterario, antropologico, “culturale” in senso lato: ci sono articoli interessanti (alcuni in francese o in inglese), relazioni, poesie anche dialettali, elzeviri, disegni, fotografie, ampi necrologi di illustri vittime del terremoto. Fra questi ultimi ne ricordo due.
Viene anzitutto commemorato il talentuoso compositore musicale Riccardo Casalaina, nato a Novara di Sicilia il 19 maggio 1882 e morto nel sisma ad appena 26 anni insieme con la moglie Dora Lucifero (“con una creatura in grembo”). Aveva studiato nei Conservatori di Palermo di Napoli; un suo “mistero lirico”, “Attollite portas”, aveva destato “furore di entusiasmi”; come scriveva Francesco Guardione, «l’Attollite era più che un saggio: i grandi maestri, presenti alla audizione, baciarono con le lacrime il caro giovane». Altra opera molto lodata era l’Antony, definita «l’opera che gli avrebbe confermata quella fama universale, che niuno oserò contrastargli: vane e infruttifere potendosi rendere le petulanze grette del profano volgo» [queste ultime espressioni lasciano intendere che il successo del giovane compositore avesse scatenato invidie e critiche malevole, prontamente respinte dal Guardione, che appare legato a Casalaina da viva stima e forse da amicizia]. Infine, l’articolo ricorda che il giovane autore aveva già al suo attivo 96 componimenti, fra cui undici scenici: la sua Aretusa era definito «squisito componimento d’arte, applaudito al Vittorio Emanuele di Messina, applauditissimo al Massimo di Palermo». La conclusione gronda dello stile enfatico del tempo: «Ma se la catastrofe travolse momentaneamente il corpo, se la mente, pel gelido trasfuso dalla morte, cessò dalle concezioni, non muoiono le ispirazioni, che lo fecero caro ed ammirato in tutta Italia: le note dell’Antony, che risuoneranno su’ teatri e faranno le delizie degli ascoltatori».
Un altro commosso ricordo è dedicato, a firma V.S., alla principessa Maria Paternò Castellaci di Manganelli, descritta come donna affascinante, brillante nella vita mondana ma anche generosa e con evidenti tratti “mecenateschi”: «Ella era la donna eletta cui meritatamente spettava il posto d’onore nel mondo dorato dell’aristocrazia messinese. Giovane avvenente, colta, piena di spirito, era I’ anima dei salotti e dei balli, lo specchio dell’eleganza e della grazia squisita, la geniale organizzatrice di ogni gaia festa mondana e di ogni gentile pubblica manifestazione di beneficenza. La sua dolce figura di donna, era sempre la prima ad accorrere là ove la chiamasse la voce della Carità, là ove fossero lacrime da tergere, derelitti da consolare, pietosi da soccorrere. Aveva culto per l’arte e benevolenza per gli artisti; era premurosa e munifica coi giovani che mostravano d’avere ingegno e mancavano dei mezzi per farsi avanti; proteggeva tutto ciò che v’è di buono e nella vita, mantenendo sempre quell’affabilità di cui soltanto le grandi dame posseggono il segreto. Era nata a Catania, dal Principe di Sperlinga e Manganelli e dalla Baronessa di Donnafugata. Aveva sposato, giovanissima, in Messina il Principe Don Francesco Marullo di Castellaci; ma a Messina risiedeva poco. Ella aveva la passione dei viaggi, e girava buona parte dell’anno per le metropoli europee, ove contava infinite relazioni tra la migliore società cosmopolita, lasciando ovunque il fascino della sua bontà e della sua signorile bellezza. I tre mesi d’autunno li passava, di solito, neI suo splendido, vecchio ed amato castello di Donnafugata presso Ragusa di Sicilia, ereditato dal nonno materno: il Barone di Donnafugata, Senatore del Regno. E l’alba del 28 dicembre 1908, travolse nella immane distruzione di Messina anche questa magnifica donna, cara a tutti , da tutti stimata, onorata, riverita, per la quale ogni rimpianto non basterebbe ad esaltare le doti che ella aveva nel cuore e nella mente. Fra le macerie immani del suo elegante e bel palazzo, dopo infinite, accurate ed amorose ricerche, venne, dopo parecchi giorni, ritrovato il suo corpo esanime, e fra le macerie scoperto anche l’ultimo suo atto munifico: il testamento, col quale lasciava un legato di circa centomila lire in favore di alcune opere di beneficenza in Ragusa».
Un commosso articolo a firma L. Barboni (un messinese trapiantato a Pistoia) si intitola “Risorgeranno!” ed è rivolto al ricordo dello splendore di Messina prima del terremoto: vi è descritta una città animata, “smagliante di bellezza olimpica”, fervida di vita, in occasione di una festa “celebrante le virtù celestiali di non so più bene qual sua Madonna protettrice”. Eccone uno stralcio: «Messina l’avevo riveduta un anno innanzi nello splendore della stia anima, nell’esuberanza della sua gaiezza, dei suoi sorrisi, in agosto, tutta parata a festa, celebrante le virtù celestiali di non so più bene qual sua Madonna protettrice. Protettrice!… Ah! … L’avevo riveduta trainare per le sue belle e lunghe vie i due giganti sgorbiati nella tela ingessata, Mata e Grifone, presunti fondatori della città tremila settecento ventidue anni innanzi, competitori di Brione, due coniugi mostruosi da far fuggire per la paura il più ardito fra i preti o il sindaco più corazzato di croci che se li fosser visti comparire dinanzi. Dagli zoccoli dei palafreni alla testa dei coniugi, cinque metri! Il contadiname rotolato in città dai colli, dai monti, da oltre lo Stretto, la plebe in gonnella e in calzoni, la bimbetteria grattantesi e coi nasi sudici, teneva alti i medesimi, si pestava, si scapaccionava e gridava evviva a perdifiato. Su quel mare di teste ondeggianti, su quelle migliaia di frementi ch’eran figliuoli o nepoti o bisnepoti degli eroi del ’48, il sole agostano pontificava temperato dal maestrale. Mata e Grifone, seri, impassibili come due foche, davan trabalzamenti grotteschi. L’avevo riveduta la sera, smagliante di bellezza olimpica come Venere, come Giunone, come Minerva. Pel corso Garibaldi, abbagliante di mille archi a fiammelle, di bandiere, di festoni, di trofei, di negozi opulenti e vividi riboccanti di buon gusto e civetteria pariginesca, andavano in due file interminabili attacchi signorili e carrozze di nolo, tutto un trionfo di sprazzi, di lucciconi, di spagliettii, che dava le vertigini. Le belle messinesi, aristocrazia e democrazia, passavano e ripassavano in pose di quella, superbia affascinante, non nauseante, non provocante che sola può e sa dar la bellezza e la coscienza della propria bellezza. Pareva lo sfilare delle matrone romane durante gli occasi estivi, o le notti illuminate da fiaccole, per la grande via Appia antica. Non come quelle avevano il fosforo nelle chiome corvine, ma avevano stelle per occhi. La Palazzata, Piazza del Municipio, Via Cavour, tutto era una fantasmagoria, e dovunque fasci di luce e fasci di fiori. Il superbo Giardino pubblico lungo mare era più che una fantasmagoria; era il paradiso in terra. […] Dalla gaia Villa San Giovanni, da tutta la costiera calabrese specchiantesi nello Stretto, dalla nobile ed eroica Reggio, nobile fiera e gentile come la sua consorella, greca, venivano e approdavano barche senza posa rigurgitanti di uomini e donne avidi di festa, di canti, di suoni, di trapestio. La sera, o meglio la notte, alle 11, doveva esservi, e vi fu, quel che i meridionali specialmente non vorrebber tralasciar di vedere e di sentire, nè men se Domineddio promettesse loro la gloria eterna dei cieli: i “giuochi di fuoco”. E la promessa fu signorilmente mantenuta. L’andàna della Palazzata, il gran viale del Foro, il giardino pubblico, tutto era un pigia pigia. […] Alle 11 in punto, circa trecentomila petti sprigionarono un lungo brusio di soddisfazione, e i razzi guizzarono al cielo, e le girandole girarono. Sicuro; le girandole girarono. Poi cominciò il bombardamento; un vero e fracassoso bombardamento da far pentire la stessa non so più qual Madonna a darsi l’aria di protettrice di Messina. Pareva che il brutto zoppo dio Vulcano fosse entrato briaco nella sua fucina delle Isole Eolie e scaraventasse tutto fuor di bottega con un potassio da inorridire, scegliendo a bersaglio dei suoi proiettili la regina del Faro in quel momento gaudentissima e sfavillante di tutta bellezza». La seconda parte dell’articolo descrive invece la notizia del terremoto, giunta a Pistoia la mattina del 29 dicembre 1908, e portata a Barboni da “un amico con occhi e gesti e voce di spiritato”: “Messina e Reggio distrutte dal terremoto! Ducentomila morti!”. E tutta Pistoia scende in piazza, “perché le pubbliche immani calamità hanno questo di speciale: chiamano e chiameranno sempre nelle vie gli uomini, senza che il campanone medioevale suoni a martello. Rimane e rimarrà sempre, speriamo, questo di buono in questo brutto basso mondo reo e balzàno: il dolore accomuna”. Il finale è un commosso inno di fiducia nella “resurrezione” di Messina e Reggio: “Oh certo, Messina e Reggio le belle, Messina e Reggio le eroiche, Messina e Reggio le solatie, le gentili, le amate dal mondo intiero, le invidiate e percosse dalla natura iniqua, le angariate dal cinismo, risorgeranno!».
Interessantissimo è un rapporto “Intorno al commercio di Messina prima e dopo il terremoto” del prof. Augusto Ramdor, da cui emerge la vitalità economica del territorio prima della catastrofe, con esportazioni di agrumi in tutto il mondo (in testa gli Stati Uniti), una buona industrializzazione dei prodotti (con numerosi “opifici”), una ricca produzione di “essenze” (limone, bergamotto, arancio) e canditi, ecc.
C’è persino un progetto di “nuovo piano regolatore e ampliamento” della città di Messina a cura del cav. Luigi Borzi, con tanto di pianta. Fra i contributi c’è quello del famoso scrittore e critico Arturo Graf, che presenta una breve ma intensa esaltazione della città di Messina, “antica più di venticinque secoli, vanto di un’isola in eterno gloriosa”.
Come si vede, una serie di contributi decisamente interessanti, che aprono uno spaccato storico e antropologico su quel momento di “Belle Époque” spazzato via prima dal terremoto e poi dalla guerra. E tuttavia sarebbero da approfondire gli studi, per appurare quanto di questo mondo fervido, operoso e idealizzato arrivasse fino alle grandi masse popolari del Sud, che in questo mirabile affresco sono definite come “contadiname” e destinate solo alla munifica generosità occasionale dei “signori”.
Grazie Mario, veramente interessante questo tuo ritrovamento. Lo girerò ad alcuni amici e parenti messinesi. Lì il terremoto del 1908 rimane una ferita ancora non del tutto chiusa.